La pandemia ha portato in primo piano il rapporto fra scienza e politica, e la partecipazione degli scienziati all’elaborazione delle politiche pubbliche. Il progetto Inventing the global environment che coordino all’università di Trento, pensato insieme a colleghi delle università di Genova, di Napoli (Federico II) e di Trieste, studia come gli scienziati, gli attivisti e i decisori politici abbiano interagito sui temi della protezione ambientale dalla metà del novecento a oggi. Si interroga sulle radici del rapporto fra politica e ambientalismo, in un’era in cui l’emergenza climatica non era al centro delle nostre preoccupazioni. Esplora la transizione dal senso di onnipotenza tecnologica, tipico degli anni del boom economico nel secondo dopoguerra, alla consapevolezza della fragilità dell’equilibrio ambientale.

La tensione fra sviluppo, giustizia sociale e tutela dell’ambiente si è affacciata prepotentemente negli anni settanta del novecento.

Qual è stato il ruolo degli scienziati in questo quadro? Come si sono posti nel trattare le questioni ambientali a livello nazionale e internazionale? Incaricati di suggerire soluzioni tecniche, hanno affiancato le politiche dei governi o si sono opposti, diventando attivisti o proponendo strategie alternative? Il progetto guarda al rapporto fra scienza e politica in alcune aree, ognuna affidata a una unità di ricerca.

Due sono i grandi miti tecnologici esplorati. Entrambi sono costruiti sull’immagine di un’umanità capace di controllare la natura e si confrontano con dubbi crescenti. Il primo mito è quello dell’energia atomica a uso civile, a lungo presentata come una grande opportunità non solo come fonte energetica, ma anche come tecnologia ad ampio raggio, capace di curare malattie, produrre nuovi cibi con la rivoluzione verde, mettere a disposizione energia pulita a basso costo e abbondante per tutti. Un’immagine che tuttora attribuisce al nucleare poteri messianici, di azione contro l’inquinamento e perfino contro il cambiamento climatico. Un’immagine che spesso si è scontrata con quella alimentata dalle dispute scientifiche sulle conseguenze degli incidenti nucleari.

L’altro mito di cui si occupa il progetto è quello dell’energia idroelettrica, a lungo esaltata come l’energia pulita per eccellenza. Qui lo studio riguarda il ruolo di biologi, geologi e zoologi associati alle indagini di impatto ambientale delle grandi dighe. Una particolare attenzione è dedicata alle donne, attiviste e scienziate, sia nei movimenti contro il nucleare sia in quelli a tutela delle comunità locali nella costruzione delle grandi dighe. ◆

Sara Lorenzini è professoressa di storia contemporanea all’università di Trento.

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