Quattro decenni dopo il disastro di Bhopal, centinaia di tonnellate di rifiuti tossici rimangono negli impianti dismessi della Union carbide India (Ucil). Nonostante le numerose sentenze del tribunale, le autorità non hanno smaltito i rifiuti in modo sicuro, scrive The Hindu. Negli anni, vari studi governativi e non governativi hanno rilevato che le acque sotterranee di diverse aree residenziali fuori della fabbrica sono contaminate da metalli pesanti e altre sostanze tossiche, che potrebbero causare cancro e altre malattie. Ora, secondo gli esperti, c’è la possibilità che la contaminazione si diffonda ulteriormente. La causa principale del problema sono i rifiuti solidi, semisolidi, liquidi e catramosi generati durante la produzione di pesticidi e prodotti chimici, che sono stati sversati dalla Ucil tra il 1969 e il 1984 all’interno dei suoi stabilimenti, chiusi dopo la fuga di gas del dicembre 1984. Il disastro di Bhopal, scrive Frontline, è un esempio di quella che Rob Nixon, docente di ambiente e scienze umane all’università di Princeton, chiama “violenza lenta”: un danno che si manifesta in modo graduale e invisibile, ma con effetti devastanti e duraturi. Allo stesso tempo, è diventato un potente simbolo del movimento pacifico delle donne per la giustizia sociale e ambientale, determinate a chiedere conto delle loro azioni sia alle aziende sia ai governi. Nel 1989 Rashida Bee e Champa Devi Shukla, due sopravvissute al disastro, guidarono una marcia verso New Delhi per incontrare il primo ministro Rajiv Ghandhi. “Quella marcia segnò un punto di svolta per le donne povere, emarginate e spesso senza voce che scoprirono così il potere della loro forza collettiva”, spiegano Bee e Shukla al settimanale indiano. “Dimostrammo che le donne sono forti e capaci quanto gli uomini. Insieme, siamo diventate una forza formidabile, non abbiamo avuto paura di sfidare la Union carbide e di confrontarci con governi poco reattivi, insensibili e spesso ostili. Ancora oggi, chi partecipò alla marcia continua a lottare per i diritti dei sopravvissuti”. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati