La scrittrice bulgara Kapka Kassabova, che oggi vive in Scozia, è amata per i racconti poetici di comunità rurali del suo paese sopravvissute ai margini della modernità. In questo libro, che conclude la sua tetralogia balcanica, descrive il mondo dei pastori nomadi, noti in Bulgaria come karakachan e in greco come sarakatsani. Da tempo la loro componente greca desta un certo interesse culturale nel mondo anglofono. Antropologi britannici e statunitensi hanno cominciato a studiarli a fondo e a scrivere su di loro. In un passo del suo libro Rumelia, Patrick Leigh Fermor descriveva un matrimonio sarakatsani riflettendo malinconicamente sulla lenta scomparsa del nomadismo in Europa. In Anima Kassabova si mette in ascolto di quell’eco lontana. L’Unesco può anche riconoscere la transumanza come patrimonio intangibile dell’umanità, ma come stile di vita è ormai praticamente estinta. Perfino la gente che l’autrice descrive con enorme partecipazione non è più propriamente nomade. Sono per lo più ecologisti bulgari bene istruiti che vogliono salvare tre specie di animali domestici che sono alla base della vita karakachan: una razza di cavalli in via d’estinzione, la pecora karakachan (secondo l’autrice uno dei più antichi patrimoni genetici del mondo) e i loro cani da pastore. Alcuni di questi cani, detti anche loro karakachan, compaiono ovunque tra le pagine di Anima e affrontano lupi e orsi per difendere i greggi. Kassabova è certa che il vero lupo che sta divorando l’antica pastorizia sia la società moderna. I nazionalisti greci e bulgari hanno imposto confini fisici assolutamente arbitrari e il comunismo ha ridotto i karakachan in povertà confiscando i loro animali mentre gli allevamenti intensivi hanno popolato la zona di nuove razze estranee a questi luoghi o vulnerabili alle malattie. Secondo Kassabova l’antica pastorizia sta scomparendo “geneticamente, ecologicamente, economicamente ed eticamente”. Nel libro non manca un notevole elemento romanzesco ma l’autrice riesce a rimanere sempre lucida e coraggiosa, sia sulla pagina sia nella vita. “Siamo una monocultura”, conclude, “e abbiamo piazzato un mondo piatto e noioso sopra quello originale”. Mark Cocker, The Spectator
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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati