Spesso si sente dire che la prima mostra di fotografie a colori al MoMa, il museo d’arte moderna di New York, negli Stati Uniti, sia stata quella dedicata a William Eggleston nel 1976. Ma non è vero, perché nel 1962 il museo aveva già presentato, con il titolo Color photography, dieci anni del lavoro di Ernst Haas. The creation, il libro più famoso del fotografo austriaco dell’agenzia Magnum, pubblicato due anni prima della sua morte nel 1984, avrebbe venduto 350mila copie. In un’epoca in cui solo la fotografia in bianco e nero era considerata un’espressione artistica, i seducenti paesaggi di Hass scattati nell’ovest degli Stati Uniti e le immagini mosse di cowboy e rodei con le loro tonalità lilla, rosse e gialle, di città in cui la luce creava riflessi maliziosi sulle vetrine, avevano avuto immediatamente un grande successo.
Il discorso è molto diverso per le 75 magnifiche immagini di Eggleston, stampate in dye-transfer, l’unica tecnica che all’epoca assicurava garanzie di conservazione. La proposta del fotografo nato il 27 luglio 1939 a Memphis, in Tennessee, dove vive ancora oggi, era esteticamente radicale. Nelle sue immagini catturava la vita intorno a sé: i componenti della sua famiglia, persone anonime per strada o di fronte ai supermercati, spazi urbani con cartelli stradali, vecchi pneumatici vicino a un muro illuminato dalla luce del sole al tramonto, ma anche l’interno di un forno o di un frigorifero. In altre parole, semplici elementi della vita quotidiana, fotografati senza effetti e senza che in quel momento stesse succedendo nulla di particolare. Sul New York Times del 28 maggio 1976 il critico d’arte Hilton Kramer ne scrisse in modo molto chiaro: “Perfettamente banali, forse; perfettamente noiose, sicuramente”. Oggi però le stampe di quel periodo sono vendute a più di cinquecentomila dollari l’una e il catalogo William Eggleston’s guide, che riproduce su una copertina scura la famosa foto di un triciclo inquadrato da terra come se a osservarlo fosse un bambino, continua a essere ristampato.
Attualmente Eggleston è rappresentato dalla galleria David Zwirner, una delle più importanti sul mercato dell’arte contemporanea, mentre suo figlio e suo nipote gestiscono quello che è diventato un grande giro d’affari a cui l’autore non è interessato. Acclamato come un incontestabile precursore e il più importante tra i fotografi che hanno imposto il colore come espressione artistica, Eggleston si distingue rispetto ad altri autori della sua generazione, come Joel Meyerowitz o Richard Misrach, o di quella successiva di Mitch Epstein, che hanno scelto la stessa strada, ma adottando un approccio più documentario o più estetizzante.
Eggleston è unico. Come lo era già il ragazzo introverso che amava suonare il pianoforte, disegnare, fabbricare apparecchi per registrare i suoi familiari, e a cui non piacevano la scuola e le attività che all’epoca erano considerate importanti per la sua età, come lo sport e la caccia.
Aveva dieci anni quando il nonno gli regalò la sua prima macchina fotografica, una Kodak Brownie Hawkeye, che in fin dei conti non lo interessava molto. È in quel periodo che cominciò a distinguersi dai suoi coetanei, indossando abiti formali, in forte contrapposizione con la moda dell’epoca, che stava diventando sempre più casual. Anche in seguito, con l’arrivo del movimento hippy, il look di Eggleston non cambiò. La sua aria seria era spesso in contraddizione con il suo comportamento poco convenzionale. E ancora oggi, questo artista dallo stile dandy punk continua a indossare i suoi completi neri dal taglio impeccabile confezionati a Londra, nel Regno Unito, le sue camicie bianche, le sue cravatte e i suoi papillon, spesso slacciati.
Attraverso i colori e le inquadrature crea fotografie prive di qualunque elemento aneddotico
Dopo aver frequentato un anno la Vanderbilt university di Nashville, in Tennessee, Eggleston rimase cinque anni al Delta state college di Cleveland, in Mississippi, senza mai sostenere un esame: “Non mi sono mai laureato perché avevo l’impressione che fare un esame non avesse senso. E siccome non volevo farli, dovevo convincere il rettore a lasciarmi tornare l’anno successivo. Ed era difficile, perché pensava che non fossi molto portato per lo studio”. Anticonformista, amante delle feste, viveva già allora con un certo distacco, che non lo abbandonerà mai. Spinto da un amico, comprò una Leica e colpito dalla differenza di qualità rispetto alle fotografie che scattava con la piccola macchina della sua infanzia, ne restò sedotto ed entusiasta: “In quel momento capii che la fotografia faceva per me. Persi subito interesse per l’università”.
La scoperta di Cartier-Bresson
Così, in modo naturale, Eggleston cominciò a fotografare in bianco e nero, avendo come punti di riferimento Walker Evans e soprattutto Henri Cartier-Bresson. “A differenza delle altre foto dell’epoca, quelle di Henri Cartier-Bresson s’ispiravano alla pittura, avevano qualcosa a che vedere con i grandi maestri come Degas, Toulouse-Lautrec, Matisse. Per me erano le prime foto che si rifacevano a quei pittori. In Cartier-Bresson c’erano delle prospettive che somigliavano a quelle usate nelle opere di Degas o di Toulouse-Lautrec. Se c’era una cosa nel lavoro di Evans che non mi piaceva, era proprio la sua scelta di usare sempre la stessa inquadratura frontale. Non ho mai apprezzato molto le fotografie frontali. Penso di aver capito cosa volesse dire Evans, ma la mia vera scoperta è stata Cartier-Bresson. All’epoca il mio sogno era fare delle copie perfette delle sue immagini”.
Dopo aver capito quali erano i suoi limiti rispetto al maestro, durante i suoi numerosi viaggi a Parigi, in Francia, passò al colore e cominciò a riflettere su cosa fotografare, visto che era già stato fotografato tutto. “Ho capito che avrei dovuto cercare paesaggi inesplorati. La novità all’epoca erano i centri commerciali e così è lì che sono andato”.
Nel 1967 Eggleston cominciò a usare la Kodachrome e si divertì a proiettare le sue diapositive a casa con gli amici. Un giorno, per caso, consultando i prezzi di un laboratorio fotografico in cerca di una migliore qualità rispetto a quella del posto in cui andava di solito, scoprì il dye-transfer e così, a poco a poco, trovò la strada che avrebbe caratterizzato il suo metodo di lavoro.
Quando mostrò le sue foto a John Szarkowski, lo storico responsabile della fotografia del MoMa confessò di non aver mai visto nulla del genere e decise subito di organizzare una mostra. Per prepararla Eggleston si trasferì per un anno e mezzo nella stanza 714 del Chelsea hotel, entrando in contatto con il mondo dell’arte di New York. Andava regolarmente alla factory di Andy Warhol, che “non lo impressionava”, e conobbe le persone che la frequentavano. È lì che incontrò una delle sue modelle, Viva, che recitava in molti film di Warhol e con cui ebbe una relazione duratura.
Auto, ombre, spazi urbani costruiti con un’apparente facilità, ma in realtà complessi. Una rara capacità d’integrare elementi dell’inquinamento visivo, come scritte, cartelli stradali, cavi elettrici, e d’imporre giochi di colori e di strane inquadrature. Tutto questo dà vita a fotografie prive di qualsiasi elemento aneddotico, che rendono l’opera di Eggleston veramente unica. Come se riuscisse a unire con grande libertà il documentarismo di Walker Evans e il surrealismo degli esordi di Cartier-Bresson. La fotografia di Eggleston afferma che a essere importante non è il soggetto, per quanto banale, ma la forma. ◆ adr
◆ La mostra William Eggleston. Mystery of the ordinary è esposta fino al 4 maggio 2023 alla fondazione C/O Berlin di Berlino, in Germania. È accompagnata da alcune pubblicazioni dedicate al lavoro di Eggleston pubblicate dalla galleria David Zwirner e dalla casa editrice Steidl.
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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati