Ogni libro di Tamara Tenenbaum è una specie d’incantesimo di magia bianca che dà al lettore la forte sensazione di conoscere l’autrice, come se lei lo invitasse ogni volta a un tavolo diverso ma sempre per prendere un caffè e parlare di cose quotidiane. Senza intensità drammatica, senza eccessiva freddezza, anche se a volte definiscono questa autrice “cinica”. Il suo primo romanzo completa la magia e va di pari passo con i suoi racconti, perché segue lo stesso stile: un certo disagio, la quotidianità, l’intimità non esagerata, storie che non hanno un inizio o una fine definiti. Tenenbaum narra scene della sua vita, tra le quali c’è una relazione, a volte più chiara, a volte meno. L’autrice racconta di come suo padre sia morto nell’attentato di Buenos Aires del 1994; di cosa hanno fatto con il risarcimento; della madre medica e di una delle sue sorelle fisica; del rapporto con i nonni; cita alcuni amici; fa alcune riflessioni sulla fede, sul denaro, su Buenos Aires. Inoltre, sempre senza morbosità, descrive i ricordi della comunità ebraica ortodossa di cui faceva parte e che ha abbandonato per entrare in un liceo laico. Le donne sono al centro ma senza femminismi posticci. Degli uomini si sa poco. Il romanzo è pieno di dettagli che bilanciano le descrizioni dei grandi eventi. Con naturalezza, con una “poesia involontaria” neanche lontanamente edulcorata, con riflessioni semplici ma non scontate. Con equilibrio, che ha chi sa prendersi una pausa e guardare l’andirivieni della vita.
Micaela Fe Lucero, La Voz
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati