“Istruzioni per vivere una vita: prestare attenzione. Stupirsi. Raccontarla”.
– Mary Oliver
“Alla fine, penso che un’unica catena montuosa sia sufficiente per un’intera vita”. – Rickey Gates
Per più di vent’anni la mia attività preferita è stata lasciarmi alle spalle la casa, con tutti i suoi legami e le sue routine, e mettermi in viaggio per andare altrove. Ho avuto la fortuna di girare il mondo in bicicletta, remare sull’Atlantico, viaggiare attraverso l’India meridionale e fare trekking sui ghiacci artici e sulle sabbie arabe. La casa era per la famiglia, gli amici, la vita reale, non per le esplorazioni e le avventure.
Ma oggi il mio stato d’animo è cambiato, come quello di molte persone. Con il clima nel caos, trovo ingiustificabile il fatto di volare in tutto il mondo solo per divertirsi, bruciando carburante con gli aerei e vomitando carbonio per dei selfie. Mi sembra inappropriato scrivere libri che incoraggiano le persone a partire ed esplorare. Se amo tanto i luoghi selvaggi, mi chiedo, sono disposto a non andarci per proteggerli? Volare verso terre lontane è ancora un lusso che possono permettersi in pochi: l’1 per cento della popolazione mondiale prende più della metà di tutti i voli. Come potremmo essere di più a goderci i paesaggi selvaggi e i benefici mentali e fisici dati dalla natura senza che alla Terra costi caro?
Ho cominciato a scrivere di “microavventure” più di dieci anni fa, per incoraggiare le persone a preferire gite in bicicletta nel fine settimana, notti in campeggio e lunghe nuotate vicino a casa. Le grandi avventure non dovrebbero essere solo per chi ha il tempo e i soldi per attraversare i continenti. Né i luoghi selvaggi dovrebbero essere solo per i pochi fortunati che hanno un parco nazionale a portata di mano o la libertà di esplorare, troppo spesso condizionata dal genere, dal colore della pelle o da altri fattori.
Negli ultimi anni anche la vita familiare mi ha costretto a ridimensionare le mie spedizioni, sostituite naturalmente da molti altri piaceri. L’interminabile giostra di faccende domestiche e cura dei bambini ci ha spinti a vivere in una zona meno avventurosa di quanto mi sarei immaginato, ai margini di una città, in un paesaggio senza pretese, punteggiato dai bagliori e dal caos di strade trafficate. È una strana terra di confine: ci sono campi ma anche fabbriche. Ci sono villaggi e fattorie, binari ferroviari e grattacieli. A me non piace. Ma alla mia famiglia sì e questo mi basta. Preferisco vivere nel loro mondo che da solo nel mio. Eppure ho cominciato a incolpare questa zona della maggior parte delle mie frustrazioni, pur essendo consapevole del paradosso del paradiso: la falsa convinzione che un posto da cartolina risolva tutti i problemi.
Stupirsi di tutto
Così ho sentito il bisogno di conciliare la passione per l’esplorazione con il mio nuovo ambiente poco avventuroso. Una mattina ho appoggiato il cesto della biancheria sopra pile di compiti sparsi sul tavolo della cucina, ho messo un paio di ciotole nella lavastoviglie e mi sono chiesto: e se questo angolo di palude inglese fosse davvero pieno di sorprese? Se mi prendessi la briga di andarlo a guardare? Forse quello che ho inseguito dall’India all’Islanda – avventure, natura, sorprese, silenzio, nuove prospettive – c’è anche qui.
Il primo passo è stato procurarmi una mappa. La Ordnance survey, l’agenzia cartografica nazionale del Regno Unito, divide l’intero paese in 403 mappe “Explorer” in scala 1:25.000, in cui cioè ogni chilometro di terra corrisponde a quattro centimetri di mappa. Si può perfino ordinare una mappa personalizzata con la propria casa al centro, ed è quello che ho fatto comprandone una online. Un paio di giorni dopo è arrivato il postino e ho subito portato la busta vicino a un vecchio tronco davanti al mio capannone, dove potevo stendere la mappa.
Aprire una carta geografica è un rituale che dà il via a tutti i viaggi. Mostrava un’area divisa in una griglia di quattrocento quadrati, di un singolo chilometro quadrato ciascuno. Potevo tranquillamente percorrere il perimetro di ognuno in circa un’ora.
Ho deciso che ogni settimana avrei esplorato uno di quei quadratini nel dettaglio, facendo del mio meglio per vedere tutto, per camminare o andare in bicicletta su ogni sentiero e imparare il più possibile lungo la strada. Volevo che fosse una scelta casuale, non governata dalle mie preferenze. Speravo di vedere cose che normalmente non avrei notato e ho deciso di trattare tutto come qualcosa d’interessante. Lo scrittore Terry Pratchett una volta tenne una conferenza “sull’importanza di stupirsi di tutto”, che mi sembrava una dichiarazione d’intenti appropriata.
Ho studiato la mappa per un po’ e ho trovato quello che apparentemente era il quadratino più noioso: niente strade, case o fiumi, solo un sentiero, uno stagno e il semplice svolazzo di un’unica linea di contorno. A quanto sembrava lì c’era il nulla, racchiuso all’interno di nitide linee azzurre. Era il punto di partenza ideale.
Ho ripiegato la mappa e sono partito per dare un’occhiata al nulla.
Qualche tempo dopo due muratori tiravano la mia auto fuori da un fosso. Erano troppo educati per dirmi che ero stato un idiota. Avevo fermato il loro pick-up per chiedere aiuto, perché la mia ruota anteriore era scivolata giù dal bordo dell’asfalto in un vuoto nascosto dalla siepe sul lato della strada dove avevo cercato di parcheggiare. Mentre il loro motore andava su di giri e i pezzi della mia auto scricchiolavano, s’incrinavano e cadevano, ho pensato che ero lì per cercare nuove esperienze. Chissà se era un buon inizio.
Ho ringraziato i due uomini, mi sono allontanato dall’auto, mi sono infilato attraverso una rete progettata per tenere lontane le moto da cross e poi ho scavalcato un blocco di cemento coperto di graffiti. Non ero mai stato laggiù. Qualcuno aveva piantato una fila di esili alberelli lungo la recinzione metallica, legati con una corda azzurra. Chi lo aveva fatto? E perché? Non c’erano case e ci sarebbero voluti almeno dieci anni prima che gli alberi crescessero.
Appena oltre l’involucro abbandonato di un hamburger, un sentiero colorato e cosparso di foglie si estendeva nella nebbia sotto un arco di alberi umidi. L’autunno stava lasciando il posto all’inverno. Era l’inizio di novembre, quindi eravamo appena entrati nel periodo conosciuto nell’antico calendario celtico come la metà buia dell’anno. Il mio respiro formava nuvolette nell’aria e le dita erano fredde nonostante i guanti.
Ogni volta che riesco a dare un nome a un uccello o a un albero, mi sembra d’incontrarlo più spesso e lo apprezzo di più
I celti celebravano i cambi di stagione con quattro feste del fuoco a metà di ogni equinozio e solstizio. Samhain era la più importante, accoglieva i mesi bui invernali. La gente era preoccupata per l’indebolimento del sole e accendeva fuochi per aiutarlo nel suo viaggio attraverso i cieli. Le celebrazioni di Samhain alla fine del raccolto erano eventi chiassosi, in cui ci si rimpinzava, ci si ubriacava e si sacrificavano animali. Qualcuno prendeva una fiamma dal falò della comunità e la portava a casa per accendere il proprio focolare. I celti credevano che in quel periodo dell’anno la separazione tra il nostro mondo e quello degli spiriti si dissolvesse, consentendo più interazioni tra i due mondi. I giorni sempre più bui facevano presentire i mesi di fame a venire e l’avvicinarsi del regno soprannaturale. I fuochi e la baldoria dovevano essere un momento di pausa inebriante.
Ogni volta che riesco a dare un nome a qualcosa, un uccello o un albero, mi sembra d’incontrarlo più spesso e lo apprezzo di più, perché so come si chiama. Come scrive l’autore britannico Robert Macfarlane nel libro Landmarks, “il deficit linguistico porta a un deficit di attenzione. A mano a mano che esauriamo la nostra capacità di nominare, descrivere e rappresentare aspetti particolari dei nostri luoghi, si esaurisce anche la nostra capacità di comprendere e immaginare possibili rapporti con la natura non umana”.
Prestare attenzione è quello che i miei professori mi hanno insegnato a fare durante le lezioni scolastiche che all’epoca mi sembravano terribilmente noiose. Ora stavo camminando in un quadratino su una mappa, stavo imparando tardivamente a essere più attento, a colmare alcune lacune con l’aiuto di applicazioni e ricerche. L’app Seek, per esempio, usa una misteriosa magia vudù per identificare piante e animali. Puntavo il telefono verso una canna qualsiasi. Avevo visto quelle canne centinaia di volte, ma non conoscevo il loro nome ufficiale. Seek me l’ha svelato: si chiamano “canne comuni”.
Ad attirare di più la mia attenzione è stata la loro tassonomia. Famiglia: graminacee. Classe: monocotiledoni. Regno: piante. Dominio: eucarioti. La tentacolare immensità della vita, troppo complessa per essere afferrata, era stata catalogata, ordinata e semplificata per quell’unica pianta che avevo di fronte: la Phragmites australis.
La nebbia mattutina
Ero su un sentiero umido sopra profondi strati di rocce sedimentarie del tardo mesozoico e del cenozoico, a bocca aperta davanti a una moltitudine di canne comuni. Intravedevo la meravigliosa connessione tra l’osservazione quotidiana e la curiosità che si sviluppa con una più ampia esplorazione del cosmo.
Mi sono venute in mente delle domande. Chi è venuto in questo luogo isolato per disegnare quei brutti graffiti, e perché? Chi si è preso la briga di coprire di ghiaia un piccolo sentiero fino a una panchina, tagliare rami e piantarli per delineare il sentiero? Chi ha costruito la panchina con due ceppi di betulla e una tavola pesante? La stessa persona o le stesse persone avevano anche creato il letto di trucioli di legno tra i quali erano spuntati contorti funghi marroni?
Ho asciugato la panca con la manica, mi sono seduto e ho cercato il thermos di caffè nello zaino. L’ho bevuto lentamente. Fissavo la nebbia. Perché, mi sono chiesto, chi ha costruito questa panchina l’ha messa proprio davanti a un groviglio di rovi e a un grosso traliccio?
Poi ho notato una piccola targa con la scritta: Brian instancabile difensore del canale. Mi sono reso conto che stavo guardando tutto nel modo sbagliato. Mi sono girato. Quello che avevo liquidato come un fosso stagnante era, in realtà, un canale invaso dalla vegetazione nelle prime fasi di restauro. Lungo le sue rive c’erano giunchi, canne piumate, bacche di biancospino rosso sangue e una recinzione di filo spinato.
Non era esattamente il paradiso, ma era una visione di natura, storia, conservazione e comunità dentro la stessa cornice. La panchina di Brian, e l’affetto per quel luogo che l’aveva ispirata, hanno aiutato anche me ad apprezzare la vista.
Un uomo sulla cinquantina è passato pedalando lungo il sentiero con un giubbotto dai colori sgargianti e le gomme della bici piuttosto a terra. L’inconfondibile voce roca di Tom Waits usciva da un altoparlante sul manubrio. Cantava: “I never saw the morning ’til I stayed up all night / I never saw my hometown until I stayed away too long” (Non ho mai visto il mattino fino a quando non sono rimasto sveglio tutta la notte. Non ho mai visto la mia città fino a quando non sono stato via troppo a lungo). Mentre finivo il mio caffè sentivo solo il rumore di un carrello elevatore nel cortile di una fabbrica al di là del canale e un treno che sferragliava da qualche parte in lontananza. La natura sembrava soffocata dalla nebbia mattutina. Per quanto suoni strano non ero ancora entrato nel mio quadrato della griglia. Era dall’altra parte del canale, troppo largo per essere superato con un salto. Sono tornato sui miei passi per cercare un’altra strada.
Ripercorrendo il vialetto, ho raccolto l’involucro dell’hamburger che prima avevo scavalcato. Mi sono infilato su uno stretto sentiero attraverso un’apertura tra i cespugli e una recinzione di rete metallica, facendo attenzione a non restare impigliato, poi ho seguito il sentiero fino a un varco vicino a un paletto caduto da una recinzione. Ho saltato gli anelli di filo aggrovigliato e sono sceso per un pendio boscoso fino a una pozza di acqua stagnante. La superficie era coperta di lenticchie d’acqua, una minuscola pianta che si riproduce velocemente. Poi ho scoperto che negli Stati Uniti è in fase di sperimentazione come trattamento per le acque reflue.
C’era pace laggiù, tra i cespugli di biancospino: una terra di nessuno disseminata di lattine di Carlsberg Export, incastrata tra una linea ferroviaria, alcune fabbriche, la palude e un poligono di tiro del ministero della difesa. Nessuno sapeva che ero lì. Nessuno che conoscessi c’era mai stato. Perché qualcuno avrebbe dovuto andarci?
Ho rimestato l’acqua dello stagno con un bastone e i suoi misteri puzzolenti sono emersi dalle profondità. Ho raccolto una mela da un albero vicino alla ferrovia e l’ho infilata nello zaino. Poi ho attraversato l’erba bagnata che mi arrivava alle ginocchia: Seek mi aveva insegnato che c’erano fiori gialli di linaria comune e cardi viola imperlati di goccioline di rugiada e ragnatele di seta.
Sono andato verso i prati da pascolo – un tempo paludosi – che oggi formano la maggior parte di questo quadrato “vuoto”. Giganteschi tralicci dell’elettricità marciavano attraverso la terra e il cielo grigio era rigato da cavi che uscivano da una vecchia centrale a carbone lungo la costa. La ciminiera della centrale, alta duecento metri, ha guadagnato una certa notorietà qualche anno fa, quando alcuni manifestanti ci sono saliti sopra per lanciare un messaggio al primo ministro dell’epoca Gordon Brown. Erano riusciti a scrivere solo “Gordon” a caratteri cubitali prima di essere arrestati e convocati in tribunale. Avevano ammesso di voler far chiudere la centrale, spiegando che questo avrebbe impedito un ulteriore riscaldamento climatico. Nessuno aveva mai usato questa “giustificazione” in un processo, per spiegare di aver agito in base al legittimo motivo di proteggere la vita. Il New York Times aveva pubblicato la notizia, inserendo la loro assoluzione nella sua lista annuale di idee capaci di cambiare il mondo. Più tardi l’impianto è stato dismesso e la sua enorme ciminiera è stata fatta saltare in aria.
Un buon inizio
Lì, sui prati sotto le linee elettriche, il terreno era sorprendentemente pianeggiante. Potevo vedere in lontananza un argine rialzato che proteggeva la palude dal fiume che si apriva a ventaglio verso il suo estuario. Un pony pascolava sull’argine erboso e una moto da cross che aveva trovato il modo di aggirare le barriere protettive andava su e giù.
Ho visto un’imbarcazione scivolare nel fiume diretta verso il mare con il fumo che usciva dal fumaiolo. “Dove stai andando?”, ho gridato. In quale porto straniero attraccherai? Cosa vedrai? Che odore avrà? In quale bar andrà l’equipaggio per una birra e per sgranchirsi le gambe? Un tempo arrivavo anch’io in quei porti lontani. Mi chiedevo se mi stavo perdendo qualcosa. Ho continuato a camminare. Un elemento segnato sulla carta era un minuscolo tumulo, evidenziato con un cerchietto, che si ergeva a ben cinque metri sul livello del mare. Sembrava una ruga erbosa sulla superficie piatta della palude. Ma ho scoperto che si trattava di un antico luogo di sepoltura dell’età del bronzo, costruito su una bara di pietra che un tempo conteneva uno scheletro accovacciato e una collana di perline fatte di spugne di mare fossilizzate. La storia antica aggiungeva un senso di mistero all’innocuo tumulo e al vicino abbeveratoio di metallo per il bestiame, vuoto.
Dal mio punto di osservazione sulla “collina” vedevo un campo disseminato di mucche nere e un altro di pecore bianche. I campi erano separati da dighe di drenaggio. Il bestiame era l’unico indizio del fatto che quella palude prosciugata non era un terreno abbandonato: gli animali svolgono un ruolo fondamentale per conservarlo.
Due corvi si stavano tuffando dall’alto, lanciando strida mentre svolazzavano nel cielo grigio e freddo. Era un rituale di corteggiamento? Un combattimento? Stavano giocando? Sentivo il fruscio delle loro ali mentre scendevano. Sentivo anche il suono stridente delle ali di una coppia di cigni bianchi che volavano via, poi quello riluttante e irritato di un airone che dava la caccia alle rane in un fosso coperto di alghe verdi brillanti. Avevo fame, ero felice di aver raccolto quella mela. Era enorme, rossa e chiazzata di giallo. La luce tenue del sole stava diradando la nebbia del mattino. I miei morsi risuonavano forte nel silenzio. Ho visto il tipico tuffo di un picchio e sentito il suo richiamo simile a una risata. Meno facile da identificare è stata una donnola, o forse un ermellino, che mi ha attraversato di corsa la strada per poi sparire nell’erba alta. Poi sono tornato al punto di partenza, avevo completato il giro del quadrato. Ho finito di mangiare la mela e ho gettato il torsolo nella siepe. Ho riportato a casa un’auto ammaccata, un mucchio di foto e pagine di appunti.
Avevo scelto il luogo più vuoto per cominciare il mio viaggio attraverso la mappa di un’area che avevo spesso considerato noiosa. Mi aspettavano ancora 399 quadratini. Era stato un buon inizio. ◆ bt
Alastair Humphreys è un autore ed esploratore britannico. Quest’articolo è un adattamento del suo ultimo libro Local. A search for nearby nature and wildness (Eye Books 2024).
Questo articolo è stato pubblicato su Noēma Magazine. Per leggere la versione originale e altri pezzi in inglese visitate noemamag.com.
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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati