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Un addetto alla sicurezza issa la bandiera delle Nazioni Unite; l’operazione avviene ogni mattina alle 7 e ogni sera viene ammainata secondo un protocollo preciso. (Martino Lombezzi)
Il nastro su cui è incisa l’intercettazione del 2 agosto 1995 in cui il generale dei serbo-bosniaci Radislav Krstić ordina al colonnello Dragan Obrenović di uccidere un gruppo di prigionieri musulmani catturati mentre erano verso Tuzla dopo la caduta di Srebrenica. (Martino Lombezzi)
Martina Fryda-Kaurimsky, interprete del tribunale: “Le discussioni tra il pubblico ministero e la difesa sono quelle che preferisco. Ma sono anche le più difficili da tradurre. Sono rapide, approfondite e quando arrivi alla fine sei distrutta”. (Martino Lombezzi)
I nuovi impiegati si perdono sempre nell’edificio: “Questo posto è un labirinto” racconta l’ufficio stampa Angelina Stualo, “fino all’anno scorso non sapevo neanche che ci fosse un quinto piano!”. (Martino Lombezzi)
Fausto Pocar, giudice italiano che lavora per il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dal 1999. Dal 2005 al 2009 è stato anche presidente. (Martino Lombezzi)
L’aula al primo piano del tribunale. (Martino Lombezzi)
Un rosario trovato a Dalj, in Croazia, dove l’esercito serbo ha ucciso civili croati. L’oggetto è custodito nell’ufficio del procuratore. (Martino Lombezzi)
L’archivio del tribunale, dove sono raccolti dieci chilometri di documenti e due petabyte di materiale digitale. (Martino Lombezzi)
Dragan Ivetic, 43 anni, avvocato statunitense. Ha difeso in aula il generale serbo-bosniaco Ratko Mladić. “Il nostro lavoro è una sfida: dobbiamo lottare per un giusto processo anche se spesso il verdetto è stato già deciso dai mezzi di informazione”. (Martino Lombezzi)
Nella cella del tribunale che ospita i detenuti prima del processo. I detenuti sono gli unici che possono fumare nell’edificio, ma solo nelle loro celle. (Martino Lombezzi)

Una lunga indagine sulla guerra

Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Icty nella sigla inglese) è stato istituito all’Aja nel 1993 con la risoluzione 808 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. A quasi cinquant’anni dai processi di Norimberga e Tokyo, è stata la prima corte penale internazionale a indagare e giudicare i crimini di guerra e le violazioni del diritto internazionale umanitario, con l’obiettivo di perseguire i politici e i militari che durante le guerre nei Balcani (1991-2001) sono stati responsabili di genocidio, uccisioni di massa, assedi e detenzioni in campi di concentramento.

Il 22 novembre 2017 l’Icty ha pronunciato la sua ultima sentenza, condannando all’ergastolo Ratko Mladić, l’ex comandante dell’esercito serbo-bosniaco responsabile del genocidio di Srebrenica e di altri crimini di guerra e contro l’umanità. Dopo questo giudizio, il più atteso, il tribunale è stato chiuso, mettendo così fine a un’indagine durata venticinque anni (anche se il suo lavoro viene portato a termine da una corte temporanea creata appositamente per portare a termine i processi pendenti).

Prima della chiusura ufficiale, il fotografo italiano Martino Lombezzi e la giornalista olandese Jorie Horsthuis hanno avuto un accesso privilegiato al tribunale. Il loro progetto Resolution 808 racconta questa istituzione attraverso gli interni, i ritratti, le interviste e l’archivio, dove sono custoditi gli oggetti ritrovati sulla scena del crimine.

Dal 18 ottobre al 9 novembre Resolution 808 sarà esposto a Roma negli spazi di Officine fotografiche. La mostra è curata da Daria Scolamacchia e prodotta dal Festival della diplomazia e dall’ambasciata dei Paesi Bassi in Italia.

Tutte le foto sono state scattate nella sede del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia all’Aja, Paesi Bassi, tra il 2017 e il 2018.

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