Due ore e 28 minuti di film su di giri che parla di una spogliarellista ed escort caduta per qualche giorno nel vortice della vita da miliardari tra champagne, sballi, un viaggio a Las Vegas con un viziato figlio di oligarchi russi, fino alla caduta, quando l’entourage del giovinastro riprende il controllo della situazione con una delirante scorribanda di reietti? Si diceva che non avrebbero osato, e invece sì. La Palma d’oro ad Anora di Sean Baker, che il regista ha dedicato a tutte le lavoratrici del sesso di ieri, oggi e domani, è il gesto sfacciato ed entusiasta di una giuria che si lascia travolgere dalla seduzione di sirene tutte americane invece di opporre resistenza in nome dello spirito di serietà che ha gravato su parecchi sadici palmarès. E anche se avevamo sognato la palma per Payal Kapadia e il suo sublime All we imagine as light, non biasimiamo Greta e la sua banda per non essersi sottratte al piacere.
Palme mancate
Proprio il film di Kapadia, il nostro preferito, è salito sul secondo gradino del podio vincendo il Grand prix della giuria. Il fatto che, in mezzo al caleidoscopio di impulsi stroboscopici che hanno pervaso quasi tutto il concorso, la giuria sia riuscita a vedere la luce soffusa del lungometraggio della regista indiana di 38 anni, già premiata a Cannes nel 2021 per il suo emozionante documentario A night of knowing nothing, testimonia la potenza del suo debutto nel cinema di finzione. Tratti dal brulicante ecosistema di Mumbai, i destini di tre donne condizionati da forze economiche e sociali si incarnano in immagini abbaglianti, impregnate del blu del cielo notturno della metropoli indiana e nutrite dalla prosaicità della vita quotidiana. Procedendo per aggiunta di dettagli che animano i personaggi, il film mostra un’infinita gentilezza nei loro confronti. Pieno di malinconia, riflette una tenue speranza che per loro ci sia ancora qualcosa da immaginare, qualcosa di luminoso e generoso che si intravede nelle battute finali e che suscita negli spettatori un’ondata di commossa riconoscenza.
In un’edizione in cui molti film hanno lanciato espliciti messaggi di sorellanza, la sottile espressione di empatia che scorre tra queste donne brilla con una luminosità senza pari.
L’iraniano dissidente Mohammad Rasoulof ha ricevuto un premio speciale della giuria per The seed of the sacred fig. Con questo riconoscimento la giuria gli attribuisce un posto d’onore, ma certo non quello a cui aveva puntato lui o che la stampa aveva previsto, ossia una Palma d’oro con cui si sarebbe reso omaggio non solo al film, completato in esilio, ma anche alla vicenda di un regista finito in carcere che è riuscito a evitare una nuova condanna a otto anni scappando dal luogo in cui è sempre vissuto. “Sono molto triste e rammaricato per la catastrofe che il mio popolo vive ogni giorno, in ostaggio di un regime islamico e totalitario”, ha dichiarato Rasoulof dopo essere stato accolto con una standing ovation.
Nelle sue battute iniziali il festival sembrava un ballo sui carboni ardenti, tra presunte inchieste su casi di molestie e violenze sessuali commesse da celebrità del cinema francese e le minacce di sciopero dei lavoratori precari di diversi settori. Senza dimenticare, in un mondo in guerra, la divisione globale sulla questione palestinese. La promessa del delegato generale Thierry Frémaux di un festival “senza polemiche” era sembrata a tutti una pia illusione. Ma a quanto pare quell’auspicio si è avverato: il fuoco dell’attualità ha ancora una volta lasciato spazio alla “bolla di Cannes”. All’interno della bolla, tuttavia, si è paradossalmente scatenato un inferno. Nonostante una generale mancanza di entusiasmo per una selezione considerata debole, si è discusso all’infinito dei film, come se si trattasse di una questione di vita o di morte.
È incomprensibile che l’interpretazione dell’attrice spagnola Karla Sofía Gascón in Emilia Pérez di Jacques Audiard sia stata oscurata da un premio collettivo per l’intero cast femminile del film: la stessa Gascón con Selena Gomez, Zoe Saldana e Adriana Paz. L’attrice trans è stata l’unica a rimanere a Cannes e l’unica a salire sul palco per ricevere il premio. Lo ha dedicato agli attori e alle attrici in difficoltà e a tutte le persone trans, che “soffrono e hanno sofferto tanto”. Prevedibile anche l’ondata di odio che questo premio come miglior attrice provocherà.
Il ritorno degli Stati Uniti
Doppietta vincente per Emilia Pérez, che ha ricevuto anche il premio della giuria. Nessuno si aspettava che Audiard, vincitore della Palma d’oro nel 2015 per Dheepan, si presentasse con un registro da telenovela messicana, e ancor meno con un musical da gangster, con un’orchestra mariachi che riprende Brassens e il crepitio delle mitragliatrici. Tuttavia, il barometro dell’entusiasmo è esploso di fronte a questo incredibile progetto da 25 milioni di euro, maturato per anni dall’autore del Profeta (ne ha firmato da solo la sceneggiatura), acquistato a caro prezzo da Netflix per la distribuzione negli Stati Uniti e a quanto pare in odore di adattamento a Broadway.
Il premio per la miglior regia è andato al portoghese Miguel Gomes, che abbiamo sempre adorato, anche se il suo Grand tour nel continente asiatico tra il 1918 e i giorni nostri è stato meno inebriante di quello che potevamo aspettarci, nonostante l’indubbio gusto del regista per l’avventura e la sperimentazione.
Lo statunitense Jesse Plemons, che già era stato eccellente l’anno scorso in Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese e in quasi tutti i film in cui ha mostrato la sua sconcertante e fragile umanità, ha vinto senza grande concorrenza il premio come miglior attore per i suoi ruoli nei tre episodi dell’estroso Kinds of kindness di Yórgos Lánthimos. È forse l’elemento più simpatico di un film che non lo è affatto.
E quindi? Complimenti agli Stati Uniti? La nuova presidente del gruppo WarnerMedia in Francia, Iris Knobloch, si era data l’obiettivo di riportare in grande stile l’America a Cannes. E così è stato, con la presenza di Francis Ford Coppola, Paul Schrader e, soprattutto, di una delegazione statunitense che si è espansa in lungo e in largo, visto che anche i film francesi (The substance), iraniani (The apprentice) e greci (Kinds of kindness) parlavano la lingua di Hollywood.
Dopo The tree of life di Terrence Malick nel 2011, nessun film statunitense aveva più vinto la Palma d’oro. Una traversata del deserto di tredici anni appena interrotta dalla bellezza di Anora, che offre al distributore statunitense Neon la sua quinta Palma consecutiva. ◆ as
Questo articolo è firmato da Sandra Onana, Olivier Lamm, Didier Péron, Luc Chessel, Elisabeth Franck-Dumas ed Ève Beauvallet.
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Questo articolo è uscito sul numero 1565 di Internazionale, a pagina 81. Compra questo numero | Abbonati