In uno dei capitoli finali del nuovo romanzo di Nana Kwame Adjei-Brenyah, il lettore è travolto da una scena ipnotica e grottesca di violenza autorizzata dallo stato. Il capitolo è dedicato a Hendrix Young, un detenuto coinvolto nel Cape (Criminal action penal entertainment). Questo programma, che frutta milioni di dollari all’industria carceraria privata, è incentrato sul combattimento gladiatorio: i partecipanti fanno parte di squadre di detenuti, chiamate Catene, che combattono fino alla morte.
Il capitolo si apre con Young che entra nell’arena alla ricerca del premio finale: la libertà. Siamo coinvolti nella “danza selvaggia” della difficile critica sociale che Adjei-Brenyah propone, che ha per bersaglio la spettacolarizzazione della violenza all’interno del complesso industriale-carcerario e un’industria multimilionaria che rende indifese le comunità nere e altre identità emarginate. La scrittura di Adjei-Brenyah ci trasporta in un crocevia di amore e dolore, vita e morte, oppressore e oppresso, reale e speculativo. Piuttosto che ritrarre il carcere come una forma di “giustizia” privata e a porte chiuse, Adjei-Brenyah lo inquadra come un luogo di sensazionalismo della violenza. Questo aspetto si accentua con l’entrata in scena di Simon J. Craft. Dopo la sua condanna per stupro e omicidio, assistiamo alla tortura di Craft in isolamento, con Influencer Rods, una tecnologia che isola e intensifica i recettori del dolore e la capacità del cervello di cogliere questi segnali. La sofferenza di Craft è così intensa che perde la maggior parte delle funzioni cognitive, sopravvivendo al Cape solo grazie all’istinto riprogrammato di uccidere. La potenza di queste scene ricorda al lettore il grande danno che subiscono i detenuti in isolamento. Presentando una serie di personaggi complessi e intrinsecamente imperfetti, Adjei-Brenyah rifiuta facili conclusioni su come potremmo immaginare o sperare di uscire da un mondo governato da forze oppressive. Al contrario, in Catene di gloria crea un mondo accattivante che si muove tra il possibile e l’impossibile.
Salem James Martinez,
Los Angeles Review of Books
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Questo articolo è uscito sul numero 1538 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati