“L’apparenza della semplicità non è la stessa cosa della semplicità stessa”, pensa la narratrice di Tra le nostre parole dopo aver scoperto che il suo ragazzo olandese, Adriaan, è sposato. Lo stesso si potrebbe dire della prosa di Katie Kitamura: per l’effetto cumulativo delle sue frasi concise, quello che sembrava un percorso lineare diventa un labirinto. Adriaan ammette di avere una moglie. “Ma non so per quanto tempo ancora”, dice alla protagonista, che rimane senza nome. “Va bene?”. A dire la verità, in questo romanzo coinvolgente e misterioso poche cose vanno bene, dalla natura complessa e contraddittoria dell’Aja, dove la nostra protagonista si è trasferita da New York, al suo lavoro come interprete per la Corte penale internazionale. Qui, nonostante la sua abilità e la sua disciplina, trova “grandi voragini tra le parole, tra due o più lingue, che potrebbero aprirsi senza preavviso”. Le crepe nella sua vita professionale e privata si allargano man mano che il libro procede. Fuori dall’appartamento della sua amica c’è uno scippo e per lei la vittima diventa un’ossessione. Adriaan va a Lisbona per divorziare dalla moglie, ma i giorni diventano settimane e lui smette di mandare messaggi. Per tutto il tempo lei vive nel suo appartamento, ma si rende conto di non aver lasciato alcuna traccia di sé nelle sue stanze, come per mostrare ad Adriaan “quanto facilmente mi sarei infilata nel tessuto della sua vita, quanto poco disturbo avrei causato”. In un momento di apprensione che aumenta ulteriormente l’atmosfera quasi inquietante di minaccia del romanzo, si giudica “complice della mia stessa cancellazione”. Ma i rapporti più complessi si creano tra gli interpreti del tribunale e gli imputati, come nella scena in cui la narratrice fa da interprete in un incontro privato tra l’imputato più importante della Corte, l’ex presidente di un innominato stato africano, e la squadra dei suoi avvocati. Le esperienze atomizzate della narratrice, la sua incapacità di creare una narrazione coerente della sua vita, suonano strane ma anche familiari in modo inquietante, perché un’altra intimità a cui allude il libro è quella tra narratore e lettore.
Chris Power,
The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1444 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati