Le “canzoni dell’estate” sono uno dei classici dell’estate italiana. Se nel resto del mondo continuano a uscire come se niente fosse album sempreverdi (a luglio, tra gli altri, il mercato accoglierà quelli di Travis Scott e dei Blur), da noi va tutto in pausa e si gioca un campionato a parte. Va in pausa, infatti, la pubblicazione di ogni disco d’inediti, di ogni brano che non sia in tema, e si lascia spazio a singoli da spiaggia che raccontano di sole, mare e vacanze. Qualcuno, quando va bene, contribuisce perfino a ridefinire quell’immaginario stesso.
Non siamo gli unici, certo, a viverla così, ma qui la faccenda è più seria che altrove, con programmi televisivi come Un disco per l’estate e il Festivalbar che hanno consacrato tutto ciò a tradizione, addirittura eleggendo la canzone dell’estate. C’è una dinastia vera e propria, insomma, di brani che raccontano l’estate: si comincia nel 1963 con Sapore di sale di Gino Paoli e si passa per la nascita del pop moderno di Acqua azzurra, acqua chiara di Lucio Battisti (1969), fino alle sensazioni futuristiche di Vamos a la playa dei Righeira (1983) – da poco raccontate in un libro, Oh, oh, oh, oh, oh (nottetempo), che spiega proprio il gancio “sociale” di certe hit – e all’età dell’oro degli anni novanta.
Poi nel 2008 il Festivalbar chiude e il concetto che l’accompagna sfuma, si annacqua. Lì comincia un’età di mezzo, meno istituzionalizzata, dove hanno la meglio delle canzoni qualsiasi buone però anche per l’estate, che ci sono sempre state ovviamente, ma che non sono rimaste nella memoria come quei pezzi che invece descrivono proprio l’estate, i suoi stereotipi, il modo in cui si vive in quel momento.
Oggi, basta accendere la tv una di queste sere, sono ripartite rassegne sul modello di Un disco per l’estate (Tim summer hits è la più grande), mentre i social (TikTok in particolare) si occupano del resto. Non sono la causa, ovviamente, ma la conseguenza del ritorno a pieno regime dell’archetipo di canzoni concepite proprio per l’estate. Solo che intorno, intanto, è cambiato tutto, e di riflesso anche le canzoni stesse. Non erano mai state così tante – c’è chi ne ha contate un centinaio, un numero da saturazione. E non erano mai state così uguali tra loro, poco creative, aderenti a una necessità di esserci, e basta.
È come una ritualità da cui è impossibile esentarsi, raccontata bene da una coppia di popstar fuori dalle regole come Colapesce e Dimartino in Considera, quasi un’anti-canzone sulla fatica dei musicisti a restare al passo con tutto ciò, ma che alla fine si arrende anche lei alla corrente. Come si chiedeva Nanni Moretti: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. In disparte, certo, però quest’estate ci sono anche loro.
Probabilmente comunque siamo al picco, all’estremizzazione di una tendenza tra l’altro già evidente da qualche anno. L’inizio va cercato nel 2015, quando con Roma-Bangkok Baby K e Giusy Ferreri – due che per esasperazione si sono tirate fuori dal giro che loro stesse hanno innescato – hanno recuperato e aggiornato il tema con una formula nuova, che ammiccava all’evasione dalla routine (il viaggio, cioè, da Roma a Bangkok) e sfruttava suoni reggaeton importati dal Sudamerica, a dare ulteriore fascinazione esotica. Risultato: un successo clamoroso; e la discografia che, di riflesso, comincia a produrre in serie pezzi con un sound identico a quello e dei testi pieni di mete lontane, nomi di cocktail e il resto. Si è rimesso in moto tutto.
I pezzi devono essere brevi, in linea con le soglie d’attenzione di oggi
L’altro snodo fondamentale è del 2021, quando Fedez – uno che dal 2016 in varie forme non manca all’appuntamento con la stagione, e che ha trasformato il pezzo dell’estate anche in un’operazione di marketing – ha stabilito gusti e tendenze che hanno seppellito il reggaeton. Era l’anno di Mille, con Achille Lauro e Orietta Berti, classe 1943 e ottimo viatico per introdurre il tema della nostalgia nel racconto di queste estati italiane. La successiva, felliniana La dolce vita con Mara Sattei e Tananai (2021) ha confermato la bontà commerciale dell’intuizione, costringendo gli altri ad adeguarsi. Questa Disco paradise con Annalisa e Articolo 31, che cita Battisti, ha già perso ogni slancio di novità, e fa sembrare oggetti d’antiquariato i pochi che ancora seguono il Sudamerica, come Taxi sulla luna di Emma e Tony Effe eMani in alto di Elettra Lamborghini.
La traccia, quindi, è ancora quella di Roma-Bangkok, cioè l’evasione dalla quotidianità, ma se prima la fuga era in direzione di un altro continente, ora è verso un’epoca lontana, magari più spensierata, comunque mai vissuta da gran parte del pubblico. Tradotto, nei pezzi di quest’estate c’è nostalgia ovunque: c’è nostalgia in Italodisco dei The Kolors (che nomina il Festivalbar), ma c’è anche nel pop d’autoscontro di Mon amour di Annalisa, nei campionamenti vecchia scuola di Rosa Chemical (Bellu guaglione) e Myss Keta (Profumo), perfino nel reggae in stile Loredana Bertè di Achille Lauro e Rose Villain (Fragole); e sono nostalgia pura il ritorno di Paola & Chiara (Mare caos), la voce di Mina in Un briciolo d’allegria di Blanco, i ricordi da cartolina di Coma_Cose (Agosto morsica) e Madame (Aranciata), così come ce ne sono tracce negli altri pezzi minori, dei tanti gregari che comunque ci provano.
Le regole, ovviamente, sono stabilite dal mercato: i pezzi devono essere brevi, in linea con le soglie d’attenzione di oggi; possono essere slegati da un album di riferimento, perché piattaforme come Spotify premiano il “flusso continuo” (la produzione, cioè, di inediti) piuttosto che le uscite scaglionate di album, che magari vedono la luce ogni due anni; e devono prevedere quasi sempre un duetto, anche qui perché i numeri dello streaming benedicono scelte del genere. Nessuno deroga, tutti si accodano, con corsia preferenziale per gli italiani, come del resto le classifiche testimoniano in ogni stagione.
Tutto questo perché, in generale, negli ultimi anni si è assistito a un aumento esponenziale delle uscite settimanali, in parte alimentate dalle richieste stesse delle piattaforme e in parte dalla necessità di esserci, dalla facilità con cui si registrano e pubblicano brani (non c’è più bisogno di un album alle spalle) e dalla tendenza a collaborare tra gli artisti, che accorcia i tempi di lavorazione e moltiplica le opportunità. Il resto lo fa un mercato dai gusti liquidi, in cui tutto è “pop” – il rap, l’urban, ma anche l’indie stesso – e che lascia le porte ampiamente aperte, purché ci si adegui alle regole del gioco.
Spartirsi la torta
Ed è questo il punto. Come in una corsa all’oro, sembra ci sia spazio per tutti, e che seguendo le indicazioni del pubblico ci si potrà spartire la torta in parti più o meno ampie. Come fosse una sorta di cartello: nessuno esce di strada, nessuno rischia di farsi male o di far male all’altro; se la gente vuole nostalgia – perché, evidentemente, questo è il sentimento diffuso in un momento di crisi anche solo morale come quello che stiamo trascorrendo – avrà nostalgia, rigorosamente nelle forme che chiede.
La conseguenza, com’è evidente, è un appiattimento che fino a poco tempo fa non era così evidente. Certo, non che trent’anni fa uscissero sempre chissà quali capolavori. Però in un mercato più rigido nella dinamiche ma paradossalmente creativo, non c’era una formula precisa – come invece pare ci sia oggi – da seguire per trovare la canzone dell’estate, tantomeno l’intenzione di farlo.
E, dicevamo, a qualcuno andava anche parecchio bene. Sapore di sale e Vamos a la playa, ma anche la stessa Roma-Bangkok, hanno segnato la propria epoca perché hanno raccontato lo spirito del tempo senza rinunciare alla novità, ad adottare una visione laterale. La tendenza di queste ultime estati, invece, porta nella direzione opposta, cancella le alternative. E allora le canzoni dell’estate diventano tantissime, sì, ma tutte simili e prevedibili, per restare come vecchie foto sbiadite delle vacanze. Dai, che anno era quello di Disco paradise? ◆
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