Charlene Turner è una studente impacciata e fuori moda. Non capisce la letteratura ma ne discute con il professore, parlando dei personaggi come se fossero amici che disapprova. Per esempio scrive un tema insistendo sul fatto che Medea era egoista: “Non avrebbe dovuto uccidere i figli. Avrebbe dovuto suicidarsi”. Quel momento è ricordato vent’anni dopo dal suo professore, Arthur Opp, che era rimasto affascinato e più che innamorato di Charlene. Opp adesso pesa più di cinquecento chili, non esce mai dalla sua casa di Brooklyn e non vede nessuno se non i fattorini e i corrieri. Il suo legame con Charlene – basato principalmente sulla consapevolezza che entrambi sono persone che non si adattano alla società – rimane il punto culminante della sua vita, anche se ha posto fine alla sua carriera d’insegnante. Quando lei lo chiama dopo decenni di corrispondenza, Arthur osserva il suo peso, il disordine della sua casa, la mancanza di amici e li confronta con tutte le bugie che ha raccontato a Charlene. Decide di cambiare qualcosa prima d’incontrarla di nuovo. La voce di Arthur è coinvolgente. La sua onestà è divertente, anche se le rivelazioni della sua infelicità sono dolorose. Non sa cosa pensare della fotografia che Charlene gli invia del figlio adolescente di cui non sapeva nulla. Quando la storia si sposta nel mondo di Charlene, è suo figlio Kel a prendere il sopravvento. Il suo imbarazzo nell’avere una madre strana e sempre più problematica, che lui ama, è rappresentato in modo acuto e commovente. Nonostante la sua abilità nel farsi degli amici, Kel è un altro pesce fuor d’acqua. L’umanità e la speranza rendono il libro avvincente e piacevole.
Carole Burns,The Washington Post
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Questo articolo è uscito sul numero 1470 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati