Parlare della capitale Luanda significa anche parlare dell’Angola, delle migrazioni interne, delle privazioni, delle difficoltà, dei lussi, delle stravaganze, delle relazioni gerarchiche, della corruzione e del potere, in una realtà così accelerata che supera le possibilità della fiction. “Ho tentato di raccontare due trasparenze”, dice Ondjaki. “Una viene dal campo del fantastico: l’uomo che decide di non mangiare più, Odonato, e così si sente a suo agio, scopre il suo modo di vivere, sa che sta diventando trasparente”. Ma si parla anche di altre trasparenze: “Fare il ritratto di Luanda oggi implica parlare di alcune persone che sono trasparenti. E questo non succede solo in Angola: i poveri sono trasparenti ovunque. Sono trasparenti perché nessuno li vede, nessuno se ne preoccupa, se non in occasione delle elezioni”, spiega Ondjaki. Il Palazzo al centro del romanzo è un piccolo microcosmo della città: da lì passano (o vivono) il Postino, il VenditorediConchiglie, il Cieco, il CompagnoMuto, NonnaKunjikise, i Tassatori, l’Assessore, il Ministro, il suo GuardaLeSpalle, e Odonato, l’uomo che sta diventando trasparente. Più che fare critica sociale, si tratta di rendere conto della teatralità che attraversa la vita quotidiana dei luandesi: “L’esperienza del linguaggio a Luanda è molto permeabile, creativa, audace. Luanda è una città molto teatrale. Dipende dal ritmo, che ha a che fare con la danza ma anche con le parole. Ogni settimana, appaiono parole, danze e musiche nuove. Non è una società statica. E sì, l’umorismo è una grande arma e anche un’autodifesa”. La Luanda di Ondjaki è una città che sta cercando di reinventarsi, di pensare a se stessa, di trovare il suo posto. Raquel Ribeiro, Publico

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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati