Gli antichi romani erano abili costruttori. Molte delle loro opere, tra cui il Pantheon e il Colosseo a Roma, il ponte del Gard in Francia e l’acquedotto di Segovia in Spagna, hanno resistito al passare del tempo. I danni che hanno subìto sono stati spesso conseguenza del saccheggio delle pietre più che di cedimenti strutturali.
Anche un’altra opera dei romani è sopravvissuta: il trattato De architectura di Marco Vitruvio Pollione, un ingegnere e architetto del primo secolo aC, che contiene molti consigli utili a evitare che gli edifici “cadano in rovina con il passare del tempo”.
Il successo degli ingegneri romani dipende in parte dal calcestruzzo usato (la cupola del Pantheon è la più grande del mondo realizzata senza supporti), che rimane solido nei secoli. Anzi, invecchiando può perfino diventare più forte, come stiamo scoprendo ora.
Calce e cenere vulcanica
Le rocce vulcaniche dei colli Albani, a sudest della capitale, e di Pozzuoli, vicino a Napoli, hanno fornito alcuni degli ingredienti principali. Come racconta Vitruvio, il cemento usato dai romani per legare gli aggregati del calcestruzzo era una miscela di calce e cenere vulcanica. Gli aggregati a loro volta erano costituiti da sabbia o roccia vulcanica frantumata che, nel caso del Pantheon, comprendeva pietra pomice per alleggerire la struttura.
Studi recenti hanno dimostrato che la cenere contribuiva alla forza e alla resistenza del calcestruzzo, e aumentava la coesione delle particelle degli aggregati dopo che per qualche motivo penetrava dell’acqua. Quest’ultima scioglieva i minerali vulcanici creando idrati di alluminosilicato di calcio, il principale materiale legante del calcestruzzo. Questo rallentava anche la moltiplicazione delle crepe microscopiche. Nelle crepe stesse erano presenti gli idrati, a dimostrazione delle capacità di autoriparazione del calcestruzzo.
In uno di questi studi, pubblicato nel 2021, un gruppo coordinato da Marie Jackson dell’università dello Utah e da Admir Masic del Massachusetts institute of technology ha descritto la struttura della malta (una versione fine del calcestruzzo) di un muro di mattoni del mausoleo di Cecilia Metella, che si trova sull’Appia antica, tra Roma e i colli Albani. È emerso che la leucite, un minerale vulcanico ricco di potassio, sciogliendosi nell’acqua modifica i legami chimici tra cemento e aggregati, rendendo più resistente l’intera struttura.
I materiali vulcanici non sono però l’unico segreto. Anche la calce, il secondo ingrediente del calcestruzzo romano, ha contribuito a rinforzarlo dopo che penetrava dell’acqua. O almeno è quanto ha stabilito uno studio coordinato da Masic appena pubblicato su Science Advances. In questo caso i ricercatori hanno prelevato dei campioni di muro del secondo secolo aC nel sito archeologico di Priverno, scoprendo che era stata soprattutto la calce a sigillare crepe e fessure.
La calce usata a Priverno non era la polvere bianca pura descritta da Vitruvio, ma presentava dei grumi di un millimetro, comuni nel calcestruzzo romano, che non si scioglievano durante la preparazione. A quanto pare i grumi costituivano una riserva di carbonato di calcio per i processi di autoriparazione. La distribuzione e la forma dei grumi indica che la calce era aggiunta alla miscela sotto forma di calce viva e non, come avviene oggi, spenta. Questo significa che il calcestruzzo romano era almeno in parte impastato a caldo, mentre oggi di solito si fa a freddo per evitarne l’espansione. Ma così si perdono alcune proprietà rigenerative della calce.
I costruttori moderni dovrebbero forse trarre ispirazione dal metodo dei romani. “Il calcestruzzo romano”, dice Didier Snoeck, ingegnere dell’Université libre de Bruxelles “dimostra che il cemento moderno, la cui produzione genera grandi quantità di anidride carbonica, non è indispensabile per ottenere un calcestruzzo forte e resistente”. L’esempio romano potrebbe anche aiutare gli ingegneri a mettere a punto un calcestruzzo più longevo e capace di rigenerarsi, che ridurrebbe i lavori di manutenzione e farebbe durare più a lungo gli edifici. ◆ sdf
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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati