Un ufficio trasformato in una casa, pochi metri quadrati senza un bagno e una credenza a dividere la camera da letto dal salone. “Questo è tutto!”, dice Carla spalancando le braccia sull’uscio. Da dodici anni vive qui, al secondo piano di un palazzo occupato alla periferia di Roma. È anziana e invalida, esce solo per andare in ospedale o dal medico.
Carla, 64 anni, racconta la sua storia a patto che non si riveli il suo vero nome. Nel 2000 ha fatto domanda per un alloggio popolare. In graduatoria aveva racimolato un ottimo punteggio. Nel frattempo dormiva per strada, sulle panchine della stazione Termini, e di giorno si dava da fare per trovare un lavoro che le permettesse di pagare un affitto. L’impiego poi è arrivato, in una ditta di pulizie che la pagava 700 euro al mese. “Ma quando non mi hanno rinnovato il contratto, occupare è stato l’unico modo per avere un tetto sopra la testa”. Carla ha fatto altre richieste di un alloggio popolare negli anni a seguire. Ma sta ancora aspettando una risposta dalle istituzioni. “La casa me la daranno quando sarò morta? Non me ne farò nulla”, dice.
I mezzi d’informazione parlano di emergenza abitativa. I sindacati degli inquilini e le organizzazioni del movimento di lotta per la casa la considerano, invece, una questione strutturale delle città italiane. Le graduatorie per gli appartamenti di Edilizia residenziale pubblica (Erp) sono infinite. Gli alloggi popolari, in molti casi, non vengono costruiti da decenni. E, stando alle elaborazioni su dati del 2016 della Federcasa, l’associazione di categoria degli enti gestori, su 785mila case pubbliche esistenti in Italia, 55mila risultano sfitte. Appartamenti non assegnati per mancata manutenzione, perché fatiscenti o per qualche ostacolo burocratico.
Un vuoto che pesa, anche economicamente, sulle strategie di contrasto alla precarietà abitativa.
Sempre secondo Federcasa, sono 320mila le richieste inevase di casa popolare, mentre il bacino potenziale degli aventi diritto è di 1,8 milioni di persone. Per fronteggiare questa situazione, dicono all’associazione, bisognerebbe realizzare 200mila nuove case popolari e rigenerare il patrimonio esistente. Federcasa ritiene che le risorse messe in campo dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) siano “notevolmente sottostimate rispetto alle necessità reali e, soprattutto, non incidono significativamente sulla disponibilità di nuove abitazioni”.
Secondo la Federproprietà, nel 2016 a Bologna 604 alloggi pubblici erano inutilizzati. Il sindacato inquilini Sunia recentemente ha denunciato che in Toscana ci sono 3.600 appartamenti Erp sfitti. In Campania, l’amministrazione regionale ha creato una piattaforma telematica unica per le assegnazioni e la mappatura delle case popolari e del fabbisogno abitativo. A Napoli la graduatoria non veniva aggiornata da circa vent’anni: così gli appartamenti, una volta restituiti per cessata locazione, non sono stati riassegnati.
Milano è il caso più eclatante. Secondo l’ultima rilevazione, dello scorso marzo, sono 5.555 gli appartamenti sfitti dell’Azienda lombarda per l’edilizia (Aler Milano) e 5.580 quelli gestiti dalla Metropolitana milanese (Mm), società creata dal comune nel 1955 per progettare e gestire le principali infrastrutture metropolitane, che dal 2014 cura il patrimonio immobiliare della città. “Molti alloggi sono ancora in fase di ristrutturazione. Molti sono usurati dal tempo e quindi indisponibili. Altri vengono lasciati fermi in attesa di essere messi sul mercato e venduti per esigenze di bilancio, soprattutto per quanto riguarda Aler”, spiega Bruno Cattoli, dell’Unione inquilini Milano. Inoltre, sottolinea, il processo di assegnazione è un percorso a ostacoli reso macchinoso dalle procedure burocratiche e dai controlli sulla documentazione dei richiedenti, che prendono altro tempo. Passano mesi prima che l’inquilino possa mettere piede nella casa che gli spetta.
Da maggio del 2018, come riporta il sito del comune di Milano, sono stati recuperati 3.986 alloggi. E la città ha un numero di assegnazioni annuali di circa mille unità, più alto rispetto alle altre metropoli italiane. “Ma comunque insufficiente per rispondere alle esigenze delle 15mila famiglie che intasano le liste dell’edilizia residenziale pubblica”, dice Cattoli.
Venezia sold out
Maria è cresciuta in una casa popolare a Venezia. La prima domanda per un alloggio le è stata respinta: non aveva i requisiti per accedere alle graduatorie. Così è andata a vivere da un parente, sempre in un appartamento Erp, chiedendo l’ospitalità temporanea e pagando un’indennità di occupazione. “Ho sempre lavorato e sono stata in grado di mantenermi da sola”, tiene a precisare. È un’impiegata, guadagna 1.300 euro al mese. Il suo stipendio, però, non basta per pagare un affitto privato a Venezia, a cui si aggiungono le bollette sempre più alte.
Nel frattempo il parente assegnatario dell’appartamento è deceduto e oggi Maria rischia lo sfratto, nonostante abbia sempre pagato ciò che doveva. “Da qui non mi muovo. In molti mi dicono di andare a cercare un posto fuori Venezia. Perché non posso continuare a vivere dignitosamente nella mia città?”, dice.
La sua storia illustra bene il processo di espulsione del ceto medio proletarizzato dalla laguna. “Le istituzioni non riconoscono la crisi residenziale in corso e Venezia si sta svuotando anno dopo anno per mancanza di una politica adeguata sull’abitare”, dice Raffaele Bolani, presidente della Consulta civica veneziana sulla casa, nata per analizzare la situazione abitativa e strappare informazioni alle istituzioni, dopo la dismissione nel 2015 della consulta “istituzionale”. Un “cuscinetto sociale”, come la descrive Bolani, che fa da tramite con l’Erp e dà un aiuto pratico ai cittadini.
L’Osservatorio civico sulla casa e la residenza (Ocio), nato sempre a Venezia per analizzare le dinamiche urbane del capoluogo veneto, ha mappato il patrimonio di edilizia residenziale pubblica, in particolare le case vuote. Stando ai dati dello scorso giugno, avuti attraverso un accesso agli atti, risultano non affittati 2.208 appartamenti. Un’abitazione popolare su cinque: 1.274 alloggi gestiti dall’Ater Venezia e 934 da Insula Spa, di proprietà del comune. Di questi, 505 rientrano tra gli “inutilizzati” e 123 sono in manutenzione. “Il comune fa solo manutenzione ordinaria. Non mette un centesimo in più per le case popolari”, dice Orazio Alberti che ha analizzato per conto dell’Ocio il tessuto residenziale di Venezia. Un suo studio evidenzia come i fondi per il recupero delle case popolari sfitte provengano “interamente da risorse stanziate dallo stato (14 milioni di euro) o dall’Unione europea (5,6 milioni di euro)”. Il contributo dell’amministrazione, per il 2021, “è risibile, pari a 881 mila euro”.
“La turistificazione di Venezia ha limitato il mercato degli affitti privati, imponendo prezzi stratosferici, in un contesto economico aggravato dalla crisi conseguente alla pandemia”, dice Alberti. L’Osservatorio è tra i promotori della campagna Alta tensione abitativa (Ata): comitati di quartiere, collettivi e associazioni hanno lanciato una proposta di legge per regolamentare le locazioni brevi per tutte quelle città – individuate da un comitato interministeriale – dove è difficile trovare un alloggio. Una legge da allargare su tutto il territorio nazionale “per affermare un principio inderogabile di riappropriazione dello spazio urbano”.
Caos Roma
“Le occupazioni abitative sono diventate un ammortizzatore sociale perché le case pubbliche sono poche e gestite male”, dice Michele Giglio, esponente dell’Asia-Usb, seduto dietro alla scrivania del suo ufficio. Lo sportello sindacale è incuneato tra i lotti a schiera del quartiere romano di San Basilio, al piano terra di una palazzina. La borgata, a ridosso del grande raccordo anulare, conta circa 3.500 abitazioni popolari. Lo sportello – due stanze comunicanti tappezzate di manifesti e faldoni – è un viavai quotidiano di persone che cercano assistenza.
Secondo l’Asia-Usb nel quartiere ci sono un centinaio di alloggi vuoti. “Ma con le ultime assegnazioni, dobbiamo fare nuovi calcoli”, dice Giglio. Il sindacalista si riferisce alle 141 case popolari date alle famiglie che vivevano nell’occupazione di viale delle Province, uno stabile lungo la via Tiburtina. Grazie al “passaggio di casa in casa” le famiglie sono state trasferite senza l’uso della forza pubblica. Un risultato reso possibile dalle trattative, durate anni, che il movimento di lotta per l’abitare ha intavolato con l’amministrazione.
Il comune di Roma ha stanziato 220 milioni di euro per “l’acquisto di immobili da destinare alle politiche per la casa”, come riportato sul sito. “Non abbastanza per colmare il deficit abitativo della capitale”, sottolinea Giglio. A Roma sono circa 14mila le famiglie in graduatoria. Secondo l’Unione inquilini ne vengono assegnate tra le 150 e le 200 all’anno. Ma da agosto 2021 allo scorso febbraio sono stati consegnati solo 37 appartamenti. Uno degli ostacoli principali, secondo il sindacato, è l’ingorgo delle pratiche negli uffici del dipartimento politiche abitative, che soffrono una carenza cronica di organico. “Oltre alla mancanza di manutenzione ordinaria e straordinaria degli stabili, costruiti nel secolo scorso”, aggiunge l’esponente di Asia-Usb.
Silvia Paoluzzi dell’Unione inquilini spiega che, quando un appartamento viene assegnato, il nuovo inquilino firma un foglio dove dichiara che i lavori di ristrutturazione sono a suo carico. “Per questo motivo a Roma le case sfitte sono poche rispetto alle altre città”.
Ma gli stabili sono da rimettere completamente a nuovo. L’organizzazione inquilini ha stilato una lista di solleciti rivolti all’ente gestore che riguardano i caseggiati Erp in quartieri come Spinaceto, Lamaro e Primavalle. Terrazzi allagati, infiltrazioni, muffa alle pareti, crollo dei soffitti e dei cornicioni e ascensori bloccati sono alcune delle problematiche incontrate. Giglio, dell’Asia-Usb, mostra delle foto di cantine sommerse d’acqua e ricorda le proteste che il sindacato ha organizzato quando molti comprensori popolari sono rimasti senza riscaldamenti nel 2019.
Il comune di Roma ha pubblicato un bando da cinque milioni di euro per fare opere di manutenzione negli alloggi di sua proprietà. Una delibera della regione Lazio ha previsto la vendita di 3.544 alloggi dell’Ater Roma. Il ricavato ipotizzato è di 423 milioni di euro: 218 milioni di euro saranno utilizzati per acquistare nuove case popolari e 150 milioni di euro per risanare le case dell’ente. “L’Ater poteva sfruttare il bonus del 110 per cento ottenendo degli incentivi. Ma non è successo. E l’occasione persa del Pnrr per progettare un nuovo modello di edilizia pubblica ricadrà inevitabilmente sulle spalle di chi oggi non può permettersi una casa”, dice Paoluzzi.
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