C’è un festival, nato come un ritrovo tra amici, un concerto organizzato dai gruppi di una scalcagnata sala prove, che in dieci anni è diventato uno dei punti di riferimento della musica punk hardcore in Europa, dove arrivano a suonare band provenienti da tutto il mondo, dal Giappone, dagli Stati Uniti, da ogni angolo d’Italia e del continente.
E c’è un luogo, affacciato sulla laguna più bella e fragile del mondo, che da più di un secolo è diventato il deposito di tutto quello che la Venezia gentrificata e abbagliata dalla chimera del turismo, incurante dei suoi abitanti, vuole a tutti i costi dimenticare, nascondere alla vista, mettere a tacere. La storia delle sue fabbriche, l’inquinamento, le morti degli operai avvelenati sul posto di lavoro. Le lotte dei lavoratori e le conquiste sindacali. Il terrorismo. Le speculazioni immobiliari, l’abbandono di interi quartieri. La povertà, il disagio abitativo, l’eroina che continua a uccidere. I migranti che, non riconosciuti, sorreggono l’economia della città. Una comunità, forse stanca e disillusa, ma ancora unita, solidale, generosa.
È qui, a Marghera, che il festival Venezia Hardcore ha trovato la sua casa.
Il Rivolta, con i suoi muri colorati, è visibile dalla grande strada che divide il centro abitato dai confini della prima zona industriale. Negli ampi spazi del centro sociale, occupati dal 1995 dopo la chiusura di una storica manifattura di spezie, si radunano appassionati di tutte le età, giovanissimi punk e metallari, si vedono creste di capelli colorati e ragazze con il taglio Chelsea, skaters pronti a sfidarsi sulla rampa allestita all’interno del grande hangar, dove si trova l’area dedicata al merchandising, alla vendita di magliette, dischi e vinili.
Attorno alle 20 cominciano i concerti. È venerdì, il primo di due giorni di festival. Ventinove band si alterneranno sui due palchi, con orari precisissimi, e il pubblico farà la spola tra le due sale. A seguire tutti gli aspetti dell’organizzazione, dalla logistica ai veloci soundcheck prima delle esibizioni, sono i molti volontari che fanno parte del collettivo di band del Venezia Hardcore.
Questo è uno dei maggiori punti di forza del festival: una scena locale coesa e attivissima, che proprio grazie al festival è cresciuta molto anche dal punto di vista della qualità della proposta musicale, con le band più giovani spesso messe in apertura a quelle più esperte. Su tutte, gli Slander, guidati dal frontman italo-curdo Samall Ali, tra le poche band hardcore italiana della nuova generazione capaci di andare in tour in tutto il mondo, dalla Russia, al Messico, al Sudafrica. Qui hanno suonato i Nabat e le colonne dell’hardcore italiano Raw Power, mentre dall’estero in questi anni sono arrivati gruppi come gli statunitensi Trash Talk o le leggende giapponesi Death Side e Mustang e gli svedesi Satanic Surfers.
I Konquest e i Game Over danno gioia a chi tra i presenti è cresciuto a pane e classic metal, mentre con i concerti di Guinea Pig e Fulci l’oscurità sembra prendere il sopravvento, con dei suoni che sembrano provenire direttamente dall’inferno.
Poi salgono sul palco gli headliners della serata, gli statunitensi Dropdead, attivi fin dagli anni novanta e da sempre molto impegnati politicamente. Il frontman Bob Otis a un certo punto si rivolge al pubblico: “You have the voice. You have the power. You have the numbers”, e il suo è un appello che vorrebbe scongiurare il ritorno del fascismo, un tetro presagio di quello che sarà l’inizio della settimana dopo il festival e dopo le elezioni.
Sono simili, il giorno dopo, le parole del cantante dei milanesi Golpe, che ricorda a tutti come siamo noi a scegliere, a decidere cosa consumare, chi boicottare. Anche se o con accezioni e sfumature molto diverse, anche se ogni band proviene da scene con storie lontanissime, la consapevolezza politica è una costante del festival, che tiene insieme antifascismo e veganesimo, critiche al capitalismo ed etica anticonsumista dell’austosufficienza.
