Youngmi ha avuto un’infanzia difficile. È un’infermiera di 25 anni nata in una famiglia povera a Daegu, una delle città più conservatrici della Corea del Sud. La madre se ne andò di casa per scappare dai maltrattamenti del marito, lasciando Youngmi e la sorella, ancora piccole, con lui e la nonna paterna. A otto anni la sorella cominciò a perdere i capelli per lo stress.
Crescendo, Youngmi era sempre depressa, spaventata dal futuro. Nella società coreana – dove dalle donne ci si aspetta deferenza verso la figura paterna e il rispetto di rigidi standard di bellezza – si sentiva una vittima, ossessionata dai torti che il padre le faceva e obbligata a curare il suo aspetto per piacere agli uomini. Anche se da apprendista infermiera non guadagnava molto, ogni stagione si rifaceva il guardaroba, spendendo soldi in abiti di scarsa qualità. Si truccava religiosamente. “Non potevo uscire senza trucco. Mi vergognavo”, dice. “Sentivo la pressione di dover essere bella e desiderabile, fisicamente o sessualmente”.
Nel 2018, scorrendo i post su Twitter, Youngmi vide il filmato di una protesta per le strade di Seoul. In un paese in cui i casi di femminicidio, revenge porn e violenza nelle relazioni di coppia sono molto frequenti, una serie di reati sessuali con telecamere nascoste, commessi quasi tutti da uomini, erano stati sanzionati con semplici multe e sospensioni della pena, o addirittura archiviati: senza fare nulla. Solo una donna di 25 anni, che aveva scattato di nascosto una foto a un modello nudo in una scuola d’arte e l’aveva postata su internet, era stata condannata a dieci mesi di carcere e a seguire una terapia per gli autori di violenza sessuale. Le proteste su Twitter erano una reazione a questa sfacciata ipocrisia.
Youngmi rimase colpita da tutta quella solidarietà, ma c’era una cosa che la lasciava perplessa: molte manifestanti si erano rasate la testa davanti alla telecamera. Seguendo altri account femministi su Twitter, Youngmi capì che si trattava di un modo per non adeguarsi alle aspettative estetiche imposte alle donne, le stesse che hanno portato il paese in testa alle classifiche mondiali per il consumo di prodotti di bellezza e il ricorso alla chirurgia plastica. Cominciava a rendersi conto che “per gli uomini non è così: non sentono la pressione di rifarsi il guardaroba ogni stagione o di truccarsi”.
L’autonomia prima di tutto
Qualche tempo dopo, si è rasata anche lei la testa e ha smesso di truccarsi, unendosi al movimento Sfuggiamo al corsetto, di cui facevano parte molte giovani sudcoreane. Diventato popolare nel 2018, il movimento era animato da ragazze che rifiutavano pubblicamente gli standard di bellezza, e per questo portavano i capelli corti e non si truccavano (Youngmi era in buona compagnia: in un sondaggio del 2019, il 24 per cento delle donne tra i venti e i trent’anni diceva di aver ridotto la spesa in prodotti di bellezza; molte dichiaravano di non sentirne più l’esigenza).
Da lì Youngmi è approdata al 4B, un movimento in grande crescita. Il nome 4B è l’abbreviazione di quattro parole che in coreano cominciano tutte per bi, cioè “no”: il primo no, bihon, è il rifiuto del matrimonio eterosessuale; blichulsan è il rifiuto della maternità; biyeonae è il no al corteggiamento e bisekseu no ai rapporti eterosessuali.
Non le interessa frequentare altre donne, ma crede nel lesbismo politico
Il 4B è sia una presa di posizione ideologica sia uno stile di vita, e molte donne con cui ho parlato estendono il no a quasi tutti gli uomini, prendendo le distanze anche dagli amici. Attraverso le chat aperte di KakaoTalk (l’app di messaggistica più diffusa in Corea del Sud), Youngmi è entrata in contatto con altre femministe di Daegu, dove viveva con la madre quando frequentava la scuola per infermieri, e ha cominciato a incontrarle (“È facilissimo riconoscersi con i capelli corti”, dice). Ha smesso di vedere le amiche delle medie e delle superiori, che parlavano sempre di trucchi, vestiti e ragazzi. A novembre, quando ci vediamo in un caffè di Seoul, dove abita da due anni, Youngmi è senza trucco e indossa jeans larghi con una felpa bianca. I capelli le sono ricresciuti e li tiene legati in una coda di cavallo, perché si è stancata delle domande dei colleghi sui capelli corti, ma li nasconde sotto un cappellino da baseball bianco. Il femminismo, mi dice, l’ha aiutata a capire che il problema è il patriarcato, non lei, e che “le cose brutte che ti succedono nella vita non sono colpa tua”.
Per Youngmi e tante altre che condividono gli stessi princìpi, il 4B, o “praticare il bihon”, è l’unico modo per vivere in autonomia. Ai loro occhi, gli uomini sudcoreani sono irrecuperabili e la cultura del paese è irrimediabilmente patriarcale, spesso perfino misogina. Secondo uno studio del 2016 del ministero per la parità di genere e la famiglia, nel 41,5 per cento delle coppie ci sono stati episodi violenti, una percentuale molto più alta della media mondiale, pari al 30 per cento. Le sostenitrici del 4B sperano di cambiare la società – attraverso le manifestazioni e l’attivismo online, e offrendo un modello di vita alternativo alle altre donne – ma non stanno cercando di cambiare gli uomini, che considerano i loro oppressori. È troppo presto per dire se il movimento riuscirà a sopravvivere e a prosperare. Certo è che le sue idee e le sue azioni hanno già avuto un impatto sui dibattiti online, sulla politica e, soprattutto, sulla vita delle donne sudcoreane.
“Praticare il bihon significa eliminare i rischi legati al matrimonio o alle relazioni eterosessuali”, mi spiega Yeowon, un’impiegata di 26 anni, sulla terrazza di un bar di Busan, una città sulla costa meridionale. Parliamo davanti a caffè e pasticcini; ci sono anche la fidanzata di Yeowon e un’altra amica: tutte e tre portano pantaloni neri larghi, felpa nera e capelli corti. I rischi a cui allude Yaewon possono sembrare familiari – sacrificare la carriera per badare ai figli e alla casa, oltre alla violenza fisica – ma in Corea, dice, il matrimonio rappresenta una minaccia esistenziale. Un tempo Minji, un’attivista del 4B di Daegu, voleva sposarsi, “perché, insomma, tutti vogliono sposarsi”. Sapendo quello che sa oggi, però – per esempio che la violenza domestica è così comune – ha cambiato idea. Minji ha 27 anni, probabilmente è eterosessuale e in passato le sono piaciuti dei ragazzi, ma “volevano che li trattassi come dei re”. Oggi non si fa problemi a boicottare gli uomini della sua generazione, che a suo dire sono poco meglio di suo padre, egoista e violento.
Anche molte ragazze estranee al movimento confermano che non potrebbero frequentare o sposare un uomo coreano. Sooyeon, un’insegnante di poco più di trent’anni, racconta: “Quando parlo con i miei amici maschi penso sempre ‘Forse non troverò mai un uomo coreano’… molti, anche quelli della mia generazione, si aspettano che la moglie mantenga un ruolo profondamente tradizionale”. Quasi a conferma delle sue parole, un recente sondaggio di un’agenzia matrimoniale mostra che le donne preferiscono non sposarsi per via della divisione dei lavori domestici, mentre per gli uomini il deterrente è il “femminismo”.
Rapporti guastati
Non è chiaro quanto il 4B sia diffuso o popolare, perché in parte raccoglie adesioni online e nel corso degli anni è cambiato. Nato tra il 2015 e il 2016, da semplice stile di vita contrario al matrimonio si è trasformato in un boicottaggio degli uomini e del lavoro riproduttivo in generale. Secondo un articolo le attiviste sarebbero 50mila, altri ridimensionano la cifra a meno di cinquemila. La storia delle origini del 4B è altrettanto incerta, anche se è possibile delinearne i contorni.
Dopo anni di crisi finanziarie in cui i giovani avevano dovuto fare i conti con l’aumento del costo degli alloggi e con una concorrenza serrata per l’ingresso nelle università e nel mondo del lavoro, i rapporti tra uomini e donne si sono guastati. Dal 2013 il tasso d’iscrizione all’università delle donne coreane ha superato quello degli uomini; oggi quasi tre quarti delle ragazze sono iscritte a corsi d’istruzione superiore, mentre tra i ragazzi non si arriva ai due terzi. In passato ci si aspettava che le donne smettessero di lavorare dopo il matrimonio o la maternità. Oggi i giovani considerano le loro coetanee delle concorrenti per posti di lavoro che continuano a diminuire (diversi studiosi con cui ho parlato spiegano che la Corea è etnicamente omogenea, perciò il genere è la principale linea di frattura della società). Nei forum online e sui social network, molti uomini arrabbiati hanno cominciato a chiamare le laureate kimchinyeo o “donne kimchi”, per indicare lo “stereotipo della coreana egoista, vanitosa, ossessionata da se stessa mentre sfrutta il partner”, ha scritto la studiosa femminista Euisol Jeong nella sua tesi di dottorato sul “femminismo troll”.
Tra il 2014 e il 2015 in Corea del Sud si era formata una comunità violentemente misogina e antifemminista, chiamata Ilbe. Chi ne faceva parte sosteneva che le donne stavano pretendendo altri diritti e privilegi quando già avevano l’esenzione dal servizio militare obbligatorio. Agli occhi della comunità Ilbe, l’intera popolazione femminile era opportunista e superficiale. In rete molte coreane avevano reagito con metodi tipicamente misogini come il trolling _(interventi provocatori sui social network), la presa in giro e il linguaggio offensivo. Megalia, uno dei più importanti siti femministi all’epoca, aveva coniato il termine _hannamchung, “insetto maschio coreano”, per rappresentare l’uomo sudcoreano come “brutto, sessista e fissato con il sesso a pagamento”, scrive Jeong.
Nel 2016 un giovane massacrò a coltellate una ragazza in un bagno pubblico di Seoul, confessando successivamente alla polizia di averla uccisa perché le donne lo avevano sempre ignorato. Nonostante questa dichiarazione, la polizia si rifiutò di considerare l’omicidio un crimine d’odio. Infuriate, le donne si sfogarono in massa sui forum e sulle chat femministe. Questa ondata di femminismo digitale attirò persone di ogni estrazione, anche di ragazze come Minji e Youngmi, segnando una differenza dal femminismo coreano tradizionale, confinato quasi sempre nelle università, nelle associazioni finanziate dallo stato e in altri spazi di nicchia.
Nel dicembre 2016, mentre il tasso di fecondità in Corea del Sud si aggirava intorno a 1,2 nascite per donna (oggi è 0,78, il più basso del mondo), il governo pubblicava una “Mappa nazionale delle nascite” che mostrava il numero di donne in età riproduttiva in ogni municipalità, spiegando cosa ci si aspettava da loro (nel marzo 2022 il presidente Yoon Suk-yeol ha vinto le elezioni dando al femminismo la colpa per il basso tasso di nascite, con la promessa di abolire il ministero per la parità di genere e la famiglia). Le donne si indignarono, osservando che il governo le stava trattando come “capi di bestiame”; su Twitter un’utente pubblicò una falsa mappa che mostrava la distribuzione degli uomini coreani con disfunzioni sessuali. La risposta di molte di queste “femministe digitali” fu boicottare il lavoro riproduttivo chiesto dallo stato, concludendo che il modo più sicuro di evitare la gravidanza era evitare gli uomini. Attraverso questi gruppi online si diffuse lo slogan del 4B, che poi sarebbe diventato un movimento.
Le rappresaglie e le minacce subite rafforzano la convinzione, all’interno del 4B, che la Corea del Sud sia ancora un luogo in cui le donne devono avere paura. Dopo aver partecipato a una manifestazione femminista, Yeowon ha visto la sua foto pubblicata su un sito Ilbe ed è stata molestata e minacciata su internet per settimane. Youngmi dice che degli uomini hanno provato ad aggredirla fisicamente per la strada tre o quattro volte. Ricorda anche che una sera lei e alcune amiche, tutte con i capelli corti, stavano cenando in un ristorante giapponese a Daegu: per tutta la serata, il gestore e i suoi amici hanno simulato conati di vomito e rivolto gestacci verso il loro tavolo. Quando incontro Minji in un bar nei pressi della stazione centrale, mi confida di essere preoccupata che qualcuno posti una sua foto online perché porta i capelli corti e sta parlando apertamente di femminismo. Altre donne che intervisto mi chiedono di usare degli pseudonimi per motivi di sicurezza.
Rinunciare alle relazioni a lungo termine con gli uomini ha anche altre conseguenze. La Corea del Sud ha il più grande divario retributivo di genere del mondo ricco: le donne guadagnano il 31 per cento in meno degli uomini, e subiscono ancora discriminazioni sul lavoro, cosa di cui il movimento è consapevole. Un tweet del 2018, più volte condiviso, incoraggiava le donne del 4B a risparmiare i soldi che di solito spendevano in vestiti per sostenere uno stile di vita indipendente ed evitare di diventare “nonne senza un centesimo in tasca e il guardaroba pieno”.
◆ “Lo sciopero delle nascite sta uccidendo la Corea del Sud”, scrive sul New York Times Hawon Jung, autrice di Flowers of fire (Fiori di fuoco), sul movimento #metoo in Corea del Sud. Secondo un sondaggio del 2022, il 65 per cento delle donne sudcoreane, contro il 48 per cento degli uomini, non vuole figli e rifiuta il matrimonio e le pressioni annesse. Per tre anni consecutivi il paese ha registrato il più basso tasso di fecondità al mondo e il numero dei morti ha superato quello delle nascite dieci anni prima del previsto. “Circa metà delle città, delle contee e dei distretti del paese rischia di sparire a causa dello spopolamento; asili nido e scuole dell’infanzia si trasformano in case di cura per anziani, le cliniche ostetriche chiudono e aprono pompe funebri”. Per Chung Hyun-back, ministra della parità di genere e della famiglia del precedente governo di Seoul intervistata da Jung, la colpa è “della cultura patriarcale”.
Le donne del 4B “lavorano duramente perché sanno che non ci sarà un uomo o un marito a mantenerle”, dice Jeong, la studiosa che ha scritto la tesi di dottorato sul femminismo troll, sottolineando che ci sono attiviste che fanno due o tre lavori contemporaneamente. Youngmi e la fidanzata vivono a circa un’ora di metropolitana dal centro di Seoul, nella zona sud, dove gli affitti sono più abbordabili. Yeowon mi spiega che il suo piccolo monolocale, il massimo che può permettersi al momento, è in un quartiere poco sicuro vicino a un mercato dove spesso gli uomini ubriachi si ritrovano dopo la chiusura dei bar. La sua compagna, che lavora nel settore informatico, recentemente si è trasferita perché nell’ultimo appartamento c’erano gli scarafaggi.
Youngmi e le sue amiche hanno creato una mappa delle aziende a Daegu a conduzione femminile per assicurarsi che i loro soldi vadano a sostegno di altre donne. “L’economia è un tema molto importante per noi”, dicono. Altri gruppi legati al movimento organizzano eventi con esperti per insegnare alle donne a risparmiare e a investire. Alcune iscritte a una comunità online chiamata With (acronimo di women in the hell, donne all’inferno, dove l’inferno è la Corea) si concentrano solo sull’economia: postano offerte di lavoro, indicazioni su quali banche offrono i tassi d’interesse migliori e altri consigli finanziari.
Han, un’insegnante di matematica che ha aperto un servizio di tutoraggio a Daegu, è convinta che più le donne diventeranno forti economicamente, più crescerà la loro forza politica, e che per realizzare questo processo servirà una ventina d’anni. L’interesse per la finanza è dettato dall’urgenza di mantenersi, ma anche dalla prospettiva a lungo termine d’indebolire il patriarcato diffondendo i princìpi del 4B. “Quando le donne saranno più influenti economicamente, allora forse i partiti le ascolteranno”, osserva Han. “Ma, fino a quel momento, la mia sensazione è che le donne continueranno a essere sfruttate; i loro corpi saranno usati per la riproduzione”.
Divisioni interne
A minacciare il futuro del movimento 4B non sono solo le reazioni politiche negative e le difficoltà economiche. Come ogni movimento sociale, il 4B ha le sue spaccature interne: le donne possono essere amiche degli uomini? O di altre donne che vogliono continuare a frequentare gli uomini? Il lesbismo è necessario per costruire un mondo senza uomini, oppure è un elemento che privatizza le relazioni, distrugge la solidarietà femminista e sessualizza le donne? Ad alcune militanti, inoltre, non piace che il movimento si focalizzi sulle donne cisgender escludendo le trans. Molti gruppi online chiedono a chi vuole farne parte d’identificarsi con una foto che attesti il sesso. Minji mi spiega che una delle comunità femministe di cui fa parte le ha chiesto d’inviare un video del suo pomo d’Adamo per verificare che non era nata maschio.
Ma, al di là dalla loro posizione su questi temi, per le attiviste 4B che ho incontrato divergenze simili influiscono poco sull’impegno personale a vivere separate dagli uomini.
In un movimento nato dalla rabbia, cosa succede quando questa svanisce o quando altre preoccupazioni diventano prioritarie? Yeowon definisce le sue amiche “femministe selettive”: non si truccano quando devono incontrarsi ma non sono ancora pronte a rinunciare ai vantaggi che derivano dall’essere attraenti in senso convenzionale. “Non riescono a rinunciare al potere della femminilità”, riflette. “Ci sono femministe che dicono: ‘Io sono una femminista, odio gli uomini ma voglio anche essere, insomma… appetibile”. Yeowon e le sue amiche mi descrivono dei video pubblicati su YouTube da donne ex bihon che raccontano di aver visto la luce e di essere tornate eterosessuali.
Per il momento, è certo che il messaggio del 4B, a prescindere da come venga praticato o da quanto le sue sostenitrici lo sentano loro, ha dato un rifugio alle donne sudcoreane. Taekyung, 24 anni, sta facendo un master in letteratura tedesca all’università di Ewha, un ateneo per ragazze con un solido movimento femminista e un rispettato dipartimento di studi di genere. In una bellissima giornata d’autunno mi porta orgogliosa in giro per il campus, che risale alla fine dell’ottocento, e mi mostra il negozio di souvenir e la zona dove le studenti socializzano e a volte si riposano.
Cerca di evitare gli uomini fin dalle superiori: una volta, lavorando a una ricerca sull’Ilbe, ha visto dei siti web dove alcuni uomini avevano postato le foto di loro familiari nude e discutevano di come evitare condanne in caso di stupro. Dopo il liceo è andata all’università delle donne di Sungshun. Non crede alle etichette sull’orientamento sessuale e non le interessa frequentare altre donne, ma crede nel lesbismo politico come un modo per vivere separata dagli uomini, insistendo su “politico” più che su “lesbismo”. “Nel lesbismo politico posso essere semplicemente una persona, un essere umano. Mi sento in un posto sicuro”, mi dice mentre beviamo un latte di patate dolci nella caffetteria del campus. La cosa più importante, per lei, è l’assenza degli uomini. “Quando dico ‘posto sicuro’, intendo sempre un posto per le donne”. ◆ fas
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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati