Al civico 2 di via Constantin Daicoviciu, una stradina della città universitaria di Cluj, in Romania, c’è un palazzo fatiscente che dal 1937 ospita la collezione del museo nazionale di storia della Transilvania. Bisogna varcare un pesante portone, attraversare un cortile interno, salire la scala che porta al primo piano dell’edificio posteriore e percorrere un atrio pieno di felci, per raggiungere finalmente l’ufficio dove, sotto a una finestra con le sbarre, si trova una cassaforte. Custodisce un contenitore grande abbastanza per due panini. Ma dentro c’è qualcosa di molto più interessante: tre tavolette d’argilla avvolte in fogli di plastica a bolle, due piuttosto squadrate, delle dimensioni di un biglietto da visita, e una tonda, grande come un biscotto. Sono le tavolette d’argilla di Tărtăria. Sopra sono incisi circa venti segni: uno potrebbe rappresentare il fuoco, un altro forse ricorda una capra, un altro ancora una spiga. Alcuni studiosi sono convinti che si tratti di grafemi risalenti a 7.300 anni fa, il che farebbe di queste tavolette i primi documenti scritti conosciuti della storia dell’umanità. E io ho avuto il privilegio di tenerle tra le mani dopo aver indossato dei guanti in latex.

Queste tavolette potrebbero rappresentare l’inizio di una delle tecniche culturali più grandi, significative e cariche di conseguenze mai prodotte dalla nostra specie, e una delle più peculiari. È scontato dirlo o, invece, è necessario? Pensiamoci un attimo: la scrittura è in grado di trasformare i nostri occhi (oppure, nel caso del codice Braille, le nostre dita) in orecchie, facendoci sentire le parole con gli occhi (o con le dita appunto).

Dal punto di vista cognitivo è una cosa incredibilmente complessa. La capacità di parlare sembra essere più o meno geneticamente programmata e i bambini la apprendono per così dire en passant, sentendo parlare gli altri. Ma leggere e scrivere richiedono un faticoso addestramento. In questo senso, la scrittura è qualcosa d’innaturale.

Il fatto che stiate leggendo questo articolo, cioè che stiate ricevendo pensieri e frammenti di conoscenza formulati da qualcun altro in un altro luogo e in un altro momento, ascoltandoli con l’orecchio della mente, il fatto che queste parole trascendano così lo spazio e il tempo è qualcosa di magico. Ed è un meccanismo che ha permesso un’incredibile accumulazione di sapere. Accendere il fuoco, costruire utensili, coltivare la terra: può darsi che lo sviluppo di queste tecniche abbia avuto maggiore importanza nella storia dell’umanità. Eppure, senza la scrittura non sarebbero stati neanche lontanamente possibili la lampadina, la penicillina, internet e molto altro ancora. Senza la scrittura il mondo in cui viviamo non sarebbe concepibile.

Ma ripartiamo dal possibile inizio di tutto, da Cluj, con la sua cassaforte e le sue tavolette d’argilla. Anzi no, scusate: cominciamo da un’altra parte, da una videochiamata a Luumäki, nella Carelia meridionale, in Finlandia. Seduto nel suo studio, mi risponde Harald Haarmann, 77 anni, un linguista tedesco che vive a Luumäki da tempo. Parla tra le sette e le otto lingue, senza contare il greco antico e il latino. Per i suoi studi è stato in più di 130 paesi. Di ritorno da uno di questi viaggi, nel 1985, il suo editore gli fece una proposta: poteva essere interessato a scrivere una storia universale della scrittura? Lavorando a questo mastodontico progetto, Haarmann si imbatté nei lavori di Marija Gimbutas, un’archeologa lituano-statunitense che si occupava di preistoria dei Balcani e della regione del Danubio ad Harvard e all’università della California, negli Stati Uniti. “Un suo articolo”, ricorda Haarmann, “dedicava un paragrafo ai cosiddetti caratteri Vinča, trovati su molti reperti provenienti dalla regione del Danubio, i più antichi sulle tavolette d’argilla di Tărtăria, risalenti all’incirca al 5300 aC. Gimbutas sosteneva che potesse trattarsi di grafemi facenti parte di un sistema di scrittura. Ero furioso. Gli studiosi ritenevano che la data di nascita della scrittura andasse collocata intorno al 3500 aC, molto più tardi quindi. La cosa mi agitava, non riuscivo a prendere sonno. E nel bel mezzo della notte mi sono tirato su nel letto e ho avuto una specie d’illuminazione. Ho pensato: sei uno scienziato, non puoi rifiutare qualcosa che neanche conosci”.

Ormai sono quasi quarant’anni che Haarmann studia la civiltà che ha prodotto i caratteri incisi sulle tavolette di argilla. La chiama Europa antica o cultura danubiana e ritiene che sia stata la prima grande civiltà del mondo. Sembra che si estendesse su una vasta area che va dai Balcani alle attuali Romania e Ucraina e che sia esistita dal 6000 al 3000 aC, come una società dai tratti quasi utopici. Gli scavi rivelano resti di città, ma non di palazzi: forse era una società senza centri di potere? Finora non sono state trovate tracce di conflitti armati: una società senza guerre? Sulla base dei manufatti ritrovati sembra che questa cultura ruotasse intorno alle dee della fertilità: forse era una società matrifocale, cioè collocava le donne al centro o quantomeno riconosceva la parità dei sessi?

Haarmann e l’ormai scomparsa Gimbutas interpretarono così i reperti archeologici. Gli antichi europei praticavano l’agricoltura ma, dallo studio del dna, è emerso che non si trattava di contadini arrivati dall’Anatolia, bensì discendenti delle popolazioni arrivate in Europa dall’Africa. Costruivano templi a più piani e abitazioni anche di cinque stanze. Davano vita a insediamenti da ottomila abitanti e costruivano fornaci per la produzione di ceramiche dagli eleganti decori, fondevano il rame e l’oro per realizzare gioielli e opere di artigianato, producevano vino e olio d’oliva, s’intrecciavano i capelli e realizzavano sculture di particolare bellezza, spesso corpi umani con teste di animali. E avevano appunto queste strane tavolette d’argilla.

Le tavolette d’argilla di Tărtăria (5500–2750 aC) (DeAgostini/Getty)

Oggi nessuno, neanche Haarmann, sa decifrare quello che c’è scritto. Questo, volendo sostenere che si tratta di un sistema di scrittura, è piuttosto frustrante, anche se non basta per confutare l’ipotesi. Per molto tempo, per esempio, non siamo stati in grado di leggere neanche i geroglifici egizi. Per la precisione fino all’inizio dell’ottocento, quando il francese Jean-François Champollion ci riuscì grazie alla stele di Rosetta, una lastra di pietra risalente a 2.200 anni fa che riportava tre versioni dello stesso testo: geroglifici destinati al clero egizio, caratteri demotici per i funzionari, e caratteri greci per i sovrani tolemaici. Confrontando le tre versioni, Champollion comprese il significato dei geroglifici. Ma ci sono molte altre scritture antiche che non sono state ancora decifrate.

La paleografia parte dal presupposto che ogni scrittura affonda le radici nel disegno

Nel 1961, quando un archeologo del museo di Cluj estrasse le tavolette di argilla di Tărtăria dal suolo della Transilvania, ci si chiese subito se quelle incisioni potessero essere dei simboli o addirittura dei grafemi. Ma come fare a stabilirlo? Quand’è che un disegno si fa segno? Cosa distingue la raffigurazione di un serpente dalla lettera s?

Migliaia di anni fa

La paleografia parte del presupposto che ogni scrittura affonda le sue radici nel disegno, per esempio nella pittura rupestre, con le sue raffigurazioni di tori ed esseri umani. A un certo punto si è arrivati all’astrazione: una testa taurina ridotta a pochi tratti, un pube stilizzato in un triangolo. Queste forme astratte sono diventate pittogrammi. Una volta standardizzate, hanno acquisito un contenuto informativo che andava un poco al di là del disegno stesso, come per esempio la testa del toro per indicare in generale ogni esemplare forte di bovino maschio. Significati sempre più astratti hanno dato vita agli ideogrammi, con la testa di toro che rappresenta lo stemma di un clan, per dire, o il triangolo la femminilità. Poi sono arrivati i logogrammi, in cui ogni segno sta per una parola specifica, per esempio rén, il simbolo cinese per uomo. Infine i fonogrammi: segni che non rappresentano altro che suoni, separati dalle cose. Nella lingua maya giaguaro si diceva balam e si scriveva usando tre caratteri, uno per ogni sillaba: ba, la e ma, con l’ultima vocale muta.

I passaggi da un sistema all’altro sono stati a volte fluidi e altre no, e sono avvenuti a volte nell’arco di secoli e altre nel giro di millenni. Non tutti i sistemi di scrittura hanno subìto le stesse trasformazioni e non tutti derivavano da uno più antico: la scrittura ha avuto molti esordi, indipendenti tra loro, in ogni angolo del mondo. All’inizio dell’ottocento, in Nordamerica, un geniale cherokee di nome Sequoyah inventò un sistema di scrittura dopo aver osservato i bianchi comunicare con l’ausilio di pezzi di carta. La sua scrittura sillabica è in uso ancora oggi.

Normalmente una civiltà antica è definita “grande” se era alfabetizzata. La versione più diffusa della storia della scrittura non ne colloca gli inizi tra gli antichi europei, nell’odierna Romania, ma da tutt’altra parte, e cioè in Mesopotamia, nell’attuale Iraq orientale, in Siria e in Kuwait. La cultura sumera si sviluppò nelle città-stato guerriere, come per esempio Uruk, intorno al 3500 aC. Qui i sacerdoti cominciarono a registrare gli oboli che i sudditi erano obbligati a versare al tempio, usando dei cunei per imprimere pittogrammi su morbide tavolette d’argilla: sette cesti d’orzo, tre brocche d’olio, ecco cosa scrivevano i sumeri. Ed ecco il terreno su cui mosse i primi passi la famosa scrittura cuneiforme: la contabilità.

Il fatto che il nostro patrimonio culturale fondamentale sia stato generato da burocrati e amministratori, che lo usavano come strumento di dominio volto a documentare lo sfruttamento dei sudditi in una società rigidamente gerarchica, non è solo in un certo senso svilente, ma è pure un po’ angosciante. Anche l’antico Egitto, dove poco dopo fecero la loro comparsa i primi geroglifici, era una società di quel tipo, e lo stesso vale per i maya. Come se ci fosse un legame imprescindibile tra la scrittura e lo stato, l’esigenza di scrivere e la gerarchia, le grandi civiltà e la schiavitù. È un vecchio adagio: una civiltà avanzata non può esistere se non al prezzo di gerarchia, oppressione e violenza.

Ma ora le tavolette d’argilla di Tărtăria suggeriscono che una grande civiltà può sorgere anche in altre condizioni. Ricordiamo i presunti slogan dell’Europa antica: libertà, uguaglianza, fraternità! Un regno pacifico ed egualitario senza confini rigidi e senza un’organizzazione centralizzata. Gli antichi europei come an-archos, privi di capi. Dire che i caratteri di Vinča incisi sulle tavolette di Tărtăria e su altri mille e più reperti dell’Europa antica sono grafemi, significa fare un’affermazione che va al di là della questione di chi per primo ha inventato la scrittura.

Secondo Harald Haarmann e quelli che la pensano come lui, attualmente possiamo distinguere circa 720 caratteri Vinča. La scrittura dell’antica Mesopotamia ne possiede più di settecento, e la più antica versione della grafia geroglifica ne conta circa settecento, spiega Haarmann. “Il sistema dell’Europa antica è quindi sufficientemente complesso”. Oltre al numero di segni distinti, c’è anche il fatto che questi segni non compaiono solo in modo isolato, ma anche collegati gli uni agli altri. “Per parlare di scrittura dev’esserci un’infrastruttura, con i segni riferiti gli uni agli altri e usati in modo convenzionale, e questo sembra il caso delle iscrizioni dell’Europa antica”.

Architrave 24 di Yaxchilan (725-760 dC), Messico (Arterra/Universal Images Group/Getty)

Insomma, Haarmann cita due criteri essenziali per parlare di scrittura: i suoi caratteri necessitano di princìpi fondamentali condivisi, per esempio essere orientati tutti nella stessa direzione; e devono formare un sistema convenzionale, cioè concordato ed egualmente noto a mittente e destinatario. In parole povere, la scrittura dev’essere leggibile.

Se le tavolette di Tărtăria siano davvero i primi documenti scritti dell’umanità non è dato saperlo con certezza. Alcuni studiosi vi ravvisano solo 250 caratteri distinti e propendono a classificarla come una sorta di pre-scrittura. Asciugando in forno le tavolette umide e fangose, l’archeologo romeno che le ha disseppellite ne ha reso impossibile la datazione al radiocarbonio. Per verificare se le tavolette sono davvero così antiche come ipotizzato finora, in un laboratorio di Mannheim, in Germania, si procederà alla datazione a termoluminescenza, un metodo che rivela quando un oggetto ha visto per l’ultima volta la luce del sole. In ogni caso, sappiamo che altri reperti che riportano caratteri di Vinča – per esempio, le tavolette di Gradeshnitsa, conservate in Bulgaria – risalgono a periodi di pochissimo successivi e sono comunque più antichi dei bilanci mesopotamici.

In autonomia

L’Europa antica è scomparsa da tempo immemore, proprio come le civiltà dei sumeri, degli antichi egizi e dei maya, ma la scrittura pervade il mondo e ha raggiunto quasi tutte le culture, anche quelle che non l’hanno sviluppata in autonomia. Al massimo può esserci qualche angolo remoto delle foreste pluviali o qualche isolotto nel mare delle Andamane che ancora non è entrato in contatto con la scrittura. E su questo vale la pena di soffermarsi.

Oggi non solo la lettura è diffusa dappertutto, ma quasi chiunque è in grado di leggere. Lo si deve soprattutto a due grandi conquiste. Una è ovviamente la stampa. La stampa, però, si basava a sua volta sul più semplice, efficiente e forse – come vedremo – brutale di tutti i sistemi di scrittura. E, a inventare questo sistema di scrittura, ben quattromila anni fa, non furono i sacerdoti né i burocrati, ma schiavi e lavoratori quasi del tutto incapaci di leggere e scrivere in senso tradizionale. Oggi sappiamo che erano cananei, costretti a sgobbare per conto del faraone nelle miniere di turchese dell’altopiano Sarabit al Khadim, appartenente all’Egitto. Questi cananei si appropriarono del sistema di scrittura dei loro signori e lo trasformarono: il geroglifico di un bue – aleph in lingua cananea – non rappresentava altro che il suono a, quello di una casa – beth – il suono b e via dicendo. Aleph e beth: l’alfabeto.

Nel 1962 Marshall McLuhan, filosofo canadese e teorico dei mezzi d’informazione, pubblicò La galassia Gutenberg, un libro molto acuto sull’alfabeto e sulla stampa che sottolinea la genialità del sistema di scrittura degli schiavi. Abbiamo visto che i maya sapevano usare i caratteri per rappresentare singole sillabe: ba più la più ma uguale balam, giaguaro. Ma i cananei andarono oltre: ogni carattere rappresentava un singolo suono. Una a, una r e una s, però, da sole non hanno alcun significato: al di fuori di un sistema, il segno non trasmette niente. L’alfabeto ha atomizzato la lingua, suddiviso i suoni gutturali, plosivi e nasali, le cantilene, gli schiocchi, i sibili e i ronzii della nostra voce nelle loro particelle elementari, alle quali sono stati attribuiti segni via via più astratti: le lettere. G-I-A-G-U-A-R-O.

Per una scrittura logografica, come il cinese, ci vogliono migliaia di caratteri. Molte scritture sillabiche, invece, ne contano tra i sessanta e i settanta che, però, sono praticamente inutilizzabili in altre lingue. E poi c’è l’alfabeto: bastano circa 25 segni per poter scrivere praticamente le parole di tutte le lingue, in tutte le coniugazioni e declinazioni, in tutti i generi e in tutti i tempi. È infinitamente più semplice e flessibile dei sistemi precedenti: una scatola magica, comoda e inesauribile. Secondo McLuhan la genialità dell’alfabeto sta nella “rottura di ogni legame tra immagine, suono e significato”. Da questo l’autore traeva una considerazione decisiva: il principio della scomposizione non è meramente linguistico, ma riguarda il pensiero, il rapporto con la natura e con il mondo. Con l’alfabeto l’umanità ha acquisito la possibilità di scomporre quello che prima sembrava unitario, organico, divino.

Quella che McLuhan ha messo nero su bianco nel saggio La galassia Gutenberg, con uno stile molto coinvolgente, è un’idea incredibilmente interessante, complessa e degna di considerazione: la tesi per cui l’alfabeto avrebbe determinato la nostra cultura più di quanto immaginiamo. Quella che chiamiamo “civiltà“ si baserebbe insomma sulle caratteristiche di una supertecnologia cananea risalente a quattromila anni fa. Con l’alfabeto è nato un modo di vivere e di pensare che, a un certo punto, ci ha portati a sezionare l’anima in aree cerebrali, la natura in atomi, l’umanità in popoli e i cittadini in scaglioni fiscali e aventi diritto al voto, mentre allo stesso tempo, passo dopo passo, organizzavamo in nuovi sistemi tutto quello che avevamo suddiviso e atomizzato.

La lista delle culture alfabetiche è lunga. Esistono anche il cirillico e l’arabo

Non sorprende, allora, che i pensieri si rappresentino attraverso le lettere: se a, allora b; prima a, poi b. L’alfa e l’omega. Anche se in realtà non fa alcuna differenza si dice alfa e omega e non omega e alfa: noi alfabetizzati abbiamo bisogno di fissare in maniera univoca l’inizio e la fine. Decliniamo logicamente il mondo, lo rendiamo astratto e uniforme, lo classifichiamo procedendo dalla a alla z, arrivando persino al π, cui corrisponde un numero infinito, e alla x, cui non corrisponde più nessun numero prestabilito, finché il mistero della vita non sembra ridursi a quattro lettere a, c, g, t: le componenti del dna. La scrittura fissa, trattiene, dimostra, è innegabile, costituisce la base della legge.

Il nuovo sistema di scrittura fu diffuso in tutta l’area mediterranea dai mercanti fenici, che si resero presto conto dei vantaggi che offriva. E così questa grafia diventò famosa nella storia come alfabeto greco, per poi raggiungere, come alfabeto latino, la forma che mantiene ancora oggi nelle righe che state leggendo. Seicento anni fa Johannes Gutenberg la consegnò alle macchine e ci fu il passaggio dal manoscritto medievale, lettere e immagini faticosamente realizzate da monaci e copisti, a volantini, giornali e pamphlet a stampa accessibili a chiunque. Da allora, ogni lettera è sempre uguale a se stessa: non è più possibile distinguere questa a da quest’altra a da un’altra ancora. Il mondo è irreversibilmente uniforme. Fu una trasformazione incredibile: prima di Gutenberg, si stima che in Europa esistessero trentamila libri. Non trentamila opere, ma trentamila volumi in tutto. Ognuno aveva un valore enorme, condensando una mole immensa d’arte, mestiere e sapere. Poi, nel 1500, pochi decenni dopo l’invenzione di Gutenberg, in Europa si contavano già nove milioni di libri e gli stampatori lavoravano meglio, più velocemente e a prezzi più convenienti.

Le lettere partirono alla conquista del mondo trasformandolo sempre più in profondità: senza la stampa, non sarebbe stata pensabile la riforma luterana come rovesciamento dell’ordine stabilito – e lo stesso vale per le altre rivoluzioni cui la scrittura ha fatto da traino: De revolutionibus orbium coelestium di Copernico; L’origine delle specie di Charles Darwin; Il manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels; L’io e l’es di Sigmund Freud. Le riflessioni di un singolo individuo potevano avere grandissimi effetti. Cominciava l’epoca della comunicazione di massa e si diffondeva una nuova parola per denigrare i bifolchi, i retrogradi e gli ignoranti: analfabeti.

Nella tomba del faraone Ramses VI (metà del XII secolo aC), Luxor, Egitto (Amir Makar, Afp/Getty)

Sistemi di segni

La lista delle culture alfabetiche è lunga. Oltre all’alfabeto greco e a quello latino, esistono anche il cirillico, l’alfabeto arabo e quello ebraico: tutti sistemi di scrittura che fissano la lingua parlata per mezzo di lettere. Francesi, tedeschi, norvegesi, russi, ucraini, bulgari, giordani, algerini, iracheni e israeliani. Possiamo davvero considerare l’alfabeto un elemento che accomuna i loro modi di pensare e allo stesso tempo li distingue da quello dei cinesi, per esempio? Oppure prendiamo il quipu, la scrittura inca. È un sistema quasi alieno in cui si annodano cordicelle di peli di animali, di cervo o pica per esempio, e in cui il significato risulta dalla modalità e dalla direzione dei nodi oltre che dal colore del pelo impiegato: questo sistema di scrittura consente un accesso peculiare al mondo che resterà per sempre precluso a una persona alfabetizzata?

Dimostrare scientificamente la correttezza della tesi di McLuhan non è semplice. Misurare quanto e come il modo di scrivere e il tipo di scrittura determinino il pensiero è praticamente impossibile. Nel migliore dei casi le neuroscienze possono rivelarci che nel cervello di una lettrice logografica, una cinese per esempio, si attivano altre reti rispetto a quelle che si attivano nel cervello di una lettrice alfabetica. Ma il fatto che il cervello elabori in maniera distinta i diversi sistemi di segni non ha niente di particolarmente sorprendente.

Potrebbe essere più interessante il dibattito sulla “grande divergenza”: perché i paesi dell’occidente, e soprattutto l’Europa, hanno raggiunto nei secoli dopo Gutenberg un immenso potere in tutto il mondo? Ovviamente, le risposte sono tante, e nessuno mette in dubbio che le ragioni dell’espansionismo occidentale siano molteplici: influenze ambientali, orientamenti religiosi, strutture di dominio. Ed è altrettanto ovvio che, per la maggior parte delle persone che ha colpito, quest’espansionismo abbia implicato immani perdite e sofferenze.

Uno dei presupposti è certamente l’affermazione delle scienze moderne, le cui regole si volevano valide ovunque e le cui scoperte dovevano servire a rafforzare le posizioni di potere. Dalle leggi di Newton alla balistica dei costruttori di cannoni il passo era breve. E i cannoni erano caricati su navi capaci di assicurare il dominio di mari ingabbiati in griglie di latitudini e longitudini e rappresentati in carte geografiche. In Cina carta, bussola e polvere da sparo erano noti ben prima che in Europa, ma i cinesi si servirono di queste invenzioni in modo molto diverso dagli europei; a differenza di quella europea, inoltre, la scienza cinese non ambiva a ridurre le osservazioni empiriche a leggi matematiche, cioè a segmentare e ordinare sistematicamente la natura. Che la ragione sia da ricercarsi nell’assenza di un alfabeto come fonte d’ispirazione?

Eppure, anche la stampa è arrivata prima in Cina che in Europa: già nel duecento gli stampatori cinesi armeggiavano con i caratteri di metallo. Solo che l’immensa mole dei caratteri cinesi impedì per molto tempo a quest’invenzione di affermarsi. E mentre in Europa Galileo Galilei pubblicava le sue scoperte in riviste di settore ad ampia diffusione, in Cina la cultura dello scambio scientifico per iscritto non riusciva a svilupparsi. Fino al novecento inoltrato la scrittura cinese, benché tanto antica, restò accessibile solo a pochissimi.

Quando le potenze coloniali europee inglobarono sempre più aree della Cina, s’invocò un passaggio all’alfabeto, “per poter tenere il passo, dal punto di vista concettuale e di pensiero, con un occidente che sembrava all’improvviso superiore”, dice Andreas Guder, professore dell’istituto di sinologia della Freie Universität di Berlino. Anche Mao voleva abolire nel medio termine il sistema di scrittura cinese, aggiunge Guder.

Ma, come sappiamo, non ci riuscì. Tuttavia, dalla fine del novecento la Cina è tornata comunque a tenere il passo con l’occidente. La vulgata vuole che il merito sia dell’apertura economica e dell’adozione di metodi capitalistici. Ovviamente non è sbagliato. Ma sarebbe stato possibile senza un uomo come Zhi Bingyi?

Se non si sa leggere è praticamente impossibile usare Facebook e WhatsApp

Alla fine degli anni sessanta, dopo un dottorato in fisica conseguito a Lipsia, Zhi Bingyi lavorava per un’istituzione governativa a Shanghai. Nell’estate del 1968, nel pieno della rivoluzione culturale maoista, fu arrestato in quanto “autorità accademica reazionaria“ e passò quattordici mesi in una “stalla”, come venivano chiamate le celle delle carceri costruite in tutto il paese. Sulla parete c’erano otto caratteri cinesi: “Indulgenza verso coloro che confessano, privazioni verso coloro che rifiutano”. Zhi Bingyi passò tutto il suo tempo a riflettere su queste parole: non tanto sul loro significato, quanto su una loro possibile digitalizzazione che le rendesse gestibili da un computer.

All’epoca, anche in Cina si puntava a usare i computer per elaborare informazioni destinate all’industria, all’agricoltura e all’esercito. Il problema, però, era che questi dati erano in cinese, mentre i linguaggi di programmazione dei computer si basavano sulle lettere dell’alfabeto.

Nella sua cella, scrivendo con una matita rubata su una tazza da tè, Zhi Bingyi sviluppò gli elementi essenziali del sistema che avrebbe permesso di convertire i caratteri cinesi nel codice alfabetico. Una volta uscito di prigione, lavorava come addetto alle pulizie e guardiano mentre nel tempo libero affinava il suo sistema, innanzitutto raccogliendo una serie di elementi grafici di base con cui comporre tutti i caratteri cinesi. A ogni elemento associò poi una determinata lettera sulla tastiera. Così risultava possibile rendere qualsiasi carattere attraverso una sequenza di lettere: la tastiera era diventata una sorta di sistema modulare con cui comporre i caratteri desiderati.

Il codice di Madrid (900–1521 dC), manoscritto in lingua maya, Madrid, Spagna (PHAS/Universal Images Group/Getty)

Zhi Bingyi usò abilmente l’alfabeto per trasportare nel novecento una scrittura non occidentale con tutta la sua ricchezza grafica. E oggi una tastiera cinese quasi non si distingue dalle nostre. Poco dopo la morte di Mao, Zhi Bingyi presentò la sua idea al pubblico. Il 19 luglio 1978 un giornale di Shanghai titolava: “La scrittura cinese approda nell’epoca dei computer”.

Attraverso gli occhi

Nel 1962, quando uscì, La galassia Gutenberg voleva essere una specie di de profundis per l’epoca della lettura e della scrittura, di cui McLuhan prevedeva la fine con l’avvento di radio e tv. Ancora non poteva immaginare che sarebbe arrivato internet, un meteorite fatto di testi scagliato sul mondo. “Negli ultimi anni il numero di adolescenti che leggono la carta stampata è diminuito fortemente”, si dice. “Sono sempre di meno i giovani che leggono libri”. La lettura si sta effettivamente estinguendo? A giudicare da frasi come queste sembrerebbe di sì. Ma chi studia la lettura sa che nei paesi occidentali non si è mai letto quanto oggi. E anche il numero di persone alfabetizzate continua a crescere: a livello mondiale siamo all’87 per cento. Del resto, se non si sa leggere è praticamente impossibile usare Facebook e WhatsApp. Certo, sono in aumento le note vocali, gli emoji, i pod­cast e i reel di Instagram, ma comunque la maggior parte della gente passa il giorno a fissare delle lettere: sms, email, Messenger, Slack, notizie online. E chi ama leggere magari la sera apre perfino un libro.

Affoghiamo nella scrittura, senza considerare anche quella che ci circonda al di sotto della soglia di coscienza, come i cartelli e le pubblicità. Se sei uno di quelli a cui la lettura è ancora preclusa, il mondo ti sembrerà inaccessibile. Di recente, con i nuovi strumenti d’intelligenza artificiale, sono entrate in scena macchine in grado di scrivere interi saggi nel giro di pochi secondi. Questo implica che saranno prodotti molti più testi di quanti se ne potranno mai leggere, mentre tutti i testi scritti da un essere umano hanno sempre avuto almeno un lettore: il loro autore.

Sistema di scrittura quipu, Taquile, Perù (Juan Manuel Castro Prieto, Vu/Karma press photo)

Ma secondo Maryanne Wolf, saper leggere e dover leggere molto non significa assolutamente leggere-correttamente. Wolf è una neuroscienziata che insegna all’università della California. La sua carriera accademica è cominciata con la letteratura, mossa dall’amore per Hesse, Rilke e Proust, ma poi ha virato sul cervello del lettore. Anche Wolf considera una sorta di miracolo il fatto che l’essere umano abbia trovato accesso alla lingua attraverso gli occhi: potrebbe trattarsi dell’esempio più eclatante della plasticità praticamente illimitata dei nostri cervelli. “Ogni volta che identifichiamo una lettera”, scrive nel libro Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (Vita e pensiero 2018), “attiviamo intere reti di gruppi di neuroni altamente specializzati che si trovano nella corteccia visiva e che comunicano con altre reti di gruppi di cellule, altrettanto specializzate, del sistema linguistico; queste reti, insieme a quelle di gruppi di cellule motorie specializzate, sono a loro volta al servizio dell’articolazione del linguaggio, e tutto questo avviene con la massima precisione, in frazioni di millesimi di secondo”. Dal punto di vista neuronale, leggere è come scalare gli ottomila metri: è un’attività cerebrale incredibilmente complessa. “Alcuni studi che hanno usato la scintigrafia cerebrale hanno rilevato che quando leggiamo con attenzione una poesia, si attiva una rete di connessioni colorate con un’intensità che si vede solo in chi dirige un concerto”, spiega Wolf: perfino l’interfaccia digitale riesce a trasmetterci il suo entusiasmo per questa scoperta. “Quando ci s’immerge nella lettura”, prosegue Wolf, “ i famosi neuroni a specchio lavorano al massimo della potenza”. Basta leggere la descrizione della consistenza di qualcosa – per esempio della frusciante gonna di seta di Emma Bovary nel famoso romanzo di Gustave Flaubert – perché si attivi la cosiddetta corteccia somatosensoriale, ossia quella regione cerebrale, da cui dipende l’esperienza tattile. E quando Emma Bovary salta giù dalla carrozza, s’illumina la corteccia motoria del nostro cervello da cui dipende il movimento del corpo.

Evidentemente, leggere e scrivere sono abilità ben più complesse di quanto abbiamo sempre pensato. Quando leggiamo, attraverso gli occhi non ci limitiamo a udire: percepiamo emozioni, odori, sapori e sensazioni tattili. Una lettura immersiva è un’esperienza a tutto tondo che attiva tutte le facoltà cerebrali.

Solo che, sempre secondo Wolf, questo particolare tipo di lettura, che ci consente di sprofondare nel testo con estrema concentrazione, rischia di sparire. Non tanto a causa della potenza delle immagini quanto per la mole di lettere sotto la quale internet ci sta seppellendo. Chi studia la lettura, spiega, non ha dubbi: siamo diventati tutti lettori frettolosi, nel senso preoccupante del termine. Scansioniamo i testi invece di studiarli con consapevolezza e con attenzione, ne setacciamo la superficie alla ricerca delle informazioni più importanti o di un contenuto in particolare.

Questo, dice Wolf, ha implicazioni sempre più problematiche anche da un punto di vista politico: quando leggiamo, tendiamo a trattenere solo quello che sembra confermare la nostra visione del mondo. Non ci apriamo, come teoricamente sarebbe possibile, né alla vita né al prossimo, ma ci chiudiamo.

Tavoletta sumera (3100-2900 aC) (The Print Collector/Alamy)

Insomma, i nostri cervelli sono molto malleabili. Ma quella neuroplasticità che ci ha consentito d’imparare a leggere fa anche sì che il nostro comportamento di lettori sia profondamente influenzato – per non dire deformato – dai mezzi di comunicazione a cui siamo più esposti. Se non facciamo attenzione, la lettura frettolosa soppianta la lettura immersiva. La conseguenza fin troppo nota è che immergerci davvero in un libro diventa effettivamente impossibile: ci distraiamo, saltiamo da un paragrafo all’altro, scandagliamo il testo alla ricerca del prossimo passaggio interessante.

Wolf descrive uno studio in cui un gruppo di persone – tutte tra i venti e i trent’anni – passava da un mezzo di comunicazione all’altro 27 volte all’ora. In questo modo non è possibile leggere un romanzo di Adalbert Stifter. Una poesia di Mandelstam o un racconto breve di Alice Munro non possono essere letti come un thread di Twitter, non è così che funziona. La lettura empatica, come concepita da Wolf, è un’abilità che andrà presto perduta. Lei auspica una nuova concezione della lettura e un nuovo modo d’insegnare a leggere. Parla di bi-literacy, più o meno doppia alfabetizzazione. Mezzi di comunicazione diversi richiedono modi di lettura diversi. Ai bambini questo principio va insegnato il prima possibile e agli adulti va ricordato.

Un’abilità che si può perdere

Il nostro viaggio attraverso la scrittura e la sua storia volge al termine. Abbiamo imparato che la scrittura ha avuto inizio migliaia di anni fa e chissà, forse perfino in una società di uguali nel mezzo dell’Europa. Si è impossessata dello spirito umano come una specie di demone e, prima in forma stampata e poi in forma digitalizzata, ha percorso come un fulmine l’intero pianeta.

A cosa serve? A tramandare i fatti, ad archiviare informazioni, emettere fatture, trasmettere il sapere e penetrare razionalmente il mondo e i suoi fenomeni? Certamente. Chi legge, però, può subire le più assurde metamorfosi, trasformandosi in una giovane donna francese dell’ottocento intrappolata in un matrimonio infelice, in un titubante principe danese del rinascimento o in un undicenne che ha perso i genitori e cerca se stesso in un collegio di magia. “Quando pensiamo a un dialogo, immaginiamo uno scambio”, dice Wolf. “Ma leggere significa assumere la prospettiva di un altro, immergersi nella sua coscienza incontrandone non solo i pensieri, ma il modo stesso di fare esperienza del mondo”.

Nessun carattere, nessuna lettera è mai nata con l’idea che un giorno Flaubert, Shakespeare o J. K. Rowling se ne sarebbero appropriati per catturare la vitalità stessa nella poesia e nella letteratura. Ma la scrittura serve anche a questo. WhatsApp, gli sms, le email, le notizie online: lettere dappertutto. Affoghiamo nella scrittura e non si è mai letto tanto quanto oggi. Ma lo facciamo nel modo giusto? ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1521 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati