Ho incontrato il mio primo fantasma quando avevo otto anni.
Abitavamo a Schofield Barracks, una base militare costruita nel 1908 per difendere quello che all’epoca era un nuovo territorio degli Stati Uniti, le Hawaii. Ero andata a dormire da un’amica nella casa del colonnello, che a differenza della nostra bifamiliare in calcestruzzo era un bungalow indipendente con un cortile al centro. La struttura comprendeva anche un alloggio per la servitù con un bagno separato, che la famiglia usava come sala giochi. Queste vecchie stanze erano perfette per giocare a “facciamo finta”: l’architettura dei fabbricati portava l’impronta delle generazioni precedenti, i fantasmi di chi aveva servito le famiglie dei militari come la nostra.
Avevo paura degli alieni, di Abraham Lincoln, di lord Voldemort, di Gesù e del buio. Quella notte non riuscivo a dormire, e avevo paura di rimanere sveglia da sola in quella vecchia casa. Fissavo nell’oscurità e ascoltavo la mia amica che respirava lentamente. Da un angolo sentii schioccare la lingua di un geco. La mia pallida, spettrale halmoni, la mia bisnonna, comparve in piedi accanto a me e mi posò la mano sulla fronte finché non mi addormentai.
Quando venne a farmi visita quella notte, era morta da tre anni. Era mancata all’improvviso e in modo violento per una ferita d’arma da fuoco; mia madre aveva 27 anni quando tornò in Corea per pulire il sangue dal pavimento del negozio che era appartenuto ai suoi genitori.
Io e mia madre parliamo dei nostri incontri con i fantasmi in modo molto prosaico. Anche lei ha visto il suo primo fantasma quando era bambina, durante una jesa, una cerimonia coreana di commemorazione dei morti. Il tavolo basso era pieno di frutta e pesce essiccato, riso e soju offerti in dono agli antenati defunti, e quando i presenti li invocarono mia madre vide i suoi nonni, trasparenti e bianchi, pronti a unirsi alla congregazione.
Una volta una donna fermò mia madre al supermercato e le disse che aveva la capacità di parlare con i morti. “È un potere che se voglio posso sviluppare anch’io”, si vantò mia madre. Ma non voleva. Le bastavano le sue quotidiane attività da medium. Ancora oggi interpreta i miei sogni e mi chiama in base alle sue sensazioni, incredibilmente esatte, sul mio umore o il mio livello di ansia.
Quando avevo diciott’anni, i miei genitori mi trascinarono a una cena in una casa bianca e splendente in cima a una collina a Oahu. Gli invitati, un gruppo di ufficiali accompagnati da consorti e figli, erano radunati nel giardino sul retro, che dominava dall’alto le abitazioni diroccate del quartiere povero lì vicino.
Mi misi a sgranocchiare cracker con il salame e a conversare con gli adulti, quando a un tratto sentii un’agitazione che s’impadroniva di me, offuscando lentamente la mia visione di quella casa dai soffitti alti, la frutta tagliata di fresco e i bambini precoci. Non riuscivo a individuare la fonte della mia inquietudine. Non sapevo nemmeno esprimere esattamente cosa provavo. Avevo però la distinta sensazione che non fossimo in un luogo benevolo. Tenevo gli occhi fissi sui miei genitori, scongiurandoli in silenzio di tornare presto a casa.
In macchina, al ritorno, dissi che la festa mi era sembrata strana. I miei genitori guardavano avanti, in silenzio. Poi mia madre confidò che aveva avuto la stessa sensazione. La proprietaria le aveva fatto fare un giro della casa vantandosi di aver fatto un affare comprandola perché l’anno prima era stata pignorata. Era il 2010, e le Hawaii erano uno degli stati con il più alto tasso di espropri dopo la crisi economica del 2007-2008.
“Mi ha portato in giardino e ho avvertito un’oscurità in un angolo. Mi ha detto che l’anno prima la ex proprietaria si era suicidata proprio in quel punto”, disse mia madre. Il corpo era rimasto lì per ore prima che lo ritrovassero. “Se sapessi una cosa del genere non ci vivrei mai”, disse mia madre. “Lei invece continuava a dire che era stato un grande affare”.
Non tornammo più in quella casa.
Per me i fantasmi sono qualcosa di chiaramente coreano, qualcosa che ho sempre condiviso con mia madre. Dopo aver trascorso l’infanzia alle Hawaii, dove i miei compagni di classe mi definivano una haole, una “bianca” (e io ci credevo), mi sono avvicinata alla mia identità coreana con trepidazione, frenata da una serie di voci nella mia testa – di compagni, amici, dei miei stessi familiari – che ripetevano che la mia coreanità era soltanto una caratteristica, come essere mancina o avere i capelli castani. Perciò ho sempre cercato dentro di me una caratteristica che potessi confrontare con quella di mia madre per dire che sì, avevamo qualcosa in comune. Qualcosa di coreano.
In Haunting the korean diaspora, Grace M. Cho parte dal lavoro di Nicolas Abraham e Maria Tolok sul trauma intergenerazionale per rintracciare i fantasmi che infestano la diaspora coreana: “Un trauma indescrivibile non muore con la persona che lo ha vissuto per prima. Prende una vita propria, affiorando dagli spazi dove vengono celati i segreti”. I fantasmi nascono dal silenzio, dalla dissimulazione, dalla vergogna.
Cho scrive di un fenomeno fantasmatico che si manifesta nelle province di Gyeongsang, una regione che “ha il ‘dubbio onore’ di aver sperimentato non solo il più alto numero di massacri civili compiuti dall’esercito statunitense durante la guerra di Corea, ma anche la più alta concentrazione di ragazze ridotte in schiavitù sessuale dall’esercito giapponese durante il periodo coloniale”. Secondo una credenza popolare, i corpi di queste ragazze sotterrati avrebbero modificato la composizione chimica dell’ambiente circostante, creando per autocombustione piccole esplosioni di luce spettrale che rilasciano nell’aria l’han, il concetto coreano di disperazione intergenerazionale.
Il mio haraboji (nonno) era cresciuto a Kaesong, una città che oggi si trova in Corea del Nord. Era nato negli anni trenta sotto il colonialismo giapponese, e da piccolo lo avevano costretto a parlare giapponese in pubblico e a scuola. Nel 1945 suo padre gli disse di fuggire insieme ai fratelli nella città di Daechon, a sud, dove sarebbero stati più al sicuro. Aveva undici anni. Partì a piedi con i suoi due fratelli e le sue due sorelle. A un certo punto si separarono, e fece gli ultimi trecento chilometri a piedi da solo.
Come riuscì a sopravvivere? Trovò un amico lungo la strada che restò di guardia mentre lui dormiva? Una donna strana e gentile lo prese a cuore e gli diede un po’ del suo riso? Cosa vide di tanto terribile da esserne perseguitato per il resto della sua vita?
Il mio haraboji non parlava mai del suo viaggio verso sud. Non parlava di come la sua famiglia era stata separata dal 38° parallelo, una linea tracciata dai governi esteri che rendeva suo padre straniero e cittadino di uno stato nemico. Però beveva. E maltrattava mia nonna, mia madre e mio zio, l’unica famiglia intatta che gli rimaneva.
Il mio haraboji è morto a capodanno del 2017. L’ho saputo quando mia sorella minore mi ha chiamato negli Stati Uniti in preda al panico. All’epoca il nonno viveva in Corea, e nostra madre aveva riallacciato i rapporti con lui solo da qualche anno. La sentivo gemere in sottofondo. Era una disperazione totale, inaudita. Come se ci fosse qualcosa che le era rimasto intrappolato dentro ed era stato liberato contro la sua volontà. Quando è venuta al telefono sembrava una bambina alla ricerca di un conforto che non potevo darle.
Mia madre andò via di casa a 22 anni. Incontrò un soldato statunitense mentre lavorava in un negozio alla Yongsan Garrison, la base militare dove era di stanza mio padre.
Ho sentito la storia dell’incontro fortuito dei miei genitori un milione di volte. Mia madre la racconta alle feste, passandone in rassegna i momenti salienti tra una risata e un bicchiere di vino e l’altro: la sera in cui si conobbero, gli amici con cui erano, il primo appuntamento per andare al cinema a vedere Il re leone. Ora mi rendo conto che è una delle poche storie del suo passato che è disposta a condividere con le nuove conoscenze. È come se la raccontasse per evitare di sentirsi fare delle domande alle quali non vuole rispondere.
Le coreane che offrivano i loro servizi sessuali ai soldati statunitensi, spontaneamente o no, erano chiamate yanggongchu, un termine usato in senso spregiativo anche per indicare le donne coreane che quei soldati poi li sposavano. Cho sostiene che la yanggongchu è un fantasma che conserva “segreti sui traumi della guerra. E in molti casi sul suo passato”.
La cultura della vergogna e del segreto che circonda il lavoro sessuale non permette di stabilire quante donne coreane lavorassero come yanggongchu o, nella generazione precedente, come wianbu, le “donne di conforto” dei soldati giapponesi. So però che questo mestiere è talmente diffuso che mia madre dice che tra le mogli coreane dei soldati statunitensi parlare del passato è severamente proibito, a meno che non sia la diretta interessata a introdurre l’argomento. La probabilità che una donna abbia conosciuto il marito attraverso il lavoro sessuale è semplicemente troppo alta. “È una porta chiusa”, dice mia madre.
Dopo che i miei genitori si sposarono si trasferirono in Kansas, negli Stati Uniti, dove sono nata. Mia madre aveva 23 anni e si sentiva sola, perciò quando ci trasferimmo in Colorado, a Fort Carson, fece amicizia con un gruppo di mogli coreane non molto più vecchie di lei, che avevano figli che mi somigliavano: avevano gli stessi capelli rivelatori color castano miele che abbiamo quasi tutti da piccoli. Se ne stavano sedute a fumare, e una volta, tra un tiro di sigaretta e l’altro, le chiesero da dove veniva. “Oh, sono di Seoul”, rispose lei, un po’ confusa, perché aveva già parlato al gruppo dei suoi trascorsi in Corea. “Ma no”, le dissero, alzando gli occhi al cielo. “Da che circolo vieni? Dove hai conosciuto tuo marito?”.
Scrivere della mia identità coreana è sempre stata un’esperienza tormentata e carica di inquietudine per via del mio tenue rapporto con il passato dei miei genitori e la loro scarsa disponibilità a parlarne. L’ambivalenza che provo come donna coreana che si rispecchia pienamente in questa definizione riguarda anche il lavoro di esplorazione del trauma della diaspora. In The indebted, dalla sua raccolta di saggi Minor feelings, Cathy Park Hong scrive: “Un tempo pensavo che avrei lasciato uno spazio vuoto per il mio dolore invece di farne una facile sintesi per il consumo. Attraverso la prosa, sto scompigliando quel silenzio per provare ad anatomizzare i miei sentimenti rispetto a un’identità razziale che, da scrittrice, ancora non riesco a esaminare senza il timore di essermi piegata al mio riserbo”.
È nel silenzio che crescono i fantasmi del trauma intergenerazionale. Vivono tra le parole non dette, tra le storie non raccontate e il dolore non elaborato.
Documentare queste storie – chiedere a mia madre cosa sa del viaggio di suo padre a sud, se ha mai sentito la parola yanggongchu, se è per questo che non aveva molte amiche coreane – è un modo per esorcizzare l’influenza che i fantasmi hanno su di me, su di noi. Un modo per creare delle piccole esplosioni di luce spettrale e lasciare libere le storie. ◆ fas
Alex Sujong Laughlin è una scrittrice e audio producer. Vive a New Haven, nel Connecticut, Stati Uniti. Questo articolo è uscito sulla rivista statunitense Harper’s Bazaar con il titolo My korean mother and I speak to the dead.
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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati