Alessandra Sanguinetti ha solo nove anni quando s’imbatte, nella sua casa di Buenos Aires, in Wisconsin death trip, un libro del 1973 di Michael Leasy che racconta la vita e la morte nella contea di Jackson e in particolare a Black River Falls, una cittadina della Virginia. I testi di Leasy e i ritagli del giornale locale, il Badger State Banner, accompagnano duecento foto scattate da Charles Van Schaick tra il 1885 e il 1900.

Wisconsin death trip è diventato negli anni un libro di culto: è un’opera singolare e a tratti sinistra, che mette in sequenza i ritratti in posa degli abitanti di Black River Falls, bambini morti esposti nelle loro bare – una pratica commemorativa normale a quell’epoca – , la vita quotidiana, tra lavoro e gite all’aria aperta, e le manipolazioni fotografiche con esposizioni multiple che contribuiscono a rendere il volume un oggetto sospeso tra il mondo visibile e un altro di cui ci arrivano solo suggestioni.

Sanguinetti resta profondamente colpita da quelle pagine: “Ho realizzato all’improvviso e senza alcun dubbio che la morte era una cosa reale e sarebbe capitata anche a me”, racconta in una recente intervista per la sua agenzia, Magnum Photos. Accanto alla consapevolezza della morte, la bambina a Buenos Aires comprende che la fotografia è essenzialmente un modo per sfuggire all’oblio, per affermare la nostra presenza nel mondo e vivere per sempre, o almeno finché l’immagine esiste. L’acquisto di una Kodak Instamatic è immediatamente successivo alla conoscenza del libro e segna il suo ingresso nel mondo della fotografia. Il libro di Leasy e le foto di Van Schaick diventano quindi un fantasma che si porta dietro finché nel 2022, a 54 anni, pubblica Some say ice (Mack), il risultato di numerosi viaggi negli stessi luoghi di Wisconsin death trip.

Nel 2014 la fotografa risiede ormai negli Stati Uniti da dieci anni, sulla costa vicino a San Francisco, e si dirige per la prima volta nel midwest freddo e rurale di Black River Falls. All’inizio si accosta alla comunità grazie al supporto del Milwaukee art museum, che le consente di entrare nelle scuole e in altre istituzioni del posto. A ogni visita riesce ad avvicinarsi alle persone, a guadagnarsi la loro fiducia, cosa che in alcuni casi le permette di entrare anche in situazioni più private. Sanguinetti cerca di diventare una fotografa locale, come succedeva ai tempi di Van Schaick, chiamata per registrare i momenti più importanti della comunità. Se nell’epoca attuale la fotografia è anche sinonimo di eccesso di immagini trascurabili, Sanguinetti persegue l’idea di una fotografia “sacra”, usata per ricordare momenti veramente importanti.

Some say ice, il cui titolo s’ispira alla poesia sulla fine del mondo Fuoco e ghiaccio di Robert Frost, evita però di essere un lavoro documentaristico. “La mia intenzione era che il libro fosse un enigma, più che il chiaro resoconto di un luogo”, afferma la fotografa, che di Black River Falls e dintorni lascia scatti austeri, in cui ogni volto è cristallizzato in un momento eterno e dove le espressioni facciali sono ridotte al minimo per sottolineare ancora di più il mistero nascosto in ogni immagine. Mistero rinforzato dal simbolismo che l’autrice attribuisce invece agli animali, sia selvaggi sia domestici ma comunque sempre più forti degli umani fotografati, considerati dei compagni spirituali e testimoni delle scelleratezze che compiamo ogni giorno.

Il libro non adotta una linea narrativa e cronologica ben definita come nei precedenti lavori dedicati alla crescita di due cugine, Belinda e Gullie, ma, come dichiara lei stessa, “segue una traiettoria verso l’inevitabile”. Some say ice è un’opera che incanta senza dare risposte, è un viaggio attraverso luoghi oscuri per riflettere sulla mortalità e chiudere un cerchio narrativo cominciato tanto tempo fa a Buenos Aires.

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