Quando Malachy Tallack aveva dieci anni, i suoi genitori si sono separati e la madre ha portato lui e il fratello a vivere alle isole Shetland. Essendoci già stato in vacanza era convinto che si sarebbe adattato in fretta ma si è sentito sradicato e male accolto. A 16 anni decide di tornare a Londra dal padre per studiare musica. Ma il padre muore in un incidente privandolo di quella possibilità. Tornato nel nord si è messo a sognare un altro viaggio: un periplo del mondo lungo il sessantesimo parallelo, un viaggio circolare che lo avrebbe riportato, idealmente, a casa. Scopre una familiarità tra gente e luoghi difficili da descrivere con le parole. Conosce gli inuit che non contemplano la proprietà privata della terra e gli ultimi arrivati in Alaska che hanno lasciato una casa per costruirsene un’altra nell’“ultima frontiera”. Ovunque sente un senso di umanità che diventa una cosa sola con l’ambiente circostante. L’unico posto che non gli piace è San Pietroburgo, una città nata sfidando la natura, un luogo dove Pietro il Grande impose strade e viali sopra gli isolotti e le paludi del delta della Neva. Tallack, che non ama le folle e il rumore, si rifugia in un villaggio a trenta chilometri dalla città. Il grande nord però non è il diario di un misantropo, perché l’autore vuole sempre scoprire cosa significhi “casa” per le altre persone. È un libro che è stato doloroso da scrivere ma che è un piacere da leggere, con una prosa chiara come la luce del sole sui ghiacci della Groenlandia.
Michael Kerr, The Telegraph
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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati