Iegor Gran riassume il suo progetto in una frase: “Raccontare la storia dell’Unione Sovietica come non era mai stata raccontata prima”. Bisogna dire che ci è riuscito. La fine del cosiddetto periodo del disgelo, sotto Chruščëv e poi all’inizio dell’era Brežnev, è resa con un umorismo e un senso del grottesco a cui non siamo abituati nei libri di storia. Nel 1959, la rivista francese Esprit pubblicò un articolo anonimo che discuteva i princìpi del “realismo socialista”. Il Kgb si preoccupò e gli “uffici competenti” cercarono per sei anni di rintracciare l’autore. Nel febbraio 1966, Andrej Sinjavskij, padre di Iegor Gran, fu condannato alla deportazione per questo articolo e per tutta la sua opera. Trascorse quasi sette anni nei campi, da cui tornò con la schiena rotta, piegato in due, senza denti e con la testa rasata. Fisicamente distrutto, ma intellettualmente appagato, Andrej Sinjavskij arriverà a dire che questi anni così intensi passati nei campi furono gli anni “più belli della sua vita”. Iegor Gran ci porta in questo periodo d’incertezza in cui le autorità non sanno che fare di fronte alle aspirazioni di libertà: tutto è proibito, ma senza essere chiaramente represso. Negli archivi del padre, Iegor Gran trova l’ordine di perquisizione dell’8-9 novembre 1965 emesso al momento del suo arresto. Scopre che è firmato dal tenente Ivanov, un giovane e inesperto ideologo appena uscito dalla scuola del Kgb, che diventa così il personaggio centrale del romanzo.
Florence Bouchy,Le Monde

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Questo articolo è uscito sul numero 1467 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati