Il 2 settembre Max Pezzali si è esibito al Circo massimo di Roma davanti a più di cinquantamila spettatori, con una scaletta basata sul repertorio della sua band storica, gli 883, cioè un classico del pop italiano degli anni novanta che tra il 1992 e il 1999 ha venduto cinque milioni di copie. Il concerto romano è arrivato dopo un tour che ha fatto il tutto esaurito ovunque, compreso un doppio live allo stadio San Siro di Milano.

L’espressione più ricorrente per descrivere il fenomeno è stata “effetto nostalgia”: Pezzali, che ha 56 anni e da dieci non pubblica canzoni rilevanti, avrebbe avuto l’intelligenza di compiere un passo indietro, mettendo in mostra solo quanto di buono ha fatto in passato; chi c’era allora, probabilmente vittima delle emozioni e dei ricordi, si sarebbe convinto a comprare un biglietto, garantendogli i più grandi concerti della sua carriera, per di più in una fase, appunto, discendente. Ma la verità è un’altra: che non è un ritorno, e che quelle canzoni non hanno mai smesso di parlare a un certo tipo di pubblico.

Il risultato, quindi, è una sorta di rivalutazione sociale di quello che all’epoca fu bollato come un semplice fenomeno per adolescenti, frutto delle idee di marketing di una volpe come Claudio Cecchetto, che aveva già lanciato Fiorello e Jovanotti. Edmondo Berselli fu uno dei pochi a porre la domanda giusta, restando pressoché inascoltato: “Possibile che nessuno abbia sospettato che rappresentino quel pezzo d’Italia che viene su fino a noi dagli anni cinquanta?”.

Liberati dai pregiudizi

Ma quella degli 883 è anche, in parte, una rivincita artistica: la loro proposta musicale sarà ancora trascurabile, come sostiene la critica, ma quel modo di scrivere testi semplici, pieni di riferimenti a un quotidiano di provincia e inseriti in una sorta di iperrealismo narrativo, in cui succede tutto e non succede niente, con la voce chiara di Pezzali in stile telegiornale a cantarli, ha fatto scuola nel nuovo pop.

L’hanno ripreso I cani (che infatti ci hanno duettato) ma anche fenomeni oggi ascoltati dai ragazzi più giovani come i Pinguini tattici nucleari, Calcutta o Carl Brave. Gente per cui è stato scomodato il termine “cantautorato”, mentre per gli 883 mai.

“Diciamo che ci hanno liberato da tanti pregiudizi”, sorride al telefono trent’anni dopo Mauro Repetto. Repetto, che ha un anno in meno di Pezzali ed è cresciuto con lui fin dal liceo a Pavia, per i primi tempi è stato l’altra faccia del gruppo: il “biondo” che ballava di fianco all’amico, ma anche quello che ha dato davvero inizio al progetto e che dal 1992 al 1994 ha avuto un ruolo fondamentale sui testi: “Nascevano rimpallandoceli, come una partita a ping pong, o quasi una seduta maieutica”. Ci sono la sua firma e le sue idee dietro le varie Hanno ucciso l’Uomo ragno, Come mai e Sei un mito. L’occasione per parlarne è Non ho ucciso l’Uomo ragno (Mondadori 2023), scritto con Massimo Cotto. In questo libro-confessione Repetto racconta la sua versione dei fatti, finora confusa e piena di leggende metropolitane dopo che, nel 1994, all’apice della fama, aveva lasciato il progetto per inseguire la chimera degli Stati Uniti e del mondo del cinema, fino a sparire.

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Ciò che è successo dopo, in realtà, è più normale di quanto si creda. Ma anche la storia del gruppo, a sentirlo, lo è. “Era la fine degli anni ottanta, noi eravamo uno dei tanti addendi di un grande sistema”, ricorda. “Due ragazzi di provincia che non volevano crescere, che cercavano un modo per trascorrere il pomeriggio. Eravamo ingenui. Cecchetto paragonò un nostro provino a un quadro di Ligabue, per quanto fosse naïf. In Italia c’era ancora l’eco del sogno americano, e per noi la musica era proprio un sogno, un modo per evadere dalla routine, dalle incombenze dei nostri amici che cominciavano a sposarsi, a vivere vite ordinarie. E sono convinto che questo senso di ‘stanza dei giochi’ sia rimasto, abbia convinto delle persone ad ascoltarci”.

Di fronte a uno stile del genere, la prima cosa che si potrebbe pensare è una sorta di cantautorato da bar, con testi privi del classico impegno politico e ridotti a una cronaca dal quotidiano. “In realtà noi venivamo dal rap, eravamo pazzi per i Run DMC più che per De André”, spiega Repetto. “Per scrivere pescavamo dalla semplicità dell’hip-hop e dallo stile cinematografico, visivo, del country. Poca astrazione, ecco. Ma gli argomenti, aggiungo, erano nostri: ciò che ci succedeva tutti i giorni, perché dalla provincia volevamo scappare, ma quella vita era anche la prima a consegnarci piccole storie da raccontare in musica”.

Sono nati così dei testi che ‒ altra espressione abusata ‒ hanno “colto lo spirito del tempo”. A partire da un verso, come “tappetini nuovi e Arbre Magique”, che apre Sei un mito, descrivono un’epoca: migliaia finirono per rispecchiarcisi. Per dirla alla Repetto, “un pezzo come Con un deca, che racconta una notte passata in giro in provincia, in realtà parla di tutte le notti passate in giro per la provincia. Siamo stati bravi, anche senza pensarci troppo”. Nel loro sistema di valori domina il sentirsi dalla parte sbagliata, quasi una poetica degli sconfitti. Per il resto tutto si svolge dal bar al corso principale, fino alle serate nelle piccole discoteche.

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Nessuno aveva mai raccontato quella parte del nostro paese così. Certo, c’era stato il primo Vasco Rossi, che aveva chiuso quella sua fase provinciale con il sogno (poi realizzato) di Vita spericolata e da lì era diventato una rock star vera e propria; e c’erano stati, subito dopo, i Cccp e la loro Emilia paranoica, ma era tutto più punk e legato alle storie di disagio di un Tondelli, per dire. Invece Pezzali e Repetto, con quella faccia da bravi ragazzi e le vicende lineari, furono i cantastorie da bar per eccellenza, alla pari con i loro ascoltatori, sottraendo grazie all’iperrealismo quell’ipotetico scettro a Luciano Ligabue, anche lui poi più favorevole a seguire ambizioni da rocker.

Quando gli faccio notare che almeno due generazioni sono cresciute con le loro canzoni ‒ specie bambini e adolescenti, probabilmente per la questione del gioco nostalgico ‒ la sua risposta mi spiazza. “Anche io e Max siamo cresciuti con quei brani”. Non è un discorso d’età (agli inizi avevano 25 anni, neanche troppo giovani, in particolare rispetto agli esordienti di oggi) ma di emancipazione e consapevolezza: grazie alla loro ingenuità, gli 883 sono stati cantori e al tempo stesso figli della provincia italiana dell’epoca.

È un aspetto che trent’anni dopo può essere problematizzato, tra una visione del mondo aderente a quella del maschio che non vuole crescere e un approccio infantilistico alla vita (gli amici al primo posto, a ogni costo) e alle relazioni. “Per noi la compagnia era tutto e più / una necessità”, cantavano in Cumuli, un pezzo crudo su un amico finito in comunità, che resta forse il più bel testo scritto dai due. Ma anche “senza fidanzate troie né mogli” di Rotta x casa di dio è un buon esempio. “I tempi cambiano. Ma noi al di là di tutto raccontavamo un maschio, a suo modo, fragile. Quello che voleva sentirsi Mickey Rourke e si svegliava Fantozzi. Sono sicuro che sia ancora così, e che il discorso valga perfino di più nelle metropoli. I tempi cambiano ed è giusto, ma in un momento di fragilità generale sono certo che questa sensazione, questa differenza tra voler essere ed essere davvero, sia ancora viva. E che nel mondo possa trovare spazio”.

Se gli 883, insomma, hanno prima di tutto rappresentato la propria epoca, in ogni suo aspetto, c’è qualcosa nei loro pezzi che sopravvive alle mode che passano, ai riferimenti che invecchiano e alle nuove sensibilità. Qualcosa che va oltre, appunto, la nostalgia.

“È questione di sentimenti”, chiude Repetto. “Non ha troppo senso fare paralleli tra gli anni novanta e oggi. Forse è la provincia che non cambia mai. Però un pezzo come Con un deca, che al di là dello scenario notturno descrive la tensione irrisolta tra lo scappare dal piccolo posto in cui si è nati e il doverci restare, descrive la vita di tantissimi. Così come Weekend, sulla desolazione del fine settimana e il senso d’angoscia che si porta dietro”.

Nel 1993 le partite si ascoltavano alla radio, oggi si vedono in streaming. “Ma la malinconia che si porta dietro una domenica in una cittadina, quel senso di non sentirsi realizzati, c’è ancora e riguarda molti”. Forse è la solita provincia italiana che, come insegna la letteratura, è uno specchio dell’anima. O forse è solo che, in quello spicchio di tempo tra la fine dell’adolescenza e il diventare adulti, gli 883 l’hanno raccontata e incarnata meglio di tutti, nel bene e nel male.

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