Se c’è mai stato un momento in cui il Regno Unito ha stretto a sé Michael Kiwanuka, un londinese con una voce come quella di Bill Withers, è stato a Glastonbury nel 2024. “Questo è il mio incubo peggiore”, diceva irritato mentre i problemi tecnici condizionavano il suo concerto. Altri avrebbero fatto finta di niente. Kiwanuka, invece, si è dimostrato un uomo normale con un talento insolito che vedeva il suo grande momento andare in pezzi. Ora arriva il suo quarto album, che sposa il calore e la raffinatezza del soul degli anni settanta con lo spirito modesto dell’indie rock anni novanta. Nei nuovi brani il cantautore ricorda quel tizio normale sul palco di Glastonbury. Questo disco è ben definito: i produttori abituali di Kiwanuka, Danger Mouse e Inflo, catturano un suono organico in cui ogni stacco di batteria e ogni riff di chitarra e archi sprizzano vitalità. Ma l’umiltà che contiene, l’idea che Kiwanuka stia ancora cercando di risolvere i suoi problemi, conferisce una profondità maggiore. Lowdown (part 1) è uno dei momenti chiave, un brano acustico sostenuto da un basso fluido e da un organo che ha un tocco folk-rock di fine anni sessanta. Ricorda i trovatori solitari come Gene Clark e Tim Buckley. One and only, invece, è qualcosa che i Led Zeppelin avrebbero potuto inventare in uno dei loro momenti più tranquilli. Small changes è accattivante e pieno di cuore. Four long years mi fa venire in mente The dark end of the street di James Carr, il tipo di ballata tormentata di cui era piena l’America degli anni sessanta.
Will Hodgkinson , The Times

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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati