Il primo segnale di un mondo che non esiste più è l’assenza di odori. Non si sente l’odore del sale, del pesce e neanche del vento fresco nell’arcipelago di Guna Yala, o San Blas, composto da 365 isolette di sabbia color avorio. Il mare è turchese, incredibilmente trasparente, tanto che si vedono i pesci multicolori, le stelle marine e i coralli a forma di nuvole rosa senza bisogno d’immergersi. Un paradiso da cartolina. Una delle venticinque migliori spiagge del pianeta, secondo il sito Tripadvisor.

Allora perché è difficile emozionarsi di fronte a questa bellezza? Perché sappiamo di essere davanti a un miraggio nel mezzo dei Caraibi panamensi: tra 25 anni finirà tutto sott’acqua. È una bellezza che appassisce.

Comincio a capirlo intervistando Michael Adams, laureato in sviluppo sostenibile all’università della Florida, negli Stati Uniti. Il padre viveva a Panamá, il paese centroamericano da cui passa il 5 per cento del commercio marittimo mondiale grazie al famoso canale. Da quando è stato aperto nel 1914, questa meraviglia ingegneristica è la via più breve per passare dall’oceano Atlantico al Pacifico.

Adams ha svolto a Panamá le sue ricerche per la tesi. Un’informazione l’ha colpito in modo particolare. Secondo la Banca mondiale, a causa del riscaldamento globale e delle sue conseguenze – eccesso di precipitazioni o siccità, uragani, tempeste, aumento della temperatura di uno o due gradi – nel 2050 circa 140 milioni di persone potrebbero essere costrette a spostarsi all’interno dei loro paesi. I numeri parlano chiaro: fino agli anni ottanta il livello del mare cresceva di 2,5 millimetri all’anno; dal 2012, nello stesso intervallo di tempo, l’aumento è di 6,4 millimetri. Tre regioni sono particolarmente vulnerabili: l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina.

Panamá, un istmo strategico che collega due continenti, perderà il 2,01 per cento del suo territorio. L’improvvisa migrazione di milioni di persone – che diventeranno sfollati climatici – avrà conseguenze catastrofiche per la società, l’economia e l’ambiente.

“Le cose importanti della vita sono sempre le più lontane”, mi dice Adams all’inizio di febbraio quando gli chiedo consiglio su come raggiungere le isole di Guna Yala. Nel 2018 era andato in barca a Gardi Sugdub, o isla Cangrejo, la prima delle 39 isole abitate dell’arcipelago che sarà sgomberata. Si trova a quindici minuti di barca dalla terraferma.

“Ero sbalordito”, ricorda. “Non c’era una linea di costa, una spiaggia, un confine: era una città galleggiante”.

C’era anche un altro particolare: gli abitanti, i guna, sono stati i primi nativi dell’America Latina ad aver avuto una patria autonoma. Nel 1903, quando Panamá ottenne l’indipendenza dalla Colombia, decisero di non far parte del nuovo paese. Orgogliosi della loro storia e con un sistema di governo proprio, i guna sono conosciuti in tutto il mondo per le molas, i tessuti colorati ispirati agli elementi della natura. Se riusciranno a gestire i cambiamenti climatici, diventeranno un punto di riferimento anche per questo.

Adams mi prepara spiegandomi che cent’anni fa i nativi, stanchi delle zanzare che trasmettevano la dengue, la malaria e altre malattie tropicali, migrarono verso le isole. Gardi Sugdub, con le sue robuste mangrovie verde brillante, rifugio di uccelli, di pesci e di altre forme di vita, era una delle più ambite dell’arcipelago. Era vicina alla costa, i guna potevano coltivare i loro campi di manioca, banane e nespole, e trasportare l’acqua potabile dai fiumi e dai torrenti con le barche a vela.

Scelsero di vivere in questo piccolo angolo di paradiso dove soffiava un vento tiepido e fresco. Abbatterono le mangrovie e, a forza di riempimenti fatti di rifiuti e cemento, divorarono il mare. Triplicarono le dimensioni dell’isola: oggi Gardi Sugdub è grande come cinque campi da calcio. Ha 1.407 abitanti, che vivono in case fatte di canne, insieme a galli, cani, gatti, pappagalli, macchine da cucire, radio, secchi di plastica pieni di vestiti o di acqua. Non ci sono orti né giardini, i fiori sono pochi e non c’è spazio per altri esseri umani.

“La notte desidererai la solitudine degli animali”, mi dice Adams. L’isola è un labirinto di sentieri fangosi, ci sono pochissimi alberi, una scuola elementare che sta crollando, un ambulatorio poco attrezzato, qualche negozio di generi alimentari e un distributore di benzina per le numerose piccole imbarcazioni.

“Speriamo che non piova”, aggiunge prima di riattaccare. Quando piove l’acqua, piena di escrementi umani e plastica, sommerge tutto.

Mi torna in mente una frase dell’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro: “Gli indigeni sono degli specialisti della fine del mondo, perché il loro mondo è finito nel cinquecento”.

Voglio sapere come ci si abitua a contemplare la fine del mondo. Ho sei giorni per capirlo.

L’arrivo

Trovo un primo indizio di come la vita si stia complicando sul nostro pianeta guardando fuori dal finestrino dell’aereo che ci porta da Bogotá, la capitale colombiana, a Panamá, dove incontreremo Luis Ortiz, una delle 150 guide autorizzate a portarci a Guna Yala. Centinaia di navi sono bloccate in mezzo al mare con i loro carichi. Nel 2017 l’economista Eduardo Zegarra, specialista in questioni agrarie e idriche, aveva previsto che il livello dell’acqua nelle infrastrutture portuali del canale si sarebbe abbassato drasticamente a causa della siccità: “Causerà problemi al commercio mondiale”.

Non sbagliava. Nel 2023 le riserve del più grande dei due laghi che alimentano il canale, il Gatún, sono scese al livello più basso degli ultimi sette anni. Dato che il canale funziona con un sistema di chiuse, delle specie di ascensori che portano le navi dal livello del mare a quello del lago, 134 imbarcazioni sono rimaste bloccate. Da lì passano 180 rotte di navigazione, che raggiungono 1.920 porti in 170 paesi.

La mancanza di pioggia non incide solo sulla catena di approvvigionamento globale, ma ha anche un impatto sulla redditività del canale: il valore delle merci trasportate attraverso l’istmo supera i 248 miliardi di euro all’anno. Panamá, la cui economia è in gran parte sostenuta da questa infrastruttura, sa quanto è importante per il mondo.

E lo sanno anche i guna. Luis, un uomo dai capelli neri, ci viene a prendere in albergo con il suv, parla in continuazione di soldi. Sei giorni a Gardi Sugdub costano 2.500 dollari (2.300 euro). Per usare un drone, per esempio, ne servono 600. Per l’andata e il ritorno in barca e un giro in altre isole si pagano 500 dollari, e altrettanti ce ne vogliono per il permesso comunitario. Scattare una foto a un nativo guna costa un dollaro, ogni intervista venti dollari. Non possiamo spostarci da soli o parlare con chi vogliamo. Ci viene assegnata una guida, il suocero di Luis, Leogilvido Rivera detto don Leo. Lo paghiamo 125 dollari.

“Non si pagano le informazioni”, diciamo noi. “Non è corretto”.

“Forse non sarà corretto, ma così è stato deciso quarant’anni fa”, risponde.

Si può arrivare al cuore di una persona quando ci sono di mezzo i soldi?

Tutto è cambiato

Sì. E in questo i bambini sono un’oasi per l’umanità. Durante il viaggio verso il porto dove prendiamo la barca per Gardi Sugdub – tre ore per percorrere 123 chilometri sull’unica strada che collega la città di Panamá con Guna Yala – ci accompagnano Danitza Rivera, la cognata di Luis, 42 anni, e il figlio Diego, di nove anni. Sono emigrati nella capitale molto tempo fa in cerca di opportunità. Diego vuole sapere com’era un tempo questo luogo oggi immerso nel frastuono assordante dei furgoni oscurati, pieno di negozi e turisti. Luis si scioglie e comincia a raccontare che da piccolo trascorreva ore in questi boschi illuminati da una luce antica, muschiosa e nebbiosa. Inseguiva le farfalle blu e faceva il bagno nelle acque cristalline.

“Ci volevano otto ore per arrivare in città su questa strada, che era un sentiero fangoso. Tutte le gioie vogliono l’eternità”, commenta all’improvviso.

All’epoca Guna Yala, che significa terra degli indigeni, era un paese nel paese. Nessuno veniva a curiosare nell’arcipelago: alla fine del cinquecento era un rifugio per pirati e corsari olandesi, francesi e britannici, che fecero amicizia con i guna. Gli diedero fucili, polvere da sparo, brandy e informazioni in cambio di altre informazioni, carne di tartaruga e banane. Il patto funzionò. I guna resistettero ai conquistadores spagnoli. Da quel momento furono visti come quelli che vivono “oltre” e si autogovernano. Negli anni settanta del novecento, però, i nativi cominciarono ad avere bisogno degli altri: di medici (la medicina tradizionale non era sufficiente), di insegnanti per i loro figli (per poter parlare lo spagnolo) e di prodotti contro i parassiti che colpivano le palme da cocco, la coltura principale su queste isole.

Si rivolsero al presidente dell’epoca, il generale Ómar Torrijos. Oltre ad aver favorito la firma del trattato che toglieva agli Stati Uniti il controllo del canale di Panamá, durante il suo governo autoritario (dal 1968 al 1981) Torrijos promosse l’idea della conquista dell’Atlantico.

Panamá ospita circa il 3,4 per cento delle specie di anfibi del mondo, il 2,3 per cento di rettili, il 9 per cento di uccelli conosciuti e il 4,8 per cento di mammiferi. Bisognava mettere a frutto la natura e ottenere altri introiti. In quel periodo fu costruita la strada che stiamo percorrendo (hanno finito di asfaltarla solo nel 2006).

Le donne ereditano le case dei genitori, gestiscono le piantagioni di cocco e cuciono a mano le molas, ritagli di tessuto colorati

Poi tutto è cambiato. I guna, che erano pescatori, coltivatori di manioca e banane e commerciavano noci di cocco con la Colombia, si sono aperti al turismo. E l’hanno fatto a modo loro. Al chilometro 19, per esempio, c’è il posto di blocco Nusagandi, che disciplina l’ingresso nell’area. È aperto dalle sette di mattina fino a dopo le quattro del pomeriggio. A presidiarlo e a gestire la cassa, ci sono le donne guna. Non superano il metro e mezzo di altezza, portano orecchini e un cerchio d’oro al setto nasale, si dipingono le guance con l’achiote rosso e decorano il naso con la jagua, l’inchiostro tratto dal frutto omonimo. Intorno alle braccia e alle caviglie hanno braccialetti di perline di diversi colori. Indossano sempre la gonna e quando escono di casa si coprono la testa con un foulard rosso e giallo. Sono una presenza che ipnotizza e rallegra.

“Nella nostra cultura le donne sono molto protette”, spiega Luis. Ereditano le case dei genitori e gestiscono le piantagioni di cocco, il sesto frutto più coltivato al mondo, con un mercato che quest’anno è stimato in 4,96 miliardi di dollari. Cuciono a mano le molas, ritagli di tessuti colorati che vengono sovrapposti per creare motivi intricati. Fanno cuscini, portamonete, borsette, camicette, addobbi per l’albero di Natale che sono esportati negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone.

Chi ha i soldi domina gli altri, così dicono. Forse è per questo che, con un sorriso artificiale, mettono fretta ai turisti e inseriscono le carte di credito nei pos: l’ingresso nell’area costa trenta dollari a persona; per un’auto 350 dollari; ricaricare un cellulare 50 centesimi e una bottiglia d’acqua o una birra due dollari. E così via.

Volete una bellezza da cartolina? Dovete pagare.

Si dice che la regione di Guna Yala ricavi tre milioni di dollari all’anno dal turismo, una cifra che nessuno conferma o smentisce. Sono soldi spesi per costruire alberghi e ristoranti, per comprare barche, benzina, impianti elettrici, liquori e antenne per i cellulari. Mi chiedo a cosa serviranno i soldi quando questi mari non potranno contenere più rifiuti: materassi, tubi, cartoni del latte, tubetti di dentifricio, scarpe, magliette, pneumatici, bicchieri e bottiglie.

Siamo passati da 1,5 milioni di tonnellate di plastica prodotte nel 1950 al numero esponenziale di 390 milioni di tonnellate nel 2022. Alla fine lo vedo con i miei stessi occhi, non lo leggo seduta su questa barca che mi porta a Gardi Sugdub. Viaggiamo con due chili di riso, un chilo di lenticchie, un chilo di fagioli, prosciutto, formaggio, pane, salse di pomodoro e 75 bottiglie d’acqua.

L’insegnante in pensione don Leo e la moglie Rosa a Gardi Sugdub, marzo 2024  (Luca Zanetti)

Notti difficili

Sono le tre di notte di lunedì 4 marzo 2024. Dodici ore fa sono arrivata sull’isola di Gardi Sugdub. È proprio come l’aveva descritta Michael Adams. Ma c’è dell’altro: non si riesce a vedere il cielo a causa dei cavi, delle antenne, dei tetti addossati gli uni agli altri. Non c’è un filo di vento e ci sono molte zanzare.

Alloggiamo in una casa di sette metri per tre. È fatta di canna bianca, una specie di bambù spesso e secco, e il pavimento è di terra. All’interno non ci sono molte cose: qualche cesta di plastica per i vestiti, un tavolo, uno specchio, un fornello a gas, tre materassini, delle amache, quattro sedie e un frigorifero che funziona dalle sei del pomeriggio a mezzanotte, quando c’è la corrente.

Ci vivono don Leo, 74 anni, insegnante di educazione fisica in pensione, e sua moglie Rosa, 68 anni, una delle migliori a fabbricare le molas. Hanno quattro figlie e nove nipoti. Non riesco a dormire perché proprio accanto c’è una casa abitata da dodici persone. Quattro di loro si sono ubriacate e stanno vomitando. Sento la puzza a meno di un metro di distanza. Don Leo dice che sono alcolizzati e fanno anche uso di droghe. I bambini piangono. Un gallo canta.

Luca, il mio collega fotografo, sta illuminando qualcosa con la torcia del cellulare. Mi dice a bassa voce che qualcuno sta urinando molto vicino a noi e gli schizzi arrivano fino alla sua amaca. Restiamo in silenzio. Siamo venuti a vedere cosa significa vivere in un luogo che sta sprofondando per l’innalzamento del livello del mare e che è sovrappopolato. Lo stiamo già capendo. Dobbiamo essere forti e gestire questa situazione, perché non possiamo andare da nessuna parte senza Leo, la nostra guida e il nostro interprete autorizzato. È lui che infila la banconota da venti dollari nella mano di chiunque intervistiamo. Pagare per ogni intervista stringe il cuore. Non riesco a entrare in sintonia con le persone, non è genuino né sincero.

I guna di Gardi Sugdub non sono gentili. Mi sembra che siano stanchi di sentirsi chiedere di un riscaldamento globale che secondo loro non esiste. Lo negano. Amano quest’isola e gli piace vivere così. Non vorrebbero trasferirsi nella Barriada, diciassette ettari sulla terraferma che gli appartiene dal 1938, quando ottennero costituzionalmente l’autonomia geografica e culturale. Ma non hanno scelta: sono già state costruite trecento case e una scuola per accogliere 1.200 studenti. Lo stato ha investito più di dieci milioni di dollari. I primi guna hanno già cominciato a trasferirsi a giugno di quest’anno.

Come si fa a dormire su quest’isola? Ora sento tre gatti che miagolano sul tetto. Proverò a pensare a tutto quello che mi è piaciuto oggi, sperando che aiuti a rilassarmi.

Rappresentanti del congresso guna a Gardi Sugdub, il 4 marzo 2024 (Luca Zanetti)

Mi è piaciuta l’organizzazione sociale dei guna. Il lavoro è comunitario: vicini, amici e parenti formano piccoli gruppi chiamati società. Tutti sono chiamati a partecipare a specifiche attività come la vendita di benzina, la gestione di un negozio al dettaglio o la produzione agricola. Se non lo fanno, vengono multati.

Mi sono piaciute anche le loro tradizioni. Ho visto un uomo richiamare all’ordine soffiando in una conchiglia. Quando la conchiglia ha risuonato come una tromba rauca, gli altri hanno capito subito che dovevano spazzare le strade e presentarsi a un’assemblea convocata dal sahila, la massima autorità dell’isola.

Infine mi è piaciuto il sahila, José Devis, 82 anni. Ogni isola ne ha uno. Sono persone che sanno tutto dei miti, delle leggende e della tradizione orale. Consigliano, danno permessi e risolvono le dispute. Sono dei punti di riferimento e restano in carica a vita.

Devis mi ha ricevuto sdraiato nella capanna più grande dell’isola, perché è tradizione che gli uomini con una certa autorità si dondolino sulle amache. Quando gli ho chiesto quale fosse la cosa che lo rendeva più orgoglioso, mi ha parlato della medicina guna. “Con la natura e le piante che abbiamo nelle nostre foreste curiamo tutto: la pigrizia, l’asma, la mancanza d’intelligenza e la cattiva circolazione”, ha detto.

Poi gli ho chiesto cosa lo preoccupasse di più e mi ha parlato della droga. Nei primi tre mesi di quest’anno le autorità hanno sequestrato più di trenta tonnellate di cocaina. Panamá è un punto di transito per gli stupefacenti che vengono dalla Colombia e sono diretti negli Stati Uniti. “Quando sono inseguiti dalla polizia, i narcotrafficanti gettano il loro carico in mare. I nostri giovani trovano questi pacchetti e li vendono. Cominciano a consumare e a spacciare, non vogliono studiare e neanche lavorare. Gli piacciono i soldi facili”, ha detto Devis.

Mi manca la natura. Ho contato ventun alberi su tutta l’isola. Mi sento soffocare e fa molto caldo. Sono preoccupata per il bagno.

La Barriada, dove saranno progressivamente trasferiti gli abitanti di Gardi Sagdub. Marzo 2024 (Luca Zanetti)

Perché ho dato per scontato che a Gardi Sugdub ci sarebbero stati dei bagni ecologici o delle fosse settiche? Il bagno è una latrina protetta da pezzi di legno o di zinco arrugginito. Di solito è vicina alle case, dove sono parcheggiate le canoe. In questo modo si può vedere cosa fa il vicino e viceversa. Mi colpisce la sopravvivenza dei pesci: sono ancora bellissimi e nuotano come se stessero meditando, nonostante la materia fecale e la spazzatura che gli riversano addosso.

A Gardi Sugdub tutto finisce in mare. Non riesco ad andare in quei bagni. Dovrò mangiare pochissimo. Quando chiedo a Rosa se c’è un’alternativa, distoglie lo sguardo. “Qui viviamo così”, dice.

Cerco di capire i guna. Sono sopravvissuti alla conquista spagnola, all’isolamento, agli uomini d’affari e alle malattie. Sono chiusi, diffidenti. E sono rimasti in pochi: 62mila.

Dopo una notte quasi insonne e una colazione a base di pane e caffè, usciamo con Leo per intervistare il preside della scuola che sta sprofondando. L’edificio è pieno di crepe, i pavimenti sono corrosi dalle onde e i muri scrostati. Seicentocinquanta studenti fanno lezione in due turni: mattina e pomeriggio. Molti arrivano da altre isole.

Uno degli insegnanti mi spiega che c’è un problema di malnutrizione. L’isola dipende dal turismo. I guna pescano e coltivano poco, importano cibo spazzatura e molti alimenti in scatola. I bambini si ammalano, dormono male e a questo si aggiungono spesso problemi familiari. Il livello di apprendimento, soprattutto in matematica, è davvero basso. I giovani non sognano di cambiare vita o fare carriera. Vogliono semplicemente dedicarsi al turismo.

Rievocazione storica

Il mio collega Luca è di cattivo umore da stamattina, perché non è riuscito a scattare foto. Le donne si coprivano il volto, gli uomini lo guardavano con aria accigliata e le madri proteggevano i figli. Volevano soldi.

Rosa e il marito don Leo nella nuova casa alla Barriada (Luca Zanetti)

Poi all’improvviso, un miracolo. Nella piazza centrale, dove di pomeriggio i giovani giocano a calcio e a pallavolo, alcune persone issano la bandiera gialla, rossa e verde dei guna con una svastica rovesciata al centro. Leo mi spiega che la svastica in sanscrito significa fortuna, benessere. Era usata cinquemila anni fa, ben prima del nazismo. “Qui l’abbiamo adottata 99 anni fa, quando c’è stata la rivoluzione guna, che oggi ricorderemo con una rappresentazione”, racconta.

Il riferimento è alla rivolta popolare del marzo 1925, quando i nativi si ribellarono alle autorità panamensi che volevano occidentalizzarli. La pace fu raggiunta con la mediazione, tra gli altri, di due statunitensi: il ministro John G. South e l’antropologo Richard Marsh. Grazie a quell’accordo, i guna ottennero la loro autonomia.

“Tu, fotografo”, li sento dire a Luca. “Interpreta Marsh. Devi dire: ‘No more war’, basta con la guerra”.

A quel punto gli mettono un cappello, alcuni si vestono da guardie coloniali panamensi, altri da guna arrabbiati. Un albino interpreta il ruolo di South. Marsh era anche un fotografo così Luca tira fuori la sua macchina fotografica. Siamo molto fortunati.

Navi di lusso

Abbiamo deciso di lasciare Gardi Sugdub. Vogliamo vedere le isole pubblicizzate da Tripadvisor. Sulla barca ci sono tre turisti: un olandese, la cui sfida in questo momento della vita è scattarsi foto da postare su Instagram nei luoghi più paradisiaci del mondo; una poliziotta canadese, giovane e snella che vuole sfuggire all’inverno; una madre argentina con il figlio e il nipote, stanca dei problemi politici del suo paese.

Luis Ortiz ci porterà sull’isola Aroma, a venti minuti da Gardi Sugdub. Trascorriamo il pomeriggio nuotando nel mare più “uterino” che abbia mai sentito in vita mia. L’acqua è tiepida. I coralli sono sbiancati per l’aumento delle temperature. Faccio il giro dell’isola in venti minuti. I turisti, in gran parte europei, dormono in comode capanne, si abbronzano sulle sdraio bianche e contemplano la vita. Non ci sono rifiuti, non c’è rumore, tutto è organizzato e pulito. C’è una gran pace.

Decidiamo di ordinare un coco loco, una noce di cocco al cui interno viene versato del rum, per vedere se riusciamo ad anestetizzarci e a dormire tutta la notte. Costano otto dollari. “Non possiamo prepararvene nemmeno uno”, ci dicono. “Perché?”, chiediamo noi, guardando le palme piegate dalle noci di cocco. “Tutto prenotato”, ci rispondono. La mattina dopo capiamo il motivo. Alle dieci arriva una nave da crociera di lusso, la Star Pride. L’isola è stata noleggiata tutto il giorno per trecento persone. Il cibo arriva dalla nave: anatra, pollo, manzo, sushi, champagne, birre, gelati, ma anche lettini per massaggi e massaggiatori.

Erika, la rappresentante di Transshipping Agents (un’azienda che offre servizi a yacht e navi), ci spiega che ogni passeggero ha pagato 21mila dollari per passare una settimana in questi mari cristallini. Ogni mese a San Blas approda una nave da crociera di lusso, senza contare le migliaia di barche a vela e altre imbarcazioni private. Tutti pagano una tassa d’ingresso. Sono piccole fortune per i guna. Alle cinque di pomeriggio torniamo a Gardi Sugdub.

“Quando ero piccolo desideravo che arrivassero quelle navi”, mi dice Ortiz all’improvviso. “Negli anni settanta i turisti uscivano sul ponte e ci lanciavano dollari e monetine. Io mi tuffavo come un pazzo per raccogliere i soldi sul fondale. A volte riuscivo ad accumulare cinque dollari. Il turismo ci ha fatto molto male”.

La sera, dopo aver mangiato il dule masi, una zuppa di pesce con latte di cocco e manioca, beviamo qualche birra con Leo e Luis Ortiz. I bambini di Gardi Sugdub non devono chiedere il permesso per entrare in casa d’altri. Arrivano, giocano a nascondino sul molo del vicino, vanno a caccia di anguille. Sono i figli dell’isola, di tutti.

Le serate sono allegre perché i bambini ridono e gli adulti bevono; a volte c’è musica e si raccontano delle storie. Incontriamo anche Albertino Devis, il presidente della Barriada. Secondo lui ci vorranno almeno due anni prima che tutti lascino Gardi Sugdub. I primi ad andarsene a giugno di quest’anno, per occupare le trecento case, sono state le donne e gli anziani.

Rosa si siede accanto a me e comincia ad attorcigliarmi perline verdi e gialle intorno al polso. “Non è mai la stessa mano a darti la gioia. Oggi è una, domani un’altra, un’altra ancora ieri”. Non aggiunge altro.

Il giorno dopo andiamo alla Barriada, molto vicino al porto dove ci siamo imbarcati il primo giorno. La visita m’intristisce. Non c’è una recinzione e non ci sono riflettori, ma da lontano il terreno dove sono state reinsediate le prime trecento famiglie di Gardi Sugdub (si stima che in totale saranno 28mila gli sfollati dalle isole) sembra una prigione.

Ogni casa misura nove metri per otto. Ha due camere da letto, una cucina che funziona anche da soggiorno e un bagno. I prefabbricati beige sorgono uno accanto all’altro. Sembra un sobborgo statunitense triste, dove manca tutto: la rete idrica, l’elettricità, un centro sanitario, i pali della luce, i negozi, le fognature, i servizi di raccolta dei rifiuti.

Nel 2010 la comunità ha accettato di trasferirsi e nel 2017 il ministero dell’edilizia abitativa panamense si è impegnato a costruire le case. Nel 2023 l’ong Human rights watch ha realizzato un rapporto basato su più di quaranta interviste con appartenenti alla comunità di Gardi Sugdub, autorità locali e persone che conoscono la situazione. Nel documento si legge che “i continui ritardi del governo di Panamá sono una minaccia per i diritti delle persone, sia durante il processo di trasferimento sia nella nuova sede prevista, anche se alcuni aspetti del ricollocamento sono esemplari”.

Mentre passeggiamo con Diego nella nuova scuola – è pronta e ha palestre, aule magne, banchi, spazi per fare l’orto, camere per insegnanti e studenti – comincio a sentire la mancanza di Gardi Sugdub. Ho nostalgia del mare, anche se pieno di rifiuti, e delle donne che nelle strade labirintiche cuciono molas, giocano con i figli e ridono.

All’improvviso capisco il senso della frase scritta sulla casa del sahila: “Il popolo che perde la sua tradizione perde la sua anima”. ◆ fr

Alejandra de Vengoechea è una giornalista colombiana. Ha scritto il libro Mujeres que dicen verdades (S Libros 2014). Luca Zanetti è un fotogiornalista svizzero, che vive tra Zurigo e la Colombia. Il testo di queste pagine è stato aggiornato dall’autrice per tenere conto dei primi trasferimenti di persone sulla terraferma.

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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 150. Compra questo numero | Abbonati