Le colline di Yeka, un tempo una tranquilla area di montagna affacciata su Addis Abeba, sono diventate un enorme cantiere. Scavatrici e bulldozer lavorano giorno e notte, spianando foreste e terreni agricoli per uno dei progetti infrastrutturali più costosi della storia dell’Etiopia: un vasto complesso di palazzi che ospiterà anche la residenza ufficiale del primo ministro Abiy Ahmed.

Entusiasta sostenitore del progetto, chiamato Chaka, Abiy va regolarmente a fare sopralluoghi di persona per monitorare l’andamento dei lavori. “Fanno rumore a tutte le ore”, dice un ambasciatore che vive vicino al cantiere. “Sta diventando un problema. E nessuno ascolta le nostre lamentele”.

Gli edifici, che si estenderanno su un’area di 503 ettari, comprenderanno un albergo di lusso, foresterie dove ospitare i capi di stato in visita, residenze ministeriali, abitazioni esclusive e tre laghi artificiali circondati da palme finte. Saranno costruiti 29 chilometri di nuove strade e un tunnel sotterraneo per consentire una facile fuga in caso di emergenza. O di un colpo di stato.

I funzionari governativi sottolineano che non si tratta di un progetto velleitario, ma di un’impresa funzionale alle esigenze di sviluppo dell’Etiopia.

“Parlare di un ‘palazzo per il primo ministro’ è un modo semplicistico di definire le cose”, afferma Billene Seyoum, la portavoce di Abiy. “Descriverlo in questi termini sottintende una volontà di alimentare le polemiche. Invece, il progetto Chaka riguarda la creazione di una grandiosa città satellite, con l’obiettivo di trasformare il volto di Addis Abeba e dei suoi dintorni”.

Non sono, però, solo gli ambasciatori che abitano lì vicino a essere disturbati dai lavori. Chi critica il progetto sottolinea i costi molto alti, soprattutto se si considera che al momento venti milioni di etiopi rischiano la fame e che alcune regioni del paese, come il Tigrai, avrebbero un disperato bisogno di fondi per la ricostruzione dopo il conflitto. Seyoum respinge le critiche, e ribatte che il cantiere ha creato migliaia di posti di lavoro: “Queste contestazioni di solito arrivano da chi pensa che lo sviluppo sia sinonimo di ‘carità’”.

Trasferimenti in massa

Secondo quanto riferito da Abiy ad alcuni parlamentari, il progetto Chaka potrebbe costare circa dieci miliardi di dollari, più della metà del bilancio annuale dell’Etiopia per il 2024-2025. Abiy ha affermato che i finanziamenti per il progetto Chaka non arrivano dalle casse dello stato, ma sono raccolti tra i privati. Vari mezzi d’informazione hanno dato la notizia che gli Emirati Arabi Uniti sono un investitore importante, mentre alcuni imprenditori etiopi affermano di essere stati costretti a contribuire. Uno di loro ha dichiarato al quotidiano canadese Globe & Mail di aver “ricevuto infinite telefonate, minacce e avvertimenti che sarebbe stato escluso dagli appalti pubblici se non avesse donato del denaro”.

Per fare spazio ai nuovi edifici, agricoltori e residenti dell’area hanno dovuto trasferirsi in massa. Abbiamo visto degli avvisi di sfratto affissi alle pareti di una chiesa: le persone nominate in questo elenco devono lasciare la propria abitazione nel giro di pochi giorni, con tutti gli averi. Chi non obbedisce è sfrattato con la forza, rinchiuso in carceri improvvisate o aggredito dalle forze di sicurezza. Alle persone sfrattate è stato detto di cercarsi una nuova casa a Debre Berhan, nell’Amhara, o a Welega, nell’Oromia, a seconda dell’appartenenza etnica.

Billene Seyoum dichiara che tutti gli sfratti sono pienamente legali. “In Etiopia la terra è di proprietà dello stato e la costituzione consente al governo di costruire secondo quanto stabilito dalla legge”, osserva. “Cosa ancora più importante, la maggior parte dei terreni su cui si svilupperà il progetto Chaka è disabitata. Gli attuali residenti sanno cosa implica l’espansione dell’infrastruttura pub­blica”.

L’accesso all’area è rigidamente sorvegliato, con posti di controllo sulle strade in entrata e in uscita. Le persone che frequentavano la zona – per esempio, i fedeli della chiesa rupestre Washa Mikael e gli aspiranti atleti che si allenano sulle colline – non possono più farlo. Alcuni poliziotti in borghese sono di pattuglia per impedire a chiunque di scattare foto al cantiere.

Il progetto Chaka è l’ultimo e più costoso di una serie di iniziative molto discusse lanciate da Abiy per modernizzare e rendere più bella la capitale etiope. Tra queste c’è stato il restauro del palazzo dell’imperatore Menelik II nell’ambito del nuovo complesso del Parco dell’unità, che comprende un museo e uno zoo; e la demolizione di gran parte dello storico quartiere di Piassa per fare spazio a strade più ampie e palazzi di appartamenti moderni.

L’esempio di Abiy ha ispirato altri funzionari etiopi a investire in progetti altrettanto dispendiosi. Shimales Abdisa, presidente dell’Oromia, la regione che circonda Addis Abeba, ha lanciato a sua volta il piano per la costruzione del suo palazzo, che dovrebbe terminare entro il 2025. Si estenderà su più di sei ettari in una delle aree più ricche della capitale e si stima che costerà più di un miliardo di dollari. Ospiterà gli uffici e le residenze dei leader dell’Oromia. Le case esistenti sono state demolite e gli abitanti tra­sferiti.

Di certo Abiy non è l’unico leader nel mondo a essersi costruito una nuova grandiosa residenza. In Egitto il dittatore militare Abdel Fattah al Sisi sta investendo 59 miliardi di dollari nella costruzione di una nuova capitale – che porta il fantasioso nome di Nuova capitale amministrativa – con al centro un palazzo presidenziale. Nella Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan è stato completato nel 2014 il Palazzo bianco, una struttura da più di 1.100 stanze, costata 615 milioni di dollari, fuori della capitale Ankara. Per Erdoğan è il simbolo della sua potente e ricca “nuova Turchia”.

Erdoğan ci vive, ma non tutti sono stati altrettanto fortunati. Il presidente sudanese Omar al Bashir si era trasferito nel nuovo palazzo della repubblica costruito a Khartoum nel 2015 per poi essere cacciato da una rivoluzione nel 2019. Proprio intorno a quel palazzo si erano concentrate le manifestazioni contro il suo governo autoritario.

E forse il palazzo presidenziale più famigerato di tutti è quello appartenuto al dittatore congolese Mobutu Sese Seko, che costruì la sua “Versailles nella giungla” a Gbadolite, la città dei suoi antenati, con tanto di bunker nucleare e un aeroporto in grado di accogliere un Concorde. Oggi è completamente in rovina, come il suo autoproclamato impero. Una storia che dovrebbe servire da monito ad Abiy e alle sue ambizioni. ◆ gim

Da sapere
Demolizioni nella capitale

◆ Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia, sta subendo gli interventi urbanistici più rapidi e invasivi degli ultimi vent’anni. Uno dei più contestati ha riguardato Piassa, uno storico quartiere centrale di caffè e attività commerciali, la cui demolizione è cominciata nell’aprile del 2024 per costruire nuovi edifici e strade più ampie. “Le autorità cittadine sostengono che l’intervento era necessario per affrontare il problema degli insediamenti informali, della carenza di alloggi e dei rischi ambientali della capitale”, scrive il sito Addis Fortune. “Questa spinta modernizzatrice, però, solleva interrogativi sull’equilibrio tra le esigenze di sviluppo e i diritti dei cittadini”.
L’Economist parla di undicimila persone sfrattate, senza la possibilità di contestare la decisione e spesso costrette a farlo nel giro di pochi giorni.
“Con il sostegno delle Nazioni Unite, l’amministrazione cittadina ha approvato un piano quinquennale per rendere le strade più sicure per pedoni e ciclisti, compresi i gruppi più vulnerabili come bambini e disabili. Il rovescio della medaglia è la crescita costante delle disuguaglianze socioeconomiche. Il rapido sviluppo di Addis Abeba non si è tradotto in un benessere diffuso. Il territorio urbano è caratterizzato da un alto tasso di disoccupazione, insediamenti informali e servizi pubblici inadeguati”, continua Addis Fortune. Il sito etiope The Reporter intervista il gallerista e storico Wondewosen Bekele che critica le demolizioni, viste come un tentativo di cancellare la storia della città, i simboli dell’indipendenza etiope e della coesione sociale.


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Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati