Lorrie Moore si è fatta conoscere con i racconti accattivanti e carismatici che ha cominciato a pubblicare intorno ai vent’anni. Il suo lavoro veniva apprezzato, ma sempre con scetticismo: il suo tono così divertente e arguto potrà mai evolversi in qualcosa di più sostanziale? In Sono senza casa, se questa non è nella mia siamo nel Bronx, anno 2016. Finn, un insegnante, siede in un hospice accanto al fratello che sta per morire, ma è distratto: pensa agli intenti suicidi della sua ex ragazza, Lily, una donna che lo lasciò tanto tempo prima per un altro. Lily per lavoro fa il clown – questa è una tipica zampata di Lorrie Moore – e una volta ha tentato di impiccarsi con le stringhe delle sue scarpe da pagliaccio. Mentre siede accanto al fratello, Finn viene a sapere che alla fine si è uccisa davvero. O almeno così sembra, visto che vediamo Lily aggirarsi per il cimitero con la bocca sporca di terra in uno stato che lei stessa descrive come “adiacente alla morte”. Finn decide di aiutarla e parte con lei per un assurdo viaggio in macchina fino al Tennessee. E poi, a un certo punto, proprio come succede a Lily, il romanzo comincia ad andare in pezzi e la storia fatica a stare in piedi, va via via degradandosi. Alla fine Lorrie Moore, con questo libro che vuole sconfiggere la morte, si prende la libertà di sfuggire a qualunque interpretazione critica sul suo lavoro.
Parul Sehgal, The New Yorker
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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati