Quando sta davanti a un dipinto di Johannes Vermeer, per Frederik Vanmeert la tentazione di avvicinarsi è irresistibile. Al Rijksmuseum di Amsterdam, dove lavora, è facile soddisfare questo desiderio d’intimità: gli spettatori sono liberi di avvicinarsi all’arte. Chi ammira La ronda di notte di Rembrandt può avvicinarsi a un metro dalla tela, mentre i quattro Vermeer del museo, appesi poco distante, offrono un’esperienza ancora più intima. Se lo desiderano, i visitatori possono arrivare a pochi centimetri di distanza, anche se l’addetto alla sicurezza appostato nelle vicinanze potrebbe fare un cenno di disapprovazione con il dito.
Per Vanmeert, però, perfino i millimetri sono un abisso sconfinato. Ha osservato le opere di Johannes Vermeer più in dettaglio della maggior parte delle persone: a livello microscopico, fino al reticolo cristallino dei pigmenti che strutturano l’espressione artistica del pittore olandese del seicento oggi famoso soprattutto per l’opera Ragazza col turbante, anche conosciuta come Ragazza con l’orecchino di perla. “Ora, a causa del mio lavoro, quando guardo un Vermeer non posso fare a meno di chiedermi: ‘Stiamo capendo davvero le sue intenzioni?’”, mi dice Vanmeert, avvicinandosi alla Stradina di Delft, uno dei due unici paesaggi dipinti dall’artista. “Prendiamo per esempio quest’area qui, la zona scura del vestito della signora. È difficile decifrare quale tipo di tessuto Vermeer intendesse raffigurare, e mi chiedo se questo sia il colore originale”.
La fedeltà del colore è l’ossessione professionale di Vanmeert. Da chimico prestato al mondo dell’arte, ha dedicato quasi tutta la sua carriera al tentativo di capire il colore: come si produce, quali modifiche subisce nel tempo, in che modo gli artisti preparano le polveri e i substrati che diventano il mezzo attraverso cui ci parlano e, infine, perché fanno le loro scelte. Se il colore è il linguaggio dell’arte, Vanmeert è un linguista.
Da scienziato, però, evita di essere così pretenzioso. Negli ultimi vent’anni si è assistito a un’esplosione di ricerche scientifiche sull’arte, dalle analisi chimiche per l’autenticazione e l’identificazione dei falsi alle tecniche di restauro e conservazione. In questo contesto gli scienziati sono rimasti coinvolti in alcuni dei dibattiti più spinosi del mondo dell’arte. Determinare le “intenzioni” di un artista, per esempio, può mandare in fibrillazione gli esperti e gli appassionati di arte. Secondo i puristi, l’intento dell’artista è irrilevante. Conta solo l’opera e ciò che trasmette.
Giallo burro
A Vanmeert, però, questi dibattiti non interessano. Per lui “intenzione” significa solo colore: il colore come lo vediamo oggi è lo stesso che l’artista vedeva mentre lo applicava alla tela? E se si è degradato, com’era l’originale? La camera di Vincent ad Arles di Vincent van Gogh, per esempio, usava molti pigmenti instabili che si sono degradati nel tempo. Per fortuna in una lettera al fratello Van Gogh descrisse nel dettaglio i colori usati: “Le pareti sono di un viola pallido. Il pavimento è di piastrelle rosse. Il letto e le sedie sono di un fresco giallo burro”.
Oggi molte di queste tinte sono sbiadite o, nel caso delle pareti, hanno assunto una tonalità diversa. I colori che corrispondevano alle “intenzioni” di Van Gogh sono andati perduti e, con essi, anche qualcosa della sensazione che il pittore cercava di trasmettere.
Vermeer, soprannominato “la sfinge di Delft” dal critico francese dell’ottocento Théophile Thoré-Bürger, non ha lasciato alcuna ricetta cromatica. In effetti non si sa quasi nulla della sua vita o del suo metodo di lavoro: non sembra che abbia avuto degli assistenti o che prendesse appunti. Ancora oggi gli storici si chiedono dove abbia imparato a dipingere. Quello che si può capire, o sottintendere, della sua vita e del suo lavoro deriva soprattutto dai pochi dipinti che ha lasciato – in tutto gliene sono stati attribuiti 37 – e dagli studi di scienziati come Vanmeert, che approfondiscono i suoi metodi in modi che non sono alla portata di intenditori e storici dell’arte.
Lo studio di Vermeer solleva alcuni interrogativi affascinanti. Come ha fatto a ottenere la sensazione satinata dell’abito nel dipinto Due gentiluomini e una fanciulla con bicchiere di vino? Perché ha scelto di usare il blu oltremare, un pigmento costosissimo ricavato dal lapislazzuli, per la corona d’alloro di Clio nel dipinto Allegoria della pittura, quando probabilmente sarebbero bastati altri materiali più economici, per esempio un minerale come l’azzurrite o un semplice smalto? Le risposte a queste domande possono migliorare la nostra comprensione di Vermeer e della sua arte.
Alcune spiegazioni sembrano di facile deduzione. L’uso generoso del blu oltremare forse rifletteva un desiderio di fedeltà cromatica: al di là del prezzo, questo pigmento è famoso per la sua stabilità. Altri tipi di blu, usati spesso dai contemporanei di Vermeer, compreso Rembrandt, si deteriorano con il tempo. Questo poteva andar bene per Rembrandt, che oltre a essere un artista era anche un imprenditore, ma per Vermeer era un sacrilegio.
Da quel poco che sappiamo del suo rapporto con il mondo dell’arte del tempo, si mostrava poco interessato al mercato dei quadri. Sembrava invece voler creare arte per un bisogno interiore o un desiderio di esprimere qualcosa di eterno. I materiali, perciò, erano molto importanti.
Sezioni minuscole
In passato la sfida per i chimici era riuscire a ottenere una quantità sufficiente di dati. Con i metodi tradizionali per determinare la composizione dei pigmenti si estraeva un frammento di un dipinto, di solito non più di qualche centinaio di micrometri, e di solito si prelevava una sezione già danneggiata.
I dati ottenuti offrivano importanti spunti di riflessione, ma erano limitati a minuscole sezioni di un’opera.
Vanmeert apprezza l’ossessività: anche lui nuota in un mare di dettagli e accetta la quantità di tempo che serve a trovare la combinazione giusta
Il metodo di Vanmeert si basa sulla scansione macroscopica a raggi X della polvere (ma-xrpd), una tecnica che sfrutta un dispositivo sviluppato durante il suo dottorato all’università di Anversa. È uno strumento non invasivo per analizzare le opere d’arte a livello molecolare. “Il processo ma-xrpd ci permette di scansionare una vasta sezione del dipinto, fino a trenta centimetri per trenta, senza causare alcun danno”, spiega Vanmeert. “Possiamo così vedere più chiaramente in che modo un artista usa i pigmenti in intere sezioni dell’opera”.
Grazie al fatto che questo metodo è poco invasivo, i ricercatori hanno il permesso di esaminare un numero maggiore di dipinti. Per Vanmeert questo ha significato l’opportunità di analizzare più lavori, cioè quasi la metà dell’intera opera di Vermeer, conservati in diversi musei del mondo, a caccia di schemi nel suo uso dei pigmenti e di altre tecniche e del modo in cui si sono evoluti nel tempo.
Vanmeert non dice una parola sulle sue scoperte, ma ammette di aver trovato qualcosa. “Devo ancora analizzare molti dati per confermare la mia ipotesi”, dice con un grande sorriso che tradisce il suo entusiasmo. I risultati già pubblicati suggeriscono che le nuove scoperte potrebbero cambiare profondamente il modo in cui pensiamo all’opera di Vermeer. Nel 2019 Vanmeert e un gruppo di scienziati di due università olandesi, in collaborazione con il museo Mauritshuis dell’Aja e la National gallery of art dei Paesi Bassi, hanno avviato un progetto di ricerca usando il metodo ma-xrpd per comprendere meglio i pigmenti chiamati bianchi di piombo usati da Vermeer nella Ragazza con l’orecchino di perla.
Gli esperti sapevano da tempo che Vermeer usava il bianco di piombo nei suoi dipinti, come la maggior parte degli artisti del suo tempo, ma fino a quel momento gli studi erano riusciti ad analizzare solo sezioni piccole del dipinto. “Con il metodo ma-xrpd siamo riusciti a fare un’analisi comparativa di diverse parti dell’opera”, spiega il chimico. “Abbiamo visto le differenze tra i tipi di bianco di piombo usati e capito che queste differenze avevano un significato profondo per Vermeer”.
Bianco intenso
Il saggio nato da questo studio è un’indagine affascinante sul processo artistico di Johannes Vermeer. Il chimico Vanmeert e la sua squadra hanno trovato due tipi di pigmento bianco di piombo nel dipinto Ragazza con l’orecchino di perla. Il tipo dominante è costituito da un carbonato di piombo cristallino chiamato idrocerussite. È stato trovato in alcune parti del viso, del copricapo e del colletto della ragazza raffigurata, oltre che negli strati di base del dipinto, dov’è stato mescolato con il gesso.
L’idrocerussite, il pigmento bianco di piombo che era più comune trovare in commercio nella Delft del diciassettesimo secolo, ha cristalli esagonali relativamente grandi che, mi spiega Vanmeert, si allineano bene quando sono applicati sulla tela. “È questa la chiave della tecnica di Vermeer”, dice. “A seconda di quanto sono grandi i cristalli e di quanto si allineano bene sulla superficie del dipinto, possono riflettere più luce e fornire un bianco più intenso”.
Secondo Jason Logan, designer e produttore d’inchiostri di Toronto e protagonista del pluripremiato documentario The color of ink, è stata probabilmente la capacità di creare questi effetti piuttosto che la longevità di uno specifico pigmento a motivare Vermeer. “Ho conosciuto molte persone ossessionate dai pigmenti”, dice. Qualcuno magari desidera che il loro lavoro duri mille anni, ma molti “si appassionano al processo”.
L’ossessione di Vermeer si estende anche ai soggetti. La sua opera consiste quasi esclusivamente di dipinti della città dov’era nato, Delft, e per lo più di scene di vita quotidiana in spazi al chiuso. È quindi possibile che, al di là della loro resistenza chimica, l’attenzione di Vermeer per la preparazione dei pigmenti avesse l’obiettivo di rendere questo mondo personale con un alto grado di accuratezza. Da pittore del prosaico, Vermeer sembrava interessato agli effetti profondi del mondo materiale che lo circondava e a come trasferire queste qualità sulla tela. In questo senso anche i materiali erano fondamentali.
Vanmeert sa apprezzare l’ossessività: anche lui nuota in un mare di dettagli e accetta di buon grado la quantità di tempo che serve a trovare la combinazione giusta per produrre un certo significato. L’arte di Vermeer, che mischia abilità tecnica e pazienza, è perfetta per sollecitare il suo interesse. Il tempo che Vermeer impiegava per completare i suoi dipinti – spesso ci metteva anni per finire tele più piccole di un metro quadrato – è solo una parte del processo. Lo faceva anche con una tavolozza limitata, composta da appena una ventina di colori.
È un altro elemento affascinante. La capacità di Vermeer di produrre opere così belle con così pochi colori è straordinaria. Se ci si avvicina come fa Vanmeert, però, si nota anche qualcos’altro: il colore è preparato meticolosamente, le tinte sono stratificate con cura, una sull’altra. A livello microscopico si vede che il pittore olandese non si limitava a trasferire il suo sguardo sulla tela, ma lo faceva con una tale minuzia e, a volte, con un’attenzione così ossessiva al materiale da sembrare quasi pazzo.
Per Logan questa lenta e ossessiva etica del lavoro si avvicina alla poesia. “Queste cose richiedono tempo”, mi dice. “Alcuni potrebbero metterne in discussione il senso . Potrebbero dire: ‘Non vedo alcuna differenza’. Ma per l’artista la differenza c’è eccome. C’è qualcosa di molto bello nel lavoro quasi invisibile. La magia vive a un livello al di sotto di quello che è riconoscibile”.
Il messaggio
Vanmeert sta dunque svelando la magia di Vermeer? Secondo lui no. Se il colore aveva un significato per Vermeer, il compito del chimico è chiarire il suo messaggio. Cosa cercava di esprimere quando nei suoi ultimi dipinti ha cominciato a usare il pigmento verde terra in modo preponderante nelle tonalità della pelle in ombra? “Non sembra molto naturale”, dice Vanmeert, indicando le tonalità verdastre della Lettera d’amore, uno degli ultimi dipinti di Vermeer prima della sua morte prematura, nel 1675, “e quindi perché lo ha usato in quel caso? È il colore originale o una parte si è degradata e ora vediamo solo i residui verdi? Stiamo vedendo solo una traccia di quello che intendeva trasmettere o era proprio questo il significato?”.
Se dobbiamo credere al chimico e divulgatore Philip Ball, autore di Colore. Una biografia (Rizzoli 2004), rispondere a queste domande è fondamentale per comprendere Vermeer e altri artisti del suo periodo. I pittori del rinascimento “avevano un coinvolgimento profondo con i loro materiali”, ha detto Ball durante una conferenza del 2014 all’università di Bristol. “Pochi artisti contemporanei hanno un simile rapporto con l’aspetto materiale e con le caratteristiche del mezzo che usano”.
Oggi la maggior parte degli artisti per le proprie opere usa tinte prodotte in serie, ha aggiunto Ball. Per Vermeer, però, i pigmenti erano la grammatica del linguaggio artistico. La stabilità di questi materiali ci permette di continuare la conversazione con lui ancora oggi. Il linguaggio dei suoi colori è lo stesso di più di 350 anni fa, il tempo non l’ha cambiato.
Non sapremo mai se era proprio questa l’intenzione di Vermeer, ma penso che ci stia ancora parlando, invitandoci a rallentare, ad avvicinarci e a guardare la realtà in tutta la sua minuscola gloria. “Il mondo è prezioso, ed è fragile”, sembra dire Vermeer. “Conservatelo” . ◆ gim
◆ 1987 Nasce nei Paesi Bassi.
◆ 2005 Comincia a frequentare l’università di Anversa, in Belgio, dove studia chimica e si specializza nelle analisi a raggi X e in elettrochimica.
◆ 2019 Insieme ad altri ricercatori studia la composizione dei colori del dipinto Ragazza con l’orecchino di perla di Johannes Vermeer.
◆ 2023 Viene assunto al Rijksmuseum di Amsterdam per analizzare, oltre ai dipinti di Vermeer, quelli di artisti come Rembrandt e Van Gogh.
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Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati