Daniela Laudicina e Giuliana Sarli sono due donne che vivono a Roma, hanno contratto un’unione civile e hanno una figlia di otto anni concepita con una fecondazione eterologa eseguita all’estero. Nel settembre del 2017 Daniela Laudicina, la madre che non ha partorito, d’accordo con sua moglie ha contattato l’avvocata Susanna Lollini per adottare quella che era già – a tutti gli effetti, ma non secondo la legge – sua figlia.
È ricorsa a una procedura per adozione in casi particolari, che riguarda per esempio le adozioni in cui sono coinvolti parenti o persone che hanno bisogno di cure speciali per disabilità o altri casi. Gli effetti sono assimilabili a quelli che regolano l’adozione del figlio del partner, o stepchild adoption, e per questo viene a volte definita così. Ci è riuscita solo dopo due anni, una spesa di qualche migliaia di euro e una procedura legale che, come ogni percorso di adozione, prevede visite a casa, lunghi colloqui con psicologi e assistenti sociali, ma che loro hanno vissuto come “un’intromissione nella nostra vita privata”.
“Mi ricordo la prima telefonata dello psicologo a mia moglie”, racconta Daniela Laudicina. “Le diceva: ‘signora Giuliana, lei è al corrente del fatto che la signora Laudicina vuole adottare sua figlia?’”. In seguito, le due donne hanno dovuto spiegare a psicologi e assistenti sociali come hanno scoperto di essere omosessuali, è stato chiesto loro se hanno mai avuto rapporti con uomini, che costi avevano sostenuto per la fecondazione eterologa all’estero e altre domande “che nulla avevano a che fare con la nostra genitorialità”, continua Laudicina. “La giudice, prima di emettere la sentenza, ci ha detto: comunque questa bambina crescerà senza un padre. Ci siamo girate verso l’avvocata, che ci ha fatto segno di non rispondere”.
Il caso di Laudicina e Sarli non è raro: in assenza di una legge nazionale che riconosca i figli delle coppie omogenitoriali, migliaia di omosessuali hanno intrapreso lo stesso percorso per dare ai loro figli gli stessi diritti dei bambini nati da coppie eterosessuali. Altre famiglie, facendo ricorso in tribunale oppure con l’appoggio delle loro amministrazioni comunali, hanno invece potuto riconoscere i loro figli direttamente alla nascita, ottenendo da subito la registrazione all’anagrafe di entrambi i genitori, secondo il principio del prevalente interesse del bambino rispetto alla mancanza di una legge.
Discriminare sulla base di un modello etico di famiglia è in effetti quello che sta facendo il governo italiano
Sono queste le famiglie che il governo italiano adesso ha preso di mira: i prefetti – ha fatto sapere il sindaco di Milano Giuseppe Sala – hanno l’indicazione di sbarrare la strada ai comuni che trascrivono i certificati di nascita, e parallelamente l’avvocatura di stato impugna le sentenze favorevoli alle famiglie. Secondo il governo l’unica strada percorribile per il riconoscimento deve essere quella delle adozioni in casi particolari , una pratica che ritiene sufficiente a tutelare i bambini. Ma non è così: è una strada difettosa, che spesso fallisce nel garantire rapidamente una vita serena a queste famiglie e che ha costi economici – stiamo parlando di oltre tremila euro di parcelle per gli avvocati – ed emotivi rilevanti.
In un’intervista al Corriere della Sera dello scorso 16 marzo, la ministra per la famiglia Eugenia Roccella ha dichiarato che la scelta di governo e maggioranza di attivare i prefetti è stata fatta “per un problema solo”, ovvero impedire il ricorso alla gestazione per altri alle coppie di uomini gay, anche se in realtà a essere colpite sono soprattutto coppie di donne. I casi di coppie eterosessuali che fanno ricorso alla gestazione per altri all’estero (perché, a differenza della fecondazione eterologa, in Italia è vietata) invece non vengono toccati.
Con la stessa motivazione è stata bocciata in parlamento la proposta di un regolamento europeo sul certificato di filiazione, che vorrebbe permettere ai figli di famiglie omogenitoriali riconosciuti all’estero di muoversi liberamente all’interno dell’Unione europea, anche nei paesi dove i loro diritti non sono riconosciuti, ovvero l’Italia e alcuni paesi dell’Europa dell’est, il cosiddetto blocco di Visegrád.
In un’altra dichiarazione rilasciata alla trasmissione tv Mezz’ora in più di Lucia Annunziata, Roccella ha in seguito precisato che “noi abbiamo un modello che prevede una mamma e un papà”. Discriminare sulla base di un modello etico di famiglia è in effetti quello che sta facendo il governo italiano. L’Italia, peraltro, ha una lunga tradizione in materia di discriminazione dei minori sulla base delle condizioni della loro nascita: le ultime differenze tra figli legittimi, cioè nati da persone sposate, e figli naturali, cioè nati fuori dal matrimonio, sono state cancellate solo nel 2013, con un decreto del governo allora presieduto da Enrico Letta. Le discriminazioni nei confronti dei figli di omosessuali invece non sono mai state cancellate, nemmeno con l’approvazione della legge sulle unioni civili del 2016; e in materia di procreazione medicalmente assistita la fecondazione eterologa, a cui possono accedere coppie eterosessuali sposate o anche di fatto, è invece preclusa a single e coppie lesbiche.
“Dovrei essere felice per la mole di lavoro che questo governo ci porta, ma ovviamente non è così”, prova a scherzare Michele Giarratano, avvocato, attivista di Famiglie Arcobaleno. “L’adozione non tutela sufficientemente questi bambini e, oltre ai tempi e le lunghe procedure, ha un problema di fondo: richiede, pena l’inammissibilità, il consenso di chi esercita la responsabilità genitoriale, ovvero il genitore biologico”. Quindi, per esempio, se durante il procedimento avviene una separazione conflittuale, il minore perde uno dei due genitori perché il primo può negare all’altro di vederlo. Lo stesso succede in caso di morte o malattia grave del genitore biologico, se questi non ha fatto in tempo a rilasciare la sua dichiarazione davanti a un giudice.
Luca Possenti, insieme a suo marito Francescopaolo Di Mille padre di una ragazzina di 12 anni, nata in Canada attraverso una gestazione per altri, ha ottenuto solo lo scorso gennaio l’adozione di sua figlia. Negli anni precedenti i due padri avevano tentato la strada del riconoscimento alla nascita, ricevendo però un diniego dai giudici. “A un certo punto ci siamo trovati in una situazione famigliare che ci ha spaventati e per cui era urgente che anche io avessi il riconoscimento come padre, per questo abbiamo chiesto l’adozione”. Il tribunale dei minori di Roma, riconoscendo questa urgenza, ha accelerato la procedura, che è stata chiusa dopo meno di un anno. Rimane il fatto che una famiglia deve confidare nella comprensione delle persone che incontra, raccontare aspetti molti intimi e personali della propria vita, per essere riconosciuta dalla legge. “L’assistente sociale e la psicologa della Asl sono state molto comprensive, ma tu devi stare lì, essere scrutato, valutato, giudicato, è qualcosa che gli altri genitori non devono vivere. Il giudice potrebbe essere contrario, omofobo, fino all’ultimo hai paura. Tua figlia deve passare attraverso psicologi e assistenti sociali: per quale motivo?”.
Fuori legge
Uno degli altri paradossi è che obbligare tutte le famiglie omogenitoriali a passare attraverso l’adozione in casi particolari aggrava di molto il lavoro di assistenti sociali, psicologi, tribunali dei minori: la destra italiana, che ha sempre lamentato il fatto che i problemi del paese erano troppo gravi per occuparsi dei diritti delle persone lgbt+ in via prioritaria, sta gettando le basi per ingolfare il sistema che dovrebbe presiedere alle adozioni e alle azioni a tutela dei minori in stato di difficoltà.
“Un anno e qualche mese è il tempo medio per ottenere l’adozione, ma non ci sono standard e tutto cambia di città in città: a Brescia vanno rapidi, a Milano si rischia di rimanere bloccati per anni”, spiega l’avvocato Giarratano. “Ci sono tribunali dove correttamente l’adozione viene valutata come un’adozione intrafamiliare, e prevede quindi un tipo di esame diverso rispetto all’adozione di un estraneo, altri invece no. A Brescia, per fare un altro esempio, chiedono analisi e certificati medici. A parte che è discriminante in ogni caso, ma viene da chiedersi: un omosessuale con una malattia cronica non può adottare suo figlio?”.
Ilaria Rossi è una delle madri che, insieme a sua moglie, ha dovuto fornire al tribunale di Brescia i documenti sanitari perché la loro figlia fosse registrata sui documenti con entrambi i genitori. La sua esperienza con assistenti sociali e psicologi è stata positiva, “abbiamo trovato persone pronte all’ascolto”, ma allo stesso tempo spesso non preparate ad affrontare temi che sono fuori dalle loro usuali competenze. In un colloquio, la loro scelta di affidarsi in Danimarca a un donatore aperto, ovvero che sarà conoscibile dalla bambina quando questa sarà grande, è stata paragonata all’esigenza di un bambino in adozione di mantenere i contatti con la famiglia d’origine, due casi completamente diversi che mischiano e confondono una donazione di materiale genetico con il trauma di un abbandono.
Ma il caso di Ilaria Rossi è interessante anche per un altro aspetto: questa famiglia, infatti, ha scelto di intraprendere la strada dell’adozione alla fine di un lungo percorso che ha visto la doppia genitorialità inizialmente negata alla nascita dal comune di Brescia, poi concessa dopo un ricorso al tribunale, quindi di nuovo negata dopo ulteriore ricorso in appello della avvocatura di stato. In assenza di una legge, bambini con documenti già emessi e diritti riconosciuti, vengono rigettati nel limbo da ricorsi e nuove sentenze, mentre avvocatura di stato e prefetti si muovono per ribadire la superiorità di “un modello di famiglia che prevede una mamma e un papà”, discriminando tutte le altre.
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