Stranezza, mistero e fato si muovono lungo questo romanzo ecuadoriano composto da brevi frasi severe. Qui vivono preti che ululano, galline che depongono uova nere, personaggi che hanno dio in bocca, ma usano parole blasfeme. L’autrice porta il lettore nella città immaginaria di Cocúan; una città andina, condannata all’oblio, alla miseria e a una sorta di maledizione, protetta dall’ombra della morte che apocalitticamente perseguita i suoi abitanti. Curiosamente, Natalia García Freire ha affermato che il nome della città deriva da un farmaco che prende per riuscire a dormire. Nove voci raccontano vicende al limite della follia con frasi che sono come folate di vento poetico. Ce n’è una in particolare che mi è rimasta impressa: “Chi vive nella paura diventerà selvaggio”. Questa frase si può adattare all’Ecuador di oggi così soggetto alla paura e alla violenza? Leggete Natalia García Freire e lasciatevi toccare dal vento della sua letteratura.
Mishell Sánchez, El Universo

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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati