Oltre a darci una visione elettrizzante della violenza in Messico, Paradais è una lezione di ritmo narrativo. Un battito ipnotico accompagna le vite poco virtuose dei protagonisti nella loro rivolta contro sé stessi e i loro simili. Vite disparate: quella di Jacobo, l’adolescente viziato, e quella di Polo, il giardiniere quasi adulto. Appartengono a mondi opposti ma finiscono per essere uniti dalla solitudine. Qualcos’altro li unisce: il veleno dell’ossessione. Il primo “non parlava d’altro che di scopare la signora Marián, di farla sua con le buone o con le cattive”. L’altro pensa solo a lasciare la sua casa misera e sporca per incontrarsi con suo cugino, piccolo criminale. Fernanda Melchor ha un’idea elastica del presente: mentre la ragione vacilla nella morsa dell’ossessione e gli eventi cominciano a muoversi ad alta velocità, lei recupera frammenti del passato. Si parla di violenza sessuale, certo, ma anche della violenza esercitata quotidianamente dal riccastro sui suoi servi, dalla madre odiosa sul figlio, dal rapitore sulla sua vittima. In questo senso, il tempo di Paradais non è solo quello del vortice che spazza via tutto, ma anche quello dell’umiliazione, della sottomissione e della legge del più forte. I romanzi di Fernanda Melchor ci costringono a pensarci come esseri condannati a non avere illusioni.
Roberto Pliego, Milenio
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati