L’impegno preso il 15 aprile alla conferenza internazionale di Parigi sulla situazione umanitaria in Sudan è un segnale importante: per aiutare le persone della regione del Darfur e delle altre zone del paese devastate dalla guerra dovrebbero essere investiti più di due miliardi di dollari. Nel migliore dei casi è un gesto tardivo per cercare di evitare il peggio in Sudan: una carestia che potrebbe colpire milioni di persone.
Ma il messaggio di Parigi sarà una buona notizia per le popolazioni locali solo se le organizzazioni umanitarie potranno usare questi finanziamenti per fare il loro lavoro. Può sembrare banale, ma in uno scenario di guerra come quello del Sudan non lo è. Finché continueranno gli scontri, è improbabile che le Nazioni Unite riusciranno a costruire corridoi sicuri per far arrivare viveri e medicinali ai campi profughi e provvedere alle persone intrappolate dalle violenze che ogni giorno cercano di sopravvivere.
Un’ampia coalizione deve ottenere un cessate il fuoco. Il tempo stringe: gli esperti calcolano che a giugno mezzo milione di sudanesi sarà morto di fame se la situazione non migliorerà sensibilmente. E i soccorritori possono salvare vite umane solo se non sono lasciati soli dalla diplomazia internazionale o usati per coprire la mancanza d’impegno della politica. Il punto decisivo è che i paesi occidentali e quelli arabi devono allearsi se vogliono fare un primo passo verso il cessate il fuoco.
Finché i due generali rivali, Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemetti, potranno contare sulla complicità di singoli stati per le loro imprese militari, la violenza distruggerà questo stato multietnico. E anche la prospettiva di un futuro di pace in Sudan. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati