Una minaccia eterna. Una paura esistenziale, nascosta in un angolo oscuro della memoria collettiva. In nessun altro posto al mondo oggi la liberazione degli ostaggi è così centrale come per chi governa in Israele, un paese creato settantacinque anni fa per offrire un rifugio sicuro agli ebrei della diaspora. “In Francia, negli Stati Uniti o in Russia lo stato ha il compito di riportare a casa gli ostaggi. Ma se il governo non ci riesce, non si rimette in discussione lo stato dalle sue fondamenta. In Israele sì”, spiega Vincent Lemire, docente dell’università Gustave-Eiffel di Parigi ed ex direttore del Centro di ricerca francese a Gerusalemme. Non importa a che prezzo, ma quelle persone devono tornare “a casa”: è il contratto implicito sottoscritto con chi guida il paese. La sicurezza e l’integrità dei cittadini non è una questione secondaria, ma un’esigenza fondamentale. “Per capirne l’importanza, basta guardare come sono considerati gli ostaggi, anche se sono già stati uccisi. Lo stato è pronto a fare concessioni importanti per recuperare i corpi”, aggiunge Lemire.
C’entra la necessità di celebrare i rituali religiosi, ma non solo. È come uno scongiuro contro un destino che si ripete all’infinito, alimentato da un circolo vizioso di vendette reciproche. “Nella storia del conflitto israelo-palestinese”, dice lo storico Gilles Ferragu, “la cattura di ostaggi è una realtà antica e ricorrente, qualunque sia l’avversario, dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) a Settembre nero fino ad Hamas”.
Una delle serie tv più famose in Israele, Hatufim (rapiti, in ebraico), parla del ritorno dei prigionieri di guerra. Secondo il suo regista, Gideon Raff, “il ricordo dei sequestri è nel nostro dna. Quando ero bambino, queste vicende non erano così lontane, segnavano la società. Non si poteva sfuggire a quella paura”. Raff non fa differenza tra ostaggi civili e militari: “Israele è un paese molto piccolo. Tutti conoscono una famiglia o una persona coinvolta. Quando capita una cosa simile, ti tocca per forza da vicino, è una questione personale”.
Dalla fine degli anni sessanta la vita dello stato israeliano è stata segnata dagli attentati e dai dirottamenti aerei, rivendicati per lo più dall’Fplp. A causa della continua cattura di ostaggi e dopo numerose tragedie, Israele ha dovuto rivedere la sua dottrina. Dall’intransigenza delle origini si è passati a scambi sempre più consistenti di prigionieri: negli ultimi trent’anni Israele ha liberato quasi settemila prigionieri in cambio di 19 israeliani, spesso soldati dell’esercito. È una strana aritmetica, secondo cui una vita non vale mai solo una vita. Poi il 7 ottobre 2023 il paese ha subìto il rapimento di più di 220 persone, una cosa mai vista che ha seminato il terrore. Svelando la vulnerabilità di Israele, questi fatti hanno cambiato tutto.
Le Olimpiadi di Monaco
Finora il caso più clamoroso era stato quello dei giochi olimpici del 1972 a Monaco di Baviera, in Germania. Quale luogo più simbolico della città culla del nazismo, a trenta chilometri dal campo di concentramento di Dachau, dove dovevano sfilare gli atleti israeliani? Con il grande evento sportivo, seguito in tutto il mondo, i tedeschi si proponevano di far dimenticare le Olimpiadi di Berlino del 1936, monumentale esibizione nazista orchestrata da Adolf Hitler. Questi “giochi della gioia” dovevano inaugurare una nuova era. La sicurezza era conforme all’immagine: leggera, quasi inesistente. Era garantita da “guardiani della pace olimpica”, vestiti di azzurro e disarmati.
La sicurezza e l’integrità dei cittadini sono un’esigenza fondamentale
Gli atleti della delegazione israeliana si stupirono di dover viaggiare, contrariamente alle loro richieste, su un volo di linea della Lufthansa, senza protezioni particolari. Nel villaggio olimpico, inoltre, si entrava e si usciva senza problemi. Il commando di Settembre nero, ramo dissidente dell’organizzazione politica e paramilitare palestinese Al Fatah, era composto da otto uomini accuratamente addestrati per l’operazione. Questi scavalcarono senza grandi difficoltà una recinzione alta due metri, con l’aiuto di atleti canadesi ingannati dalle tute e dalle sacche sportive.
Quel 5 settembre 1972, poco dopo le 4 del mattino, raggiunsero con pochi balzi il padiglione degli israeliani. Allarmato dal rumore dei fucili, delle pistole e delle granate che uscivano dalle sacche, l’arbitro di lotta greco-romana Yossef Gutfreund cercò di respingere i terroristi e fu ucciso. Uno dei sopravvissuti, Tuvia Sokolovsky, raccontò che quel gesto e il suo grido d’allarme gli salvarono la vita: ruppe una finestra con una sedia e scappò a piedi nudi nella notte. Un altro atleta, Moshe Weinberg, cercò di resistere ma fu ucciso. Cominciò un’attesa interminabile per nove ostaggi tra atleti e allenatori, legati e, in alcuni casi, feriti.
Le richieste dei terroristi furono rese note subito: la liberazione di 234 palestinesi, di Andreas Baader e Ulrike Meinhof, fondatori dell’organizzazione terroristica tedesca Rote Armee Fraktion (Raf), e un aereo per raggiungere un paese arabo con gli ostaggi. La scadenza dell’ultimatum fu prima rinviata e poi anticipata, dopo che in Israele la prima ministra Golda Meir fece sapere che non intendeva negoziare. Meir chiese invano di fermare i giochi. Gli statunitensi rimpatriarono in fretta e furia il loro campione di nuoto Mark Spitz, di origine ebraica, che aveva appena vinto sette medaglie d’oro.
Verso le dieci di sera i nove ostaggi e gli otto terroristi salirono a bordo di minibus per raggiungere tre elicotteri, che li portarono alla base Nato di Fürstenfeldbruck, a nord di Monaco. Le autorità tedesche non avevano mai avuto intenzione di far decollare alcun aereo, ma l’improvvisazione totale di quell’operazione provocò una carneficina. Dopo un’ora e un quarto di spari in tutte le direzioni, a volte al buio, i nove ostaggi furono uccisi dai terroristi, a bruciapelo o con l’esplosione di una granata. La risposta israeliana, chiamata Collera di dio, cominciò quattro giorni dopo. L’aviazione bombardò le basi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) in Siria e in Libano, provocando duecento vittime.
Ci sono voluti cinquant’anni, fino al 31 agosto 2022, perché la Germania firmasse un accordo per risarcire i familiari degli atleti. E, cosa ancora più importante, perché una commissione di storici tedeschi e israeliani fosse incaricata di fare luce sugli errori commessi.
I bambini di Maalot
Il terrore di tutti i paesi è che i bambini diventino un bersaglio. Da quasi cinquant’anni questo terrore in Israele ha un nome: Maalot, un paesino a sette chilometri dalla frontiera con il Libano. Il 15 marzo 1974 tre uomini armati dell’Fplp, all’epoca guidato da Ahmed Jibril, entrarono in Israele dal Libano. Indossavano uniformi simili a quelle dell’esercito israeliano e parlavano perfettamente ebraico. Erano degli assassini. Attaccarono un furgone, uccidendo due donne arabe israeliane, poi entrarono in un edificio che ospitava più che altro immigrati. Si finsero poliziotti e uccisero una coppia e il figlio di quattro anni. Poi andarono verso la scuola elementare Netiv Meir. Erano le tre del mattino.
Lì dormivano 115 persone, tra cui 105 studenti tra i 12 e i 14 anni che erano in gita con i loro insegnanti. Il commando separò subito le bambine dai bambini e affidò a uno degli insegnanti una lista con i nomi di una ventina di militanti palestinesi prigionieri in Israele che dovevano essere liberati. Tra loro c’era il giapponese Kozo Okamoto, che apparteneva all’Armata rossa giapponese e in nome dell’Fplp aveva ucciso due anni prima 26 persone all’aeroporto di Lod, a Tel Aviv. Gli attentatori esigevano inoltre la presenza degli ambasciatori francese e romeno, Jean Herly e Joan Covaci, che li dovevano accompagnare in aereo verso un paese arabo vicino. Altrimenti, il commando minacciava di uccidere gli ostaggi.
Era la prima volta che dei terroristi sequestravano dei bambini. Fu come se la vicenda avesse strappato il contratto di sicurezza che ogni ebreo stipulava con lo stato israeliano: il giorno prima l’esercito aveva ritirato l’unità incaricata di proteggere la cittadina. La popolazione, indignata, ne chiese conto. Il generale Moshe Dayan, arrivato in fretta e furia in elicottero, fu sommerso dai fischi.
Cosa si può fare quando più di 220 civili sono usati come scudi umani?
La linea ufficiale escludeva ancora qualsiasi forma di negoziato, ma come fare quando un paese intero era sospeso davanti alle immagini dei genitori in lacrime? Il governo di Golda Meir sembrava esitare. Fu liberata prima Fatma Bernaoui, una terrorista condannata a quarant’anni di carcere per aver messo una bomba in un cinema di Gerusalemme nel 1967. Poi toccò ad altri due prigionieri. Ma gli ambasciatori francese e romeno, che dicevano di aspettare una “parola d’ordine” dall’Fplp, non arrivavano. L’organizzazione sosteneva che Israele aveva di fatto rinunciato a negoziare.
Un quarto d’ora prima dello scadere dell’ultimatum, sui tetti e all’ingresso della scuola si sentirono dei colpi di armi automatiche: un’unità della fanteria israeliana aveva lanciato l’attacco. Dieci minuti dopo i terroristi erano stati uccisi, ma erano morti anche 25 ostaggi, di cui 22 studenti, e altri 68 erano stati feriti dalle mitragliatrici e da una granata lanciata dal capo del commando. Meir spiegò in tv: “Avevamo accettato di negoziare, ma la parola d’ordine non è mai arrivata. A quel punto, con il cuore pesante, abbiamo deciso di attaccare”. Pochi giorni dopo, il 4 giugno 1974, avrebbe lasciato la politica.
Il salvataggio di Entebbe
Nella tarda mattinata del 27 giugno 1976 il volo 139 dell’Air France da Tel Aviv a Parigi era appena decollato dopo uno scalo ad Atene. A bordo c’erano 246 passeggeri e dodici membri dell’equipaggio. L’aereo stava sorvolando il canale di Corinto quando tre uomini e una donna annunciarono ai passeggeri senza andare troppo per il sottile che il volo era stato dirottato. A bordo si scatenò il panico. Due terroristi appartenevano alle Revoltionäre Zellen (un gruppo armato di estrema sinistra attivo in Germania) e gli altri due all’Fplp. A Bengasi, in Libia, fecero il pieno di gasolio, per poi dirigersi verso Entebbe, in Uganda. Alle quattro del mattino l’aereo atterrò sulla pista.
Tutti i passeggeri furono trasferiti in un terminal abbandonato, sotto la custodia dei soldati ugandesi e dei terroristi, presto raggiunti da tre complici palestinesi. Il dittatore del paese, Idi Amin Dada, assicurava acqua, viveri e condizioni di vita decenti. Le rivendicazioni del commando avevano il triste sapore di un dèjà-vu: la liberazione di 53 prigionieri filopalestinesi, tra cui il giapponese Kozo Okamoto e alcuni militanti della Raf. Poi liberarono 47 passeggeri, donne, bambini e anziani, e il giorno dopo, il 1 luglio, altri cento che non avevano passaporto israeliano.
Nel vecchio terminal erano rimasti gli ebrei, un centinaio di persone in tutto. Fino a quel punto il governo israeliano aveva rifiutato di negoziare. Ma quelle due ondate di liberazioni e la forte mobilitazione delle famiglie degli ostaggi cambiarono la situazione. Israele sembrava pronto a scambiare prigionieri. Intanto in gran segreto, con il sostegno logistico del Kenya, preparava un raid su Entebbe, guidato da Yonatan Netanyahu, fratello maggiore di Benjamin. Il brillante ufficiale di appena trent’anni fu l’unico morto israeliano dell’operazione Thunderbolt (Tuono). I sette terroristi furono tutti uccisi e 102 dei 105 ostaggi rimasti vennero salvati.
La distinzione degli ostaggi in base al passaporto ricorda il dirottamento della nave da crociera italiana Achille Lauro nel 1985. Lo scrittore ebreo polacco Marek Halter raccontò le sue conversazioni con il capitano della nave, Gerardo de Rosa, su Le Monde. L’8 ottobre 1985, verso le 15, il capitano sentì due colpi d’arma da fuoco e poco dopo vide arrivare uno dei terroristi, ricoperto di sangue, con il passaporto di Leon Klinghoffer, un ebreo statunitense paraplegico di 73 anni, appena gettato in acqua con la sua sedia a rotelle dopo essere stato ucciso con due proiettili alla testa. “American Kaputt!”, urlò l’uomo. “Tra tante lingue era proprio necessario che quel palestinese, nato tanti anni dopo la guerra, scegliesse quella parola in tedesco per annunciare la morte di un ebreo?”, scriveva Halter.
Gilad Shalit
I suoi tratti giovanili e soprattutto il suo nome, Gilad Shalit, sono rimasti scolpiti negli animi. Per cinque anni questo nome fu scandito nelle manifestazioni, citato da ministri, e il suo volto apparve ogni giorno in tv. La figura di Shalit ha assunto un’importanza enorme, non solo perché suo padre Noam smosse mari e monti per farlo liberare, ma perché incarna il patto siglato tra la società israeliana e l’esercito, in cui tutti i giovani israeliani con più di 18 anni devono fare un lungo servizio militare.
Gilad Shalit, 19 anni, era stato arruolato pochi mesi prima e assegnato, nonostante le cattive condizioni fisiche, a una squadra di carristi in una postazione nel sud del paese, vicino alle frontiere con l’Egitto e con la Striscia di Gaza. Qui il 15 giugno 2006 un commando attaccò il piccolo gruppo. Due giovani militari furono uccisi, un terzo venne ferito gravemente. Gilad fu portato a Gaza attraverso uno dei tunnel scavati da Hamas e chiuso in una grotta senza luce. Non sapeva che ci sarebbe rimasto cinque anni.
Shalit non era certo il primo soldato a essere rapito. I tre gruppi armati palestinesi che lo avevano in custodia conoscevano bene i precedenti e l’imperativo dello stato ebraico: “Nessun soldato dev’essere abbandonato al nemico”. In un piccolo paese con meno di dieci milioni di abitanti, sottolinea lo storico Ferragu, “l’esercito non può sacrificare i soldati, perché il rischio è di esaurire i reclutamenti”.
◆ Il 23 ottobre 2023 Hamas ha liberato due donne di 85 e 79 anni, che erano state rapite il 7 ottobre e tenute da allora in ostaggio nella Striscia di Gaza. Il portavoce del gruppo, Abu Obeida, ha dichiarato in un comunicato che le due donne sono state rilasciate “per urgenti motivi umanitari” grazie alla mediazione di Qatar ed Egitto. Questa liberazione arriva tre giorni dopo quella di due statunitensi, madre e figlia di 59 e 17 anni. Sarebbero più di 220 gli ostaggi israeliani, stranieri e con doppia cittadinanza ancora nelle mani di Hamas. Il presidente statunitense Joe Biden ha detto che le discussioni su un cessate il fuoco nel conflitto tra Israele e Hamas saranno possibili solo quando tutte le persone sequestrate dal movimento islamista palestinese saranno state liberate. Afp
Nel 1983 tre soldati israeliani erano stati liberati in cambio di quattromila palestinesi. Due anni dopo altri tre erano tornati a casa in cambio di 1.150 “prigionieri della sicurezza”, come li definisce Israele. Nella lista c’era il nipote di Ahmed Jibril, fondatore e capo dell’Fplp. La sua liberazione era stata importante per far avanzare i negoziati. Non erano mancate le polemiche: nel 1983 i vertici dell’esercito avevano molto criticato quei sei soldati “che si erano arresi senza combattere” e il presidente Chaim Herzog aveva ritenuto “indecente” la festa organizzata dai parenti per la loro liberazione.
Dopo aver ribadito più volte che non avrebbe mai negoziato con “un’organizzazione terroristica”, all’inizio del 2007 il primo ministro Ehud Olmert avviò una trattativa con Hamas usando la mediazione dell’Egitto. Un primo accordo non portò a nulla: i palestinesi esigevano la liberazione dei capi di Al Fatah e dell’Fplp, Marwan Barghouti e Ahmed Saadat. Ma gli israeliani non cedevano. A quel punto entrò nei negoziati Gerhard Conrad, un uomo del Bundesnachrichtendienst (Bnd), il servizio segreto tedesco. Parlava un arabo perfetto e aveva già negoziato nel 2008 uno scambio di prigionieri tra Israele e l’organizzazione paramilitare libanese Hezbollah. Fu lui che, per conto del governo di Benjamin Netanyahu, ottenne la liberazione di Shalit il 18 ottobre 2011, in cambio del rilascio di un primo gruppo di 447 palestinesi, seguito due mesi dopo da un altro di 550 persone. Dal 1985 nessun soldato vivo era stato riportato a casa. Shalit aveva 25 anni.
Da allora questa sproporzione negli scambi è stata criticata aspramente. “Chiedendo la liberazione di più di mille prigionieri in cambio di un solo soldato, Hamas ammette la cruda realtà militare di questo squilibrio: migliaia di loro che si battono con coltelli, cinture esplosive e missili artigianali valgono un solo soldato israeliano”, disse all’epoca lo scrittore Abraham B. Yehoshua. Altre voci però contestarono lo scambio. “Stiamo liberando 1.027 terroristi, bestie selvagge”, disse il leader di estrema destra Baruch Marcel. I parenti delle vittime degli attentati palestinesi presentarono quattro ricorsi alla corte suprema. Secondo loro lo scambio incoraggiava Hamas a fare altri rapimenti. I giudici rifiutarono d’intervenire: consideravano la questione di esclusiva competenza del governo.
Il 1 agosto 2014 Israele decise di bombardare il convoglio che aveva catturato il giovane soldato Hadar Goldin. Furono uccisi quattordici palestinesi. Goldin, vivo o morto, sparì. Hamas ha sempre dichiarato che il tenente Goldin e il sergente di prima classe Oron Shaul, sparito nel corso di un attacco nel 2014, erano ancora vivi. Israele giurava il contrario, giustificando così il fatto che da allora non era stato più tentato nessuno scambio di prigionieri. Questa rinnovata fermezza dello stato israeliano ha fatto vacillare il contratto morale tra l’esercito e i suoi soldati.
La polemica non si è mai spenta. Il 9 ottobre 2023, due giorni dopo gli attacchi di Hamas, il quotidiano conservatore Jerusalem Post ha pubblicato l’opinione di un israeliano padre di un ragazzo ucciso durante un’operazione militare a Nablus, nel 2002. Si scagliava contro lo scambio del 2011 per liberare Shalit: “In quel momento”, scriveva, “Hamas ha capito che prendere ostaggi ebrei era il modo più sicuro di ottenere delle concessioni da Israele e perseguire il suo cammino di morte”.
I fatti del 7 ottobre obbligano Israele a modificare la sua linea, a meno che non voglia liberare la quasi totalità dei prigionieri palestinesi. Ma cosa si può fare quando più di 220 civili sono usati come scudi umani? Questi nuovi ostaggi hanno ricordato al paese che il terrorismo è una guerra senza regole, che imprime un segno indelebile nella memoria, oltre che nella carne. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati