Il fondatore di Wikileaks Julian Assange è libero. Da un punto di vista umanitario, è un’ottima notizia. Ma la soluzione trovata per rimetterlo in libertà ha un retrogusto amaro, poiché ha dovuto dichiararsi colpevole proprio dell’accusa che colpisce il lavoro dei giornalisti alle prese con i documenti arrivati dalle loro fonti: cospirazione per ottenere e divulgare informazioni sulla difesa degli Stati Uniti. I pubblici ministeri statunitensi non sono riusciti a dimostrare che Assange abbia aiutato la soldata statunitense Chelsea Manning a ottenere migliaia d’informazioni segrete che documentavano crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. Sicuramente Wikileaks ha pubblicato i documenti, ed è quello che dovrebbe fare un giornalista se entra in possesso di materiale del genere. Si è discusso se sarebbe stato meglio oscurare alcuni nomi e dettagli per non mettere in pericolo le persone coinvolte. Ma nessuno crede davvero che in quel caso la rabbia di Washington per le imbarazzanti rivelazioni di Wikileaks sarebbe stata minore.
Dopo quasi quattordici anni di persecuzione, inclusi sessantadue mesi in un carcere di massima sicurezza britannico, il patteggiamento ha consentito ad Assange, che soffre di gravi problemi di salute, di tornare libero in Australia. Resta però la minaccia alla libertà di stampa e un enorme problema di credibilità per il governo degli Stati Uniti e per l’occidente nella loro difesa di un “ordine mondiale basato sulle regole”. Assange e Manning sono stati perseguitati, ma gli autori dei crimini di guerra no. Un buon motivo perché le organizzazioni per i diritti umani e i mezzi d’informazione continuino a esercitare la loro critica, anche ora che Assange può tirare un sospiro di sollievo. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1569 di Internazionale, a pagina 19. Compra questo numero | Abbonati