La “vita online” delle persone genera una quantità crescente di dati. E quando qualcuno muore lascia dietro di sé un’enorme quantità di tracce, alcune deliberate (profili, post sui social), altre incidentali (ricerche, localizzazione eccetera). Poiché i dati non muoiono con la persona che li ha lasciati, il politologo svedese Carl Öhman, nel saggio The afterlife of data, ha definito il mondo di oggi “post-mortale”. L’epoca digitale ha già cominciato a rimodellare il nostro rapporto con i defunti e le tecnologie sempre più sofisticate potrebbero consentirci di chattare con qualche parente o amico morto. Öhman ha cominciato così a interrogarsi su alcune questioni filosofiche. A chi appartengono i dati dei morti? I dati sono “creati” o sono una sorta di replica digitale di una persona? Quali obblighi impongono ai vivi? Gli storici compiono da sempre ricerche biografiche tra documenti che si dovrebbero considerare privati. Come regolarsi con i dati, “il più grande archivio del comportamento umano nella storia della nostra specie”? The Economist

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Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 83. Compra questo numero | Abbonati