Guardando oltre l’estuario del fiume Han dall’osservatorio nel parco della pace di Aegibong a Gimpo, vicino a Seoul, la Corea del Nord dista solo qualche colpo di remi. A meno di un chilometro e mezzo, si vedono i nordcoreani che coltivano i campi, guidano furgoncini lungo la strada che porta a una piccola cava e costeggiano in bicicletta un gruppo di palazzine vicino all’argine del fiume. Provare ad attraversare il confine, via terra o via fiume, non è mai stata una buona idea. Ma raramente il senso di vicinanza che si ha guardando dall’altra parte del corso d’acqua è stato più ingannevole di oggi, dopo dieci anni di governo di Kim Jong-un, il giovane dittatore nordcoreano. L’ultima speranza che Kim potesse avviare delle riforme è stata spazzata via nel 2019, quando in Vietnam ha incontrato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump senza riuscire a trovare un accordo per alleggerire le sanzioni internazionali in cambio di un maggiore controllo esterno sugli armamenti.
Negli ultimi due anni, poi, si sono interrotti i pochi legami rimasti tra la Corea del Nord e il resto del mondo e in risposta alla pandemia Pyongyang ha sigillato i confini. Le notizie che trapelano non sono incoraggianti: ci sono voci di gravi carestie ed epurazioni, mentre i mezzi d’informazione nordcoreani respingono qualsiasi tentativo di apertura degli Stati Uniti o della Corea del Sud.
Quando Kim aveva preso il potere dopo la morte del padre, il 17 dicembre del 2011, sviluppi così negativi sembravano evitabili. All’epoca alcuni osservatori prevedevano un imminente crollo del regime, a cui sarebbe seguita un’apertura economica sotto la supervisione della Cina. Altri dubitavano della possibilità che Kim volesse davvero portare avanti delle riforme serie, ma non lo ritenevano comunque capace di resistere alle pressioni per un cambiamento. Nel paese sia le élite sia i cittadini comuni guardavano al potere dello stato con sempre maggior cinismo, da quando si era mostrato incapace di provvedere ai loro bisogni durante la carestia degli anni novanta.
All’inizio queste previsioni sembravano fondate. In un discorso tenuto in occasione del centenario della nascita del nonno, nel 2012, Kim aveva esposto il suo programma per “costruire uno stato economicamente forte” e “migliorare le condizioni di vita delle persone”. Nei primi anni di governo aveva approvato riforme nel settore agricolo e in quello delle aziende per consentire un certo grado di iniziativa privata nell’economia; aveva invitato esperti dall’estero per avere consigli sull’istituzione di nuove zone economiche speciali; aveva concesso un riconoscimento ufficiale a centinaia di mercati informali e chiuso un occhio su traffici di poco conto. Si era lanciato in una frenetica “edificazione socialista”, riempiendo Pyongyang di grattacieli futuristici, un parco acquatico e un delfinario. Aveva anche cominciato a lavorare a nuove infrastrutture turistiche nel resto del paese, in particolare a Wonsan, sulla costa orientale. Gli scambi con la Cina erano aumentati grazie soprattutto a una nuova classe di pseudoimprenditori nelle aziende di stato.
Non solo sopravvivenza
Le cose stavano migliorando visibilmente, anche se si partiva da livelli molto bassi e i cambiamenti riguardavano in larga misura la capitale, dove chi era in grado di risparmiare contanti poteva godersi i nuovi locali, i ristoranti stranieri e i supermercati ben forniti. I profughi che riuscivano a raggiungere la Corea del Sud cominciavano a giustificare la loro fuga con motivi diversi dalla mera sopravvivenza, segno che i miglioramenti economici non riguardavano solo Pyongyang e che c’era più consapevolezza di come si viveva nel resto del mondo.
Ma negli ultimi anni si è capito che costruire uno “stato prospero” serviva solo a rafforzare il dominio del dittatore e non prevedeva lo sviluppo di una vera economia di mercato o la garanzia di qualche libertà per i cittadini. Questo processo è stato accompagnato da una crescente repressione, un inasprimento dei controlli alle frontiere e un’accelerazione del programma nucleare, in particolare testando missili balistici intercontinentali, con cui Pyongyang sostiene di poter raggiungere gli Stati Uniti. Le sanzioni economiche decise dalla comunità internazionale per rallentare il programma nucleare nordcoreano hanno lasciato al regime pochi fondi, insufficienti a raggiungere altri obiettivi oltre la costruzione del suo arsenale.
I tentativi fatti da Kim nel 2018 per risolvere la situazione corteggiando Trump e Moon Jae-in, il presidente della Corea del Sud, sono falliti. Kim ha fatto male i conti durante l’incontro con Trump a Hanoi, nel febbraio 2019. In quell’occasione ha chiesto un alleggerimento generalizzato delle sanzioni statunitensi in cambio dello smantellamento di Yongbyon, un impianto nucleare importante ma antiquato. Trump ha respinto la proposta facendo fallire il vertice.
Forse si poteva gestire meglio, perché le altre aperture diplomatiche di Kim in quel periodo, in particolare con la Cina, avevano avuto abbastanza successo e gli avevano garantito un flusso costante di traffici, leciti e illeciti. Con la pandemia, però, le misure imposte da Kim hanno messo la parola fine anche a quelli: il confine con la Cina è stato chiuso per buona parte degli ultimi due anni, ed è probabile che continuerà a esserlo nell’immediato futuro, anche se di recente ci sono state voci di una riapertura limitata. Il turismo è scomparso. La maggior parte dei diplomatici stranieri se n’è andata e le organizzazioni umanitarie non hanno accesso al paese da quasi due anni, rendendo ancora più difficile capire cosa succede al suo interno.
Ci sono segnali di crescenti difficoltà, i viveri scarseggiano anche nella capitale. Lo stesso Kim ha ammesso che la situazione è “dura” e ha avvertito i cittadini di prepararsi a momenti difficili. Niente fa pensare che la situazione migliorerà nel breve periodo. Kim continua a respingere offerte di aiuti e di dosi di vaccino contro il covid-19. I tentativi di Seoul e Washington di ripristinare un clima di distensione, per esempio negoziando una fine formale della guerra di Corea, non hanno ricevuto risposta. A dieci anni dal suo arrivo al governo, lo “stato economicamente forte” che Kim avrebbe dovuto costruire pare piuttosto fragile. Magari lui si consolerà con la crescita dell’arsenale nucleare. Ma al suo popolo un simile lusso non è concesso. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1440 di Internazionale, a pagina 31. Compra questo numero | Abbonati