Presto più di 200mila barili di petrolio scorreranno ogni giorno attraverso il giardino della casa di Fred Lubowa. Per ora l’unico segno della devastazione imminente è una fila di paletti. Tre anni fa alcuni periti sono andati da lui, nel suo villaggio nell’Uganda centrale, per tracciare il percorso dell’East african crude oil pipeline, l’oleodotto riscaldato più lungo del mondo: 1.443 chilometri, dalle sponde del lago Alberto fino alla costa della Tanzania. Da allora Lubowa è in attesa. Il 1 febbraio la TotalEnergies (il gigante petrolifero francese che gestisce il giacimento di Tilenga), la Cnooc (l’azienda di stato cinese che amministra quello di Kingfisher) e i loro soci hanno annunciato la “decisione finale d’investimento”, l’ultima tappa in vista dell’inizio dei lavori. Il primo via libera era arrivato nel 2006, ma il progetto era rimasto fermo per il braccio di ferro tra governo e aziende sulle questioni fiscali e sulla costruzione di una raffineria. Il covid-19 ha causato altri ritardi. La vita degli abitanti della regione petrolifera dell’Uganda segue i ritmi stabiliti in sale riunioni di paesi lontani. Queste persone si chiedono se il progetto abbia ancora senso. E non sono le uniche. Nel 2025, quando il petrolio comincerà a fluire, l’oleodotto avrà costretto duemila famiglie a trasferirsi e avrà avuto conseguenze dirette su altre ventimila. I contadini non riceveranno indennizzi per i raccolti seminati dopo una certa data, che per Lubowa è stata tre anni fa. Oggi lui non può piantare il caffè che gli farebbe guadagnare i soldi necessari per pagare la scuola dei figli. L’anno scorso uno dei vicini, Robert Birimuye, ha organizzato una protesta contro le quote dei risarcimenti ed è stato arrestato. Il governo non tollera il dissenso. Nel 2019 un uomo che era andato in Francia per testimoniare contro la TotalEnergies in una causa ancora in corso al rientro in Uganda è stato fermato all’aeroporto e interrogato per nove ore. Le autorità ugandesi hanno sospeso l’African institute for energy governance, un’organizzazione non profit che sostiene l’azione legale contro l’azienda francese.
Quale logica
La logica dietro l’oleodotto dovrebbe essere questa: anche se espropriare terre è sempre un caos e la politica è spietata, il petrolio renderà l’Uganda più ricca. Secondo le autorità la fase di sviluppo garantirà al paese investimenti per almeno 15 miliardi di dollari, il 40 per cento dei quali potrebbe andare ad aziende locali. Il pil annuo ugandese è di circa 40 miliardi. Uno studio delle Nazioni Unite prevede che il petrolio farà aumentare di un terzo le entrate dello stato nei prossimi trent’anni. Ma questi soldi potrebbero alimentare la stessa politica clientelare che sta ostacolando la crescita del paese. Il presidente Yoweri Museveni, al potere da 36 anni, avrà ottant’anni quando il petrolio comincerà a scorrere. La frustrazione per la sua persistenza è in aumento.
Un altro problema è il clima. Per Museveni è impossibile che il petrolio non trovi compratori, ma i mercati potrebbero decidere diversamente. Secondo alcune stime, dal 2013 il valore dei giacimenti ugandesi è crollato del 70 per cento dopo i ribassi di prezzo del petrolio. Il valore si dimezzerebbe ulteriormente se i leader mondiali decidessero di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. L’Uganda sta già soffrendo per le emissioni di gas serra dei paesi ricchi. Il governo riconosce che nei prossimi decenni il riscaldamento globale potrebbe costare al paese ogni anno il 3-4 per cento del pil. Intanto le stagioni si sovrappongono e gli agricoltori non sanno più quando seminare. Il petrolio che fluirà nel giardino di Lubowa finirà per scombussolare ancora di più quelle piogge che oggi lo fanno crescere. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1447 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati