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Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)
Pino Strabioli, Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)
Porpora Marcasciano, Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)
Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)
Diamanda Galás, Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)
Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)
Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)
Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)
Dark portraits, Roma, 1982-1985. (Dino Ignani)

Tutte le facce della Roma dark

“Il martedì al Supersonic, il mercoledì all’Olimpo, il giovedì all’Angelo Azzurro, il venerdì al Blackout, il sabato al Uonna Club, la domenica al Piper”: da Trastevere alla Cassia più profonda, da piazza Navona fino a giù lungo la Casilina, la vita notturna romana dei primi anni ottanta era tanto frastagliata quanto sparpagliata. In pochi altri posti la notte era così promiscua dal punto di vista sociale: borghesi, studenti, operai, stranieri, pellegrini, turisti, preti e poliziotti in borghese, gay, lesbiche, trans e etero, al buio tutti potevano sfiorarsi. Di giorno poi si torna ognuno al suo posto ma la notte è una zona franca. E i dark sono una zona franca nella zona franca: molti di loro di pomeriggio s’incontrano sulla scalinata di Trinità dei Monti, che nei primi anni ottanta è ancora un lacerto della Roma fricchettona degli anni settanta e non un prolungamento asettico delle vetrine dello shopping di lusso per turisti. E poi dopo l’imbrunire si disseminano come una tribù di vampiri insonni nei vari locali: chi in motorino, chi in macchina, chi (i più) negli autobus notturni.

80s Dark Rome è una mostra aperta fino al 10 novembre al museo di Roma in Trastevere dedicata a quella variegata fauna notturna. È un ciclo di ritratti fotografici scattati da Dino Ignani tra il 1982 e il 1985 nei ritrovi notturni della capitale. Ignani conosce i primi dark in una vineria di Trastevere, il Fidelio, un locale gestito da un tedesco di nome Walter in cui si beve e si ascolta musica classica. Decide di seguirli nelle loro peregrinazioni e comincia a fotografarli, ma non in azione, mentre ballano o bevono: li fa posare, sguardo dritto in camera e consapevolezza massima di essere ritratti. Nei locali Ignani allestisce un piccolo set: macchina fotografica sul cavalletto, fondale neutro, un faro da mille watt e ombrello, e i giovani dark, tutti accuratamente vestiti, truccati e pettinati, fanno a gara per farsi fotografare.

Sono gli anni in cui si affaccia anche su quotidiani e settimanali popolari la parola “look” e nel Regno Unito comincia a diffondersi la fotografia di moda scattata nelle strade per catturare dal vivo, come in un safari fotografico, gli stili della giungla urbana. Se nel Regno Unito c’erano riviste come I-D e The Face da noi c’era Rockstar, altrettanto attenta non solo alle tendenze musicali ma anche al clubbing (che ancora non si chiamava così) e alla moda di strada. Rockstar, su cui Pier Vittorio Tondelli ha avuto una rubrica dal 1985 al 1989, era una bibbia di cultura e di stile, non solo un posto in cui informarsi delle ultime novità discografiche.

L’anima punk che tenne viva Palermo
Negli anni ottanta questo genere musicale interpretava la voglia di cambiamento da cui sono nate nuove iniziative culturali. Era una reazione alla guerra di mafia che sconvolse quel periodo

Una delle idee più poetiche del progetto di Ignani è quella di non prevedere didascalie per le fotografie. Questi giovani dark di quarant’anni fa che ci guardano non hanno nome. Alcuni sono facce note di quei tempi, alcuni sono addirittura delle star (vediamo la cantante e performer Diamanda Galás nel backstage del teatro Spazio Zero), ma nella magmatica scena new wave romana non ci sono gerarchie o tassonomie, non ci sono liste vip o cordoni di velluto: l’unico lasciapassare è lo stile, il look. “Ogni ritratto, ogni flash, ogni personaggio è un effetto speciale”, scrive Roberto D’Agostino nel 1985, quando queste foto vengono esposte per la prima volta a palazzo Braschi. “Il culto dell’abito, del gesto… la nostra vita si svolge attraverso un obiettivo, dentro lo schermo”.

In Italia con la parola dark non si indicano solo quelli che nel Regno Unito venivano chiamati goth, ovvero i seguaci di nero vestiti di band post-punk come Bauhaus, Cure e Siouxsie and The Banshees. In Italia i dark, o più comunemente i darkettoni, erano i fratelli e le sorelle piccoli di fricchettoni, post-hippy e indiani metropolitani che erano passati attraverso la tabula rasa del punk. Solo una minoranza dei dark romani che vediamo nelle foto di Ignani sono dei goth ortodossi: la maggior parte di loro mescola gli stili e i codici con estrema libertà e fluidità. Vediamo giacche di tweed oversize che chiaramente vengono dal mercato di Porta Portese, maglioni di Benetton sformati che fanno i pallini ma non importa, spillette di band improbabili e tanta bigiotteria fantasiosa, rosari e crocifissi, calze a rete smagliate, camicie neopsichedeliche a disegni cachemire e i più attenti possono riconoscere qualche capo di Romeo Gigli o di Moschino. E poi ci sono i capelli, il vero terreno di sfida: si va dai grandi ciuffi impomatati da rocker anni cinquanta alle acconciature rasate in basso e super cotonate in alto. E anche se siamo nel regno del mullet, capita d’imbattersi in raffinati tagli anni venti “alla maschietta” per le ragazze e rasature vagamente ispirate alla Germania di Weimar per i ragazzi e, per le dive con i capelli in disordine, ci sono sempre turbanti e fasce che sembrano uscire dal guardaroba anni settanta di Maria Callas.

Quella dei dark romani degli anni ottanta era una ricerca frenetica d’identità attraverso la superficie, ma era anche una forma di seduzione sottilmente erotica: un modo per uscire, attraverso lo specchio del desiderio, da quelle sabbie mobili che erano stati gli anni di piombo.

Questo articolo è stato scritto ascoltando Kaleidoscope di Siouxsie & The Banshees (1980).

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