La cura del pogo
Il sabato è la giornata con più pubblico, i concerti cominciano verso le 16. Nonostante i nuvoloni che incombono, sullo spiazzo esterno del Rivolta si radunano in tantissimi, anche delle famiglie con bambini attrezzati di grandi cuffie antirumore. Gli ingressi registrati nelle due giornate saranno più di 2.500.
C’è tanto spazio per la nostalgia, soprattutto per chi è cresciuto frequentando i concerti punk e hardcore negli squats o nei circoletti italiani negli anni novanta. C’è la reunion dei 400 Colpi, c’è il ritorno dopo quindici anni della band torinese dei Frammenti e si ritrova la formazione originale dei Melt, vicentini, tra le molte band che hanno attraversato quella scena di punk velocissimo e melodico esploso tra gli anni novanta e i primi anni duemila, con moltissime formazioni attive soprattutto in Veneto.
Ma sono due le band più entusiasmanti della seconda giornata: i Big Cheese e i The Flex, entrambe di Leeds, che suonano in due momenti diversi, scambiando qualche componente.
In entrambi i concerti sotto il palco si scatena un meraviglioso caos. Persone che volano, facendo stage diving e arrivando da un lato all’altro della sala. Altri che corrono in circolo, si scontrano, saltano, spingendosi e prendendosi a spallate. Per chi non c’è mai stato, quello che succede a questi concerti può sembrare violento. Il pogo in realtà è una danza, che si fa in tanti. È un combattimento simulato, un ballo collettivo caotico, disordinato, eppure con una sua armonia. Nessuno si fa male veramente. Se qualcuno cade, prontamente dieci mani arrivano a rimetterlo in piedi. È un modo, esuberante e scomposto, di tirare fuori tutta la rabbia, l’energia, l’adrenalina. È una cura, e qui sono in tanti ad apprezzarla.
All’interno del centro sociale c’è un’osteria che offre ombre e cicheti, poi uno spazio più grande adibito a pizzeria. Su una parete c’è una gigantografia di una foto che ritrae gli attivisti sul tetto del Rivolta, nel marzo 2001, quando qualcuno aveva ordinato lo sgombero, poi revocato. Tra i tavoli, sulle pareti, ci sono le testimonianza delle battaglie di questi anni, dalle proteste contro le assoluzioni al Petrolchimico al G8 di Genova, alla lotta per portare le grandi navi fuori dalla laguna. Ci sono i poster di concerti, di eventi teatrali, presentazioni di libri. Locandine di manifestazioni transfemministe, feste di Carnevale, assemblee pubbliche sulla casa.
Dalle occupazioni abitative agli appelli contro le guerre e l’imperialismo, dalla marcia per la giustizia climatica alle proteste degli studenti più giovani dopo la morte di Giuliano De Seta durante l’alternanza scuola lavoro, mentre lavorava in un’azienda a una quarantina di chilometri da qui. È un territorio ferito, questo, dove la collera scorre sotterranea, a rischio di debordare. A volte succede che si riesca a raccoglierla, a darle una forma. Un concerto hardcore è ancora uno dei modi migliori per esprimerla.
Comincia a piovere. A chiudere la serata saranno le chitarrone stoner degli Ojm, ma ora sul palco ci sono i Klasse Kriminale, che con uno stile scanzonato e sempre impegnato hanno raccontato a modo loro l’Italia degli ultimi quarant’anni. Parte Oi! Fatti una risata, inno conosciuto da tutti, cantato in coro dalla sala strabordante con le birre alzate. Eccolo il ritrovo tra amici, la festa da cui nessuno vuole più andare via. Il Venezia Hardcore è un urlo di scherno e rabbia, un avamposto che da Marghera fa sentire la sua voce, finché c’è fiato, finché c’è vita.
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