“Mi chiamo Fatima Daas. Sono francese. Sono algerina”. “Mi chiamo Fatima. Ho il nome di un personaggio simbolico dell’islam”. “Mi chiamo Fatima. Cerco la stabilità”. Si potrebbe continuare all’infinito modificando l’incipit di questo bel romanzo d’esordio per dar forma a una liturgia pienamente contemporanea. Come se fossero i frammenti di un’immagine che la voce narrante cerca di raccogliere e rimettere insieme. Fatima è la mazoziya – la più piccola, con due sorelle maggiori – in una famiglia musulmana. Una ragazzina, poi adolescente e giovane donna oppressa dagli obblighi familiari, scolastici, sociali e religiosi, lacerata da inclinazioni contraddittorie che questo racconto tutt’altro che sereno del suo apprendistato mira non tanto a conciliare quanto a mettere a nudo. Credente e lesbica: questa è la grande dissonanza con cui Fatima cerca di imparare a convivere. Di questo strazio, di questo senso di colpa che la fa soffocare, il lirismo sballottante e caotico del libro porta l’impronta struggente. Solo nelle pagine in cui descrive la sua pratica religiosa alla moschea, il rito e le preghiere, il suo respiro si calma. “Prima, le verità sembravano pericolose da raccontare”. Questo non le ha impedito di osare.
Nathalie Crom, Télérama
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Questo articolo è uscito sul numero 1431 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati