Alan Moore (Kevin Nixon, SFX Magazine/Future/Getty)

Un famoso fumettista una volta mi ha detto che un errore molto comune tra gli scrittori che provano a fare fumetti è quello di infilare troppe parole in una vignetta. Mi chiedo se sia vero l’inverso per chi fa il salto nel senso opposto: se il fumettista, finalmente libero dalle costrizioni del suo mezzo, non si prenda troppe libertà. Quando Alan Moore, il creatore della graphic novel Watchmen, nel 2016 ha scritto il suo romanzo Jerusalem ha riempito più di mille pagine. Sebbene The great when - Il grande quando, il suo ultimo romanzo, il primo di una serie annunciata su Londra, sia di sole trecento pagine, il suo stile ci parla di un uomo che finalmente può sbizzarrirsi con similitudini e aggettivi. I personaggi non sono mai descritti nello stesso modo per due volte: abbiamo sempre delle variazioni sul tema o delle perifrasi quando si ripresentano. Il grande quando è un romanzo gotico ma anche barocco. È proprio come Londra, la brulicante e caotica metropoli in cui si svolge. Siamo nel 1949 e la metropoli di Moore è un paesaggio bombardato punteggiato di fiori selvatici, pub fumosi e rissosi venditori ambulanti di molluschi. Il protagonista è Dennis Knuckleyard, un diciottenne goffo e ipertiroideo senza alcuna qualità particolare. La storia parte quando Dennis scopre una copia di A London walk del reverendo Thomas Hampole, un libro che non dovrebbe esistere nel mondo reale e che evidentemente proviene da qualche mondo alieno. La premessa del Grande quando è che la Londra che conosciamo è l’ombra di una sua controparte parallela, sinistra e molto pericolosa, popolata di semidei allucinanti. Le persone più marginali o sfortunate, se non fanno attenzione, rischiano di ritrovarsi in questo terribile doppio attraversando dei portali. Ma peggio ancora, alcune volte, qualcosa sfugge da lì e arriva dalle nostre parti: i delitti di Jack lo squartatore altro non erano che il risultato della fuga nella nostra dimensione di un disgustoso insettoide. Proprio come nei romanzi pulp così amati dal suo autore in questo romanzo ci sono dosi generose di consapevole cattivo gusto ma soprattutto ci accorgiamo che Moore, finalmente liberato dalla schiavitù della vignetta, ha imparato a divertirsi davvero. Sam Leith, The Sunday Times

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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati