Le domeniche pomeriggio ero ospite di Madame Anna. Le compravo sempre un piccolo mazzo di fiori di stagione dal fioraio Palace. Quando apriva la porta mi porgeva la guancia. La baciavo e le tendevo i fiori. Madame Anna li prendeva esclamando: “Che belli!”, poi andava a disporli nel vaso.
Attraversavo il breve corridoio fino a raggiungere la camera da letto, che era anche la sala dove riceveva gli ospiti. Mi sedevo al tavolo tondo marrone su cui era stata sistemata una tovaglia della stessa forma. Le tovaglie venivano cambiate ogni settimana. Su di esse erano ricamate o cucite a punto croce rose, viole e crisantemi o, come diceva Madame, chrysanthèmes.
Mi accomodavo sempre sulla sedia bassa di Madame e guardavo la radio dai tasti d’avorio o il grammofono, finché lei non entrava con un vassoio e due tazzine colme di caffè turco bollente
Accanto al tavolo c’era un letto che di giorno era usato come divano. Il copriletto, sempre inamidato e dalle pieghe perfette, era pieno di cuscini colorati e bambole di ogni tipo tra cui, a detta sua, quella nera era la più bella di tutte. Non mi sedevo mai sul divano letto di Madame Anna, ogni volta temevo di rovinare il copriletto e di stropicciare la parte plissettata che pendeva. Avrei lasciato la mia impronta e le bambole, che stavano sedute tranquille, sarebbero cadute in continuazione, finendo gambe all’aria.
Mi accomodavo sempre sulla sedia bassa di Madame e guardavo la radio dai tasti d’avorio o il grammofono, finché lei non entrava con un vassoio e due tazzine colme di caffè turco bollente coperto da una schiuma densa. Insieme alle tazzine portava due bicchieri d’acqua fredda.
“Mi sono seduto di nuovo al suo posto, mi perdoni”.
“Nessun problema, giovanotto! Non è facile per lei sedere sul letto”.
Sorrideva. Appoggiava sul tavolo le tazzine con vicino il bicchiere d’acqua.
“Favorisca”.
Me ne accorsi per la prima volta dopo qualche settimana, mentre rigiravo la tazzina per leggere il fondo del caffè. Madame amava leggermi i fondi del caffè. Ne era caduta una goccia su uno dei fiori ricamati sulla tovaglia. Mortificato, mi misi alla ricerca di un tovagliolo.
Madame esclamò: “Non si preoccupi, giovanotto”, e prese un fazzoletto dal polsino della camicia. Lo inumidì con la lingua e pulì la macchia. Volevo scusarmi, ma mi accorsi che quel fiore ricamato non era uguale agli altri né era sulla stessa linea. Era un fiore minuto e sembrava servisse da rammendo a un piccolo strappo. Poi guardai più attentamente e scoprii che c’erano altri fiori più piccoli.
“Dopo il caffè, si passa al tè e al dolce. Ho preparato anche la composta. Ho pure la marmellata. Porto tutto”.
Accanto alla tazzina di Madame Anna c’era il suo pacchetto di sigarette e una conchiglia rotta che usava come posacenere. Dietro al letto c’era una parete verde con una grande fotografia di una giovane donna che si diceva fosse una sua amica o non so chi. Una volta le domandai: “È lei in quella foto?”. Lei rispose: “No, è una mia amica di gioventù, Nina, a cui tenevo molto”. E immediatamente esclamò: “Beve il tè?”, o qualcosa del genere.
“È molto bella”.
“Lo era”.
Madame aveva una casetta a due piani. Io ero l’inquilino del piano superiore, ero appena arrivato a Teheran. La casa era in un vicolo di via Qavam ol-Soltaneh. Lei occupava il piano inferiore. Leggeva i fondi di caffè e teneva corsi di danza, di francese, di russo ma negli ultimi tempi, in cui si era ammalata, li aveva sospesi tutti. Viveva del mio esiguo affitto e probabilmente anche del denaro di un paio di persone che ogni tanto andavano a imparare il francese o a farsi leggere il futuro.
Suonavo il suo campanello ogni mattina. Non apriva.
“Non ho un bell’aspetto”, diceva.
“Non serve niente?”, domandavo.
Se voleva qualcosa, gliela compravo nel pomeriggio quando tornavo a casa. Il modo di Madame Anna per ringraziarmi di quei piccoli favori – all’inizio erano solo delle commissioni a cui, a poco a poco, si sono aggiunte delle piccole riparazioni, fino a spostare uno scatolone da una parte all’altra della stanza – erano le domeniche pomeriggio.
Con il tè dovevo assolutamente mangiare la composta e assaggiare le varie marmellatine. Lei mi fissava finché non esclamavo: “No, ottima davvero, è perfetta”. Sollevava le sopracciglia disegnate con la matita. Le rughe accanto agli occhi e sulle tempie si distendevano, la chiostra della protesi dentaria appariva tra il rosso delle labbra mentre diceva: “Oh”. Dopo di che, intingendo il cucchiaino da tè in argento nella marmellata, diceva: “La provo io”. Dopo tè e marmellata era il turno delle solite chiacchiere. Per esempio, le raccontavo di aver ricevuto una lettera dalla mia famiglia, o quanto fosse freddo e gelido il clima quell’anno, o le dicevo che film proiettavano al cinema Mayak. Quando le nostre chiacchiere abituali volgevano al termine, Madame Anna diceva: “Su, giochiamo un po’ a carte. Mi sto annoiando”.
Si alzava, passando vicino allo specchio a figura intera e al grammofono sempre scintillante. Rifletteva un istante ed esclamava: “No, dopo”. Prendeva un mazzo di carte dall’armadio e diceva: “Adesso…”. Caricava il grammofono, sostituiva la vecchia puntina con una nuova e metteva un disco. “Ascoltiamo”.
Fu quel giorno che le dissi: “Madame, questi fiorellini sulle sue tovaglie sembrano ricamati su un ricamo precedente”.
“Come, giovanotto?”.
“Così. Perché… sembra che… questi… non saprei! Come se fossero più antichi… sono stati rammendati?”.
“Queste tovaglie sono della mia amica Nina, ma i fiorellini li ho ricamati io. Mi ha regalato tutti i suoi strumenti e se n’è andata”.
Poi esclamò: “Tu però non sai suonare il flauto. Un ramino a due in fin dei conti non è male”.
Mi ero voltato a guardare la fotografia di Nina.
La prima mano la vinsi io.
Madame prese una sigaretta dal pacchetto. Le porsi un fiammifero. La seconda mano la vinse lei.
Mi domandò se bevessi il tè, le risposi di no.
“Vado a prendere i piroshki”.
Si alzò. Quando appoggiò la sigaretta, cadde della cenere. La raccolse dalla tovaglia con il fante di picche.
“Domani dovrò lavarla”.
Insieme al tè dovevo assolutamente mangiare la composta e poi assaggiare le varie marmellatine. Mi fissava finché non esclamavo: “No, ottima davvero, è perfetta”
Madame Anna non portava anelli. Spense la sigaretta. Con la punta dell’unghia tolse due o tre fili di tabacco che le erano rimasti sulla lingua e con l’altra unghia li gettò nel posacenere.
“Vado a prendere i piroshki”.
La musica si propagava. L’acqua riempiva il bicchiere a metà.
Le carte da gioco erano sparse sul tavolo. La cenere aveva sporcato la tovaglia. Un fumo sottile si levava ancora dalla sigaretta, la cui carta bruciava a intermittenza.
Si sentiva la puntina del grammofono stridere sul disco.
Mi alzai per andare al grammofono. Vicino c’era una fotografia incorniciata di Madame Anna o, come diceva lei, si vedevano le ragazze del corso di foxtrot.
Sollevai la puntina. C’erano molti dischi nel cassetto accanto al grammofono. Li presi uno a uno: Alberta Alberta per il foxtrot, Louisiana per chi volesse ballare la rumba, Mamy dream e Certeza per chi preferisse il tango.
Madame Anna disse: “Quando si balla il tango gli uomini pestano i piedi alle donne”.
Mi voltai.
“Suvvia, lo finisca finché è caldo. Nessuno conosce più questi balli. Forse al giorno d’oggi solo Fred Astaire ed Esther Williams in quel capo del mondo, e io qui in Iran”.
Comprò un samovar, un braciere, un paio di bellissimi arazzi provenienti da Alessandria. Erano molto morbidi. “Come la seta”, diceva Nina. Avevano lo sfondo rosso, con personaggi che indossavano lunghe vesti bianche e fez verdi e rossi. Squisitamente orientali
Neanch’io avevo voglia di impararli e questo la rallegrava. Era un’ottima cosa. Tutti gli altri pensionnaires – come diceva Madame – volevano imparare a ballare, tranne me. Proprio per questo mi toccavano le domeniche pomeriggio. Spensi il grammofono.
Appoggiò un altro vassoio sul tavolo. Un piatto per me, uno per lei.
“Mangia con le mani o con le posate? Abbiamo dei piroshki al formaggio, alla carne, al formaggio e spinaci. Prenda pure quelli che vuole. Questi tre sono alla carne. Mangi, prima che si raffreddino, fuori si gela. Mangi, così poi giochiamo un’altra partita”.
“D’accordo”.
“No, scusi”, disse, e ripose le tazzine e i bicchieri nel vassoio.
Prese i vassoi e li appoggiò sul letto. Raccolse le carte, tolse la tovaglia e la portò via. Dopo qualche istante tornò con un’altra tovaglia.
“Chiedo scusa”.
La sistemò. Mise i vassoi e le carte sul tavolo.
“Nina si arrabbiava. Tutti questi li ha fatti lei”.
“Sembra che abbia molto a cuore Nina”.
Addentai uno dei piroshki.
“Molto. Ho molti ricordi di lei. Finché non è sparita”.
“È sparita?”.
“Dopo la morte di suo marito, è scomparsa senza lasciare traccia”.
“Nemmeno una lettera, un saluto, un ricordo, niente?”.
“Niente. Quando arrivò in Iran trovò lavoro a Teheran. Era giovane e bella. Lavorava in via Lalezar dalla mattina fino alle cinque del pomeriggio come assistente del dottor Mammadov, che era arrivato da Badkhubeh. Lavava i malati con il permanganato o sterilizzava gli aghi. Faceva i massaggi ad alcuni pazienti, poi andava al caffè Jaleh. Là era pieno di stranieri, di persiani ce n’erano pochi. C’erano bulgari, ungheresi e russi. Fu lì che conobbe Mila. Era un giovane ingegnere. Non gli importava di niente, si faceva i fatti suoi. Si era trasferito a Teheran per l’azienda Škoda e non si sapeva dove dovesse andare a lavorare. Nina raccontava alle amiche che si sedeva sempre in fondo al caffè. Spingeva lo schienale della sedia così indietro che solo le gambe posteriori poggiavano a terra. Le altre due gambe della sedia e le sue restavano sospese a mezz’aria. Si accendeva una sigaretta e dispensava sorrisi a tutti. Specialmente a Nina, che capiva la sua lingua. A poco a poco, Nina aveva cominciato a servirgli la cena. Finché una sera, dopo avergli appoggiato il piatto sul tavolo e chiesto: ‘Vuole altro?’, lei stava per girarsi, ma lui le afferrò il polso. Mila si sbilanciò e le gambe anteriori della sedia picchiarono forte contro il pavimento. Un paio di avventori seduti ai tavoli vicini si voltarono a guardarli. Mila le domandò: ‘Vieni con me nella piana di Mughan, Nina?’. ‘E perché dovrei?’, ribatté lei. Mila le rispose: ‘Perché mi piaci’. E Nina accettò: ‘D’accordo, vengo con te’. Ciò che accadde quella notte fino al mattino dopo non te lo racconto perché sei troppo stanco, giovanotto. I piroshki si sono pure raffreddati. Comunque per quella sventurata di Nina, fuggita dal suo paese, fu una grande opportunità. Disse al dottore di trovare una sostituta e passò il pomeriggio a cercare le cose per il corredo tra i negozi di via Naderi e via Ala od-Dowleh o – come la chiamano oggi? – via Ferdowsi. E anche su viale Eslambol. Comprò un samovar, un braciere, un paio di bellissimi arazzi provenienti da Alessandria. Erano molto morbidi. ‘Come la seta’, diceva Nina. Avevano lo sfondo rosso, con personaggi che indossavano lunghe vesti bianche e fez verdi e rossi. Squisitamente orientali. Quando salirono sull’auto che doveva portarli alla piana di Mughan, erano già sposati”.
“Erano andati in chiesa?”.
“Si erano sposati. Avevano un baule, ora non ricordo bene con cosa Nina l’avesse riempito, e due valigie di vestiti. Addio, Nina. Ma tu, giovanotto, mangia questi piroshki. Nel baule, a parte ciò che ho detto, c’erano del cotone bianco di Russia, del filo colorato, un ago, una scatola di bottoni, una siringa, piatti, forchette e cucchiai”.
“Madame, si è fatto tardi. Con il suo permesso…”.
“Anche se andiamo a dormire un po’ più tardi stanotte, che vuoi che sia… Siamo arrivati a metà strada! Il ricordo della mia amica Nina, la sua fisionomia, le mani con le vene blu in rilievo, è come se fosse qui davanti a me adesso”.
Non dissi una parola.
“Per arrivare alla piana di Mughan la strada era lunga. Nina appoggiava la testa sulle spalle di Mila e si addormentava. Quando si svegliava diceva: ‘Non siamo ancora arrivati?’. Attraversarono Qazvin, Zanjan, Tabriz e Mianeh dormendo a tratti, finché non raggiunsero la piana di Mughan. Mila disse: ‘Siamo arrivati’. E Nina: ‘Dove?’. Mila: ‘Dove dovevamo arrivare’. E Nina: ‘E quindi, dov’è casa nostra?’. Mila: ‘Non lo so ancora nemmeno io’. L’auto si fermò davanti a un edificio di legno. Mila disse: ‘Sta’ seduta qui che arrivo’. Scese dall’auto e s’incamminò verso la casa di legno. Dopo qualche istante un gruppetto di giovani donne e bambini che ridevano, con tutto un seguito di anatre, tacchini, galline e galli, si diresse verso Nina. Le domandarono: ‘Sei tu la moglie del signor Nikolovski? Scendi, fatti vedere!’. Nina non sapeva cosa fare: sistemarsi i capelli o coprirsi il volto con la mano? Semplicemente, sorrise. Aprì la portiera e domandò alle donne: ‘Qui dove siamo?’. Li sistemarono in una stanza dell’edificio di legno che scricchiolava quando camminavi e appoggiarono il baule in mezzo a una stanza. Una signora disse: ‘Piccioncini, voi avete da fare, eh?!’, chiuse la porta e se ne andò. La stanza era piccola. Nina disse: ‘Ma non c’è il letto!’. Mila rispose: ‘Lo farò preparare’. Nina aprì il baule e tirò fuori gli arazzi dicendo: ‘Non abbiamo nemmeno una credenza dove riporre i piatti, i bicchieri e la scatola da cucito’. Richiuse il baule, ci si sedette sopra e disse a Mila: ‘Se solo non fossimo mai venuti qui’. E scoppiò a piangere a dirotto. Lui rispose: ‘Almeno appendi gli arazzi’, e le si avvicinò. Le accarezzò i capelli, le prese di mano gli arazzi e li stese sul pavimento. I due ci dormirono sopra abbracciati. Furono svegliati dal cigolio della porta. Erano le vicine che chiedevano: ‘Nina, tesoro, ancora non hai visto dove sono la cucina, il lavabo e la toilette? Quando esci, colombella?’. Quando fu sera gli uomini tornarono dal lavoro. Si sedettero tutti a un lungo tavolo di legno con le panche all’esterno dell’edificio, e mangiarono e bevvero in onore dei giovani piccioncini. Gli animi si scaldarono e così si dimenticarono di far rientrare nell’aia le galline e le anatre, che gli scorrazzavano tra i piedi. Venne il momento della fisarmonica, del violino, dell’organetto, dei sorrisi e dei balli. Tutti alzavano i calici per brindare alla salute della giovane coppia. Dopo il kazačok e il rasbal, fu il turno del valzer. I bambini si erano addormentati in un angolo sulle panche e le galline dormivano con gli occhi aperti. Gli uomini tenevano il braccio sulle spalle delle mogli. Le donne fissavano un punto in lontananza. Sfioravano piano le dita dei mariti. Nina disse a Mila che aveva freddo. Lui disse: ‘Balliamo ancora’. La notte era giunta a metà del suo corso quando ognuno tornò alla propria stanza. Tutti rivolsero delle battute a Nina e Mila, Nina sorrideva e nascondeva la testa sul petto di Mila. Due coppie dissero che avrebbero accompagnato cantando i piccioncini fino alla loro stanza. Mila disse: ‘Bene, allora buonanotte’. Nina aprì la porta: al centro della stanza c’era un letto. Le coppie dissero: ‘Buonanotte piccioncini, dormite fino al mattino!’. Chiusero la porta e se ne andarono. Nina aprì gli occhi di mattina presto. Il baccano del viavai, ‘dai su, sbrigati, esci!’, ‘dov’è la mia colazione?’ si diffondeva dappertutto. Svegliò Mila dicendogli che era ora di andare a lavorare. Quando aprirono la porta, tutti gli strinsero la mano. Uno chiese, ridendo forte: ‘Allora, com’è andata?’. Quando fu servita la colazione agli uomini, Nina tornò nella sua stanza. Rifece il letto, appese gli arazzi, chiacchierò con le vicine e preparò da mangiare, fino al rientro di Mila, la sera. Erano tutti esausti, faceva pure freddo. Nina disse: ‘Lavati il viso, che ho preparato l’occorrente per raderti’. Dopo che Mila si fu lavato, rasato e asciugato il viso, le disse: ‘Ora raccontami cos’hai fatto tu oggi’. Nina si sedette sulle sue ginocchia e parlarono finché non andarono a dormire”.
Madame tacque, poi disse: “Ho parlato troppo. Ma quando il ricordo di Nina mi torna davanti agli occhi è come un sipario che pian piano si apre, senza intervallo. Ti ho annoiato, giovanotto”.
Risposi: “Ora questa storia interessa anche a me. Poi cos’è successo?”.
Madame riprese: “Dopo una settimana, nella stanza c’erano un letto, un tavolino con due sgabelli, una piccola credenza, una poltrona per Nina. Faceva freddo. Accanto alla parete avevano messo una stufa con il fumo che usciva dalla finestra. La sera Nina si sedeva sulla poltrona e ricamava il cotone di Russia o cuciva a punto croce alla luce della lanterna, mentre Mila leggeva un libro steso sul letto e tossiva, allora lei gli dava del tè e una pomata alla canfora, che a quei tempi era da poco entrata in commercio, da spalmare sul petto. La sera gli metteva un panno bollente sul torace. Da quando erano arrivati, nei primi giorni d’autunno, erano trascorsi due mesi. Era la fine della stagione. Il cotone di Russia di Nina era finito. Aveva ricamato tre tovaglie tonde con rose e viole, alcuni fazzoletti con gelsomini, sei tovagliette con fiori rosa a cinque petali, altri fazzolettini con le iniziali dei loro nomi. Non c’era più cotone. Nina disse: ‘Mila, fa’ qualcosa, non ne posso più’. Mentre Nina ricamava sui fez degli arazzi per disperazione, a Mila venne la febbre. Adottarono tutti i rimedi di cui le donne erano a conoscenza. Vennero persino i contadini a bruciare i sali d’ammonio. Non funzionò. Mila non respirava bene. L’affanno, la tosse e la febbre aumentarono. Bisognava portarlo in città”.
“Dove?”.
“A Teheran”.
“Sarebbe sicuramente morto prima di arrivare, in quelle condizioni”.
“Ascolta, giovanotto. Andarono a Teheran con un’auto che un’altra coppia gli aveva messo a disposizione. Se non ci fosse stata un’auto, avrebbero usato il camion. Lungo il percorso rimasero bloccati al valico per qualche giorno. Nina disse: ‘Mila, ce ne andiamo e non torneremo più, o meglio, io non tornerò più’. Regalò i piatti, i bicchieri e il baule alle vicine, il letto a una coppia. Prese gli arazzi, i ricami, alcuni effetti personali e i vestiti, e li infilò in una valigia. Sistemarono Mila sull’auto. Accesero un braciere ai suoi piedi in modo che si riscaldasse. Nina si sedette vicino al finestrino. L’autista mise in moto. Nina si affacciò dal finestrino e salutò con la mano le vicine. I bambini corsero dietro l’auto, mentre le galline e i galli, i tacchini e le oche correvano qua e là sbattendo le ali. Fino a Mianeh la strada non era brutta, non incontrarono grandi difficoltà. Ma Mila aveva la febbre. Nina gli bagnava continuamente il viso con un panno e gli pettinava i capelli. Si portava al volto le mani bollenti di Mila per rinfrescarle. Chiedeva in continuazione: ‘Stai bene, Mila? Stai bene, Mila?’, e premeva le sue guance bollenti contro il finestrino ghiacciato dell’auto. A Mianeh non c’era un dottore. Fino a Tabriz nevicò costantemente, rimasero in strada un giorno intero prima di arrivare. Quel giorno armeggiò con le unghie di Mila fino a mezzogiorno: gliele tagliò, gli rimosse le cuticole. Gli massaggiò le dita delle mani. Gli disegnò occhi e sopracciglia con la matita. Mila sorrise, Nina domandò: ‘Stai bene, Mila?’, lui rispose: ‘Sto bene’. I medici di Tabriz dissero che il posto migliore era l’ospedale Shoravi di Teheran, lei assicurò che lo avrebbe portato là e si misero nuovamente in marcia in direzione di Zanjan. Preparò il tè sul braciere. Ringraziava continuamente l’autista”.
“Mila morì, Madame? Sicuramente anche Nina”.
“Porta pazienza. Non si sa. Vuoi che ti prepari un altro caffè? Vuoi che ti racconti il resto della storia un’altra domenica?”.
“Porterò pazienza, Madame. Ma ho freddo, anche noi siamo in mezzo alla neve. Lo bevo volentieri, Madame”.
Il violoncellista si era seduto sul tavolo con lo strumento sulle sue gambe. Il flautista cercava qualcosa di non meglio definito nel flauto. Il fisarmonicista si era addormentato. Il violinista invece continuava a suonare
Mi scaldai.
“Ogni giorno Nina bagnava un panno con l’acqua che bolliva sul braciere e lo metteva sul volto di Mila. Poi preparava la schiuma con acqua, sapone e il pennello da barba e con il rasoio gli radeva il viso. Gli metteva davanti lo specchio e diceva: ‘Guarda come sei ringiovanito! Stai meglio, no?’. Passarono una notte in hotel a Qazvin. Per andare dalla loro stanza alla sala dove servivano i pasti, lo prese sottobraccio. Al contatto con il calore di Mila, il viso di Nina era diventato rosso e bollente. Mila non mangiò nemmeno la zuppa. Non apriva neppure gli occhi, diceva solo: ‘Dormiamo. Un posto fresco, Nina, tesoro’. Delirò da Qazvin a Teheran, farneticava di un cane che gli abbaiava contro e che tirava la gonna di Nina: ‘Corri, corri!’. Lei puliva con la mano il parabrezza e diceva: ‘Guarda, vedi che non c’è nessuno? Ora arriviamo. È tutto innevato’. Mila batteva la testa a ogni scossone dell’auto ed esclamava piano: ‘Ahi, la testa, Nina mia!’. Arrivarono a Teheran che era la vigilia di capodanno. L’auto si fermò all’ingresso dell’ospedale. Anche Teheran era innevata, come tutta la strada che avevano percorso. Nina aprì la portiera e affondò nella neve fino alle caviglie. ‘Fa freddissimo’, disse”.
Madame si alzò, prese dall’armadio lo scialle tessuto a mano e se lo gettò sulle spalle dicendo: “L’autista andò ad aiutare Nina, i due fecero scendere Mila che batteva i denti, stando attenti a non farlo scivolare. Diceva in continuazione: ‘Ni-ni-ni-na, tesoro’. Finché non raggiunsero l’ingresso dell’edificio si sentiva solo il battere di denti di Mila. Aperta la porta, c’era un grande abete addobbato con lucine intermittenti rosse, gialle e verdi. Sotto c’erano Gesù, gli angeli e in cima una stella sfolgorante. Arrivarono due infermiere in loro soccorso. Dopo qualche istante immersero Mila in una vasca d’acqua bollente di colore verde per scaldarlo e disinfettarlo. Poi lo asciugarono, gli fecero indossare un pigiama e lo fecero sdraiare sul letto numero 22. Disse: ‘Farò una bella dormita. Vai pure, Nina mia’, e chiuse gli occhi. E Nina cosa fece, giovanotto? Prese la valigia e andò dritta al caffè Jaleh, quello dove aveva conosciuto Mila. Si pulì i piedi sulla soglia del locale. Quando aprì la porta, i tavoli tondi del caffè erano pieni di clienti, sempre quelli. Un’orchestra ungherese suonava la ciarda. Nina sentì di avere le calze bagnate per la neve e i capelli appiccicaticci e umidi. Gli uomini non la guardarono. Si rallegrò: era a Teheran e aveva portato Mila in ospedale. Dio l’aveva assistita. La camera al piano di sopra era vuota. Non appena prese la chiave corse su per le scale. Aprì la porta, accese la luce e posò la valigia al centro della stanza. Vide un letto, un tavolino, uno specchio dietro alla porta, un armadio e una finestra. Andò verso quest’ultima, aveva le tende bianche e azzurre. Dietro il vetro si vedeva la strada, di tanto in tanto le auto o le carrozze lasciavano solchi sul bianco uniforme. Si avvicinò allo specchio. Udì un vociare e un tintinnare di bicchieri. Tirò un sospiro di sollievo. Aprì la valigia ed estrasse gli arazzi. Sistemò sul tavolo i due egiziani con i fez su cui aveva ricamato. Decise di portarli a Mila perché non provasse nostalgia. Poi tirò fuori le scarpe. Si massaggiò le dita dei piedi e le si bagnarono le mani. Si alzò girando su se stessa. Le feste di fine anno e Teheran. Prese un abito dalla valigia, si tolse quello sgualcito che aveva tenuto per tutto il tragitto e lo gettò sul letto. Indossò il vestito pulito. Affondò le mani nei capelli e li raccolse con un fermaglio. Si sentiva più a suo agio. Si fece un’acconciatura e uscì dalla stanza. Scese le scale. Si fermò sull’ultimo gradino. Non c’era un posto vuoto, i migliori erano già tutti occupati. L’orchestra suonava e alcuni ballavano. Si sedette proprio lì, sulle scale, e ai camerieri, che erano suoi amici, chiese da bere e un posto dove sedersi come dio comanda. Non c’era nessuno degli amici di Mila. Voleva fare un salto in ospedale, ma a cosa sarebbe servito?”.
“A nulla, Madame?”, dissi io.
“Indugiò così, fino a mezzanotte e oltre. Dall’ultimo gradino, quando i tavoli si furono svuotati, raggiunse il parterre dove erano rimasti solo lei e l’orchestra ungherese. Il violoncellista si era seduto sul tavolo con lo strumento sulle gambe. Il flautista cercava qualcosa di non meglio definito nel flauto. Il fisarmonicista si era addormentato. Il violinista, invece, continuava a suonare e Nina sulla sedia a dondolo di fronte a lui, con le gambe accavallate e senza scarpe, faceva oscillare lentamente la testa. Il violinista disse: ‘Madame, non è stanca? Noi siamo esausti. Fuori dalla porta è mattina’. Nina esclamò: ‘Eh?!’, e guardò dietro di sé. Le sedie erano accatastate sui tavoli, un cameriere si era addormentato su un tavolo in fondo alla sala e solo due luci erano ancora accese. Il violinista disse: ‘Suono ancora, madame?’, e Nina rispose: ‘Mi chiami pure Nina. Sono appena arrivata, sto fuggendo dal gelo’”.
Madame si strinse nello scialle.
“Il musicista disse: ‘Suono ancora, madame Nina?’. Nina rispose: ‘Come vuole. È da tanto che non sento suonare il violino. Stavo quasi per dimenticare com’è fatto. Meno male che l’ho visto di nuovo’. E il musicista: ‘Allora suonerò per lei. Una melodia che amo tantissimo. A volte, quando mi torna in mente la mia infanzia, la fischietto sottovoce’. Nina chiese: ‘Conosce la melodia del Certeza?’. E lui rispose: ‘Forse. La fischietti!’. Nina fischiettò, prima piano, poi disse di aver fatto un errore e ricominciò. Due, tre note, una dopo l’altra. Poi arrivò il suono del violino. Nina disse: ‘Adesso così’, e con le dita gesticolava nell’aria. Il musicista domandò: ‘Ora va meglio?’. Nina rispose: ‘Non la conosciamo bene, né io né lei’. Il musicista ribatté: ‘Balla, madame?’. E Nina: ‘Sono stanca’. ‘È sola?’. ‘Sì’. Avrebbe voluto dire di Mila, che le aveva parlato della piana di Mughan, di Mianeh, di Tabriz e di… ma poi si accorse che il musicista stava suonando la melodia del Certeza. ‘È stanco?’. ‘No, madame. Le facevo compagnia. Alla fine ognuno ha una storia, e l’importante è non raccontarla. Mi concede un ballo, madame?’. Il musicista e Nina ballarono fischiettando il Certeza. ‘Mi chiamo Luca, madame Nina. Sono molto contento di ballare con lei in questa parte del mondo’. La mattina dopo, non appena si svegliò, Nina andò in ospedale. Prese arance, limoni e albicocche secche dai turchi di viale Eslambol, e da madame Sheybrava, che aveva gli occhi rossi e dicevano portasse sfortuna, comprò galline, galli e pesci di cioccolata, e il liquore all’arancia che piaceva a Mila.
Quando salì le scale dell’ospedale e arrivò alla stanza del letto 22, offrì i cioccolatini all’infermiera armena. L’infermiera prese due pesciolini avvolti nella stagnola gialla e rossa. Mila dormiva. Dalla porta disse: ‘Mila, eccomi’. S’informò sulla sua salute dall’infermiera, ma non aspettò la risposta e gli si avvicinò. Quando lui la vide si tirò le lenzuola sopra la testa. Nina le scostò dicendo: ‘Mila, sono io, Nina! Ho portato i cioccolatini’, poi gli baciò la fronte. ‘Non ti sei neanche fatto la barba!’. Era bollente. Mila disse: ‘Ho freddo’. Nina rispose: ‘Fa freddo dappertutto’, e sorrise. ‘Dell’acqua, dammi da bere piano, che sto bruciando’. Nina chiese dell’acqua e con il cucchiaio gli diede da bere lentamente. Lui le prese la mano, scottava. Chiuse gli occhi. Entrò l’infermiera. Nina disse: ‘Mi ha preso la mano e ha chiuso gli occhi’. L’infermiera le disse di uscire. Sistemò un paravento intorno al letto di Mila. Quando l’infermiera uscì dalla stanza diede a Nina l’anello di suo marito: ‘Questo è suo. È morto sereno, senza strepiti’. Nina guardò la stanza, il paravento bianco: ‘Non ha neanche mangiato il pesciolino di cioccolato’. Avrebbe voluto piangere. L’infermiera le disse: ‘Non qui, non turbi gli altri malati, non turbi se stessa. Sapeva che sarebbe morto’. Uscì dall’ospedale, raggiunse il caffè e la sua stanza. Chiuse la valigia e si lasciò cadere sul letto”.
“Quindi lei non voleva Mila?”.
“Certo. Nina avrebbe voluto che Mila ci fosse. Non aveva fatto altro che sperare che guarisse mentre andava da lui. Aveva perfino scaldato l’acqua. Gli aveva insaponato il viso con il pennello da barba e lo aveva rasato. Gli aveva messo lo specchio davanti dicendo: ‘Vedi, stai meglio’. Gli aveva spruzzato dell’acqua di Colonia, ma Mila era bollente. Gli aveva premuto il volto contro il finestrino ghiacciato, ma il suo calore scioglieva il ghiaccio. Si scioglieva. Era il rumore della sedia di Mila, erano le sue mani che avevano lasciato il polso di Nina: ‘Vieni con me nella piana di Mughan?’. Oh, se solo non avesse detto di sì! Quando Nina riaprì gli occhi, era sera. Nella sua stanza arrivavano di nuovo suoni di risate e un brusio. Aprì la finestra, l’aria fredda entrò nella camera. La musica dell’orchestra, il suono degli applausi avevano riempito lo spazio. Nina uscì, prima di chiudere la porta guardò nello specchio. Chi sa che Mila è morto? Scese le scale, si sedette sul gradino. Ordinò da bere. Quando glielo servirono e bevve, si scaldò. I suoi occhi stavano per inumidirsi, quando una mano afferrò la sua dicendo: ‘Sola la notte di capodanno, madame?’. Ballavano tutti. Anche Nina. Prima la ciarda, poi tutti i balli che conosceva o non conosceva, finché non si chiusero le danze e i ballerini si abbandonarono sulle sedie. Mancava un minuto a mezzanotte. Silenzio. Dieci secondi, nove secondi… due secondi, un secondo. Le luci si spensero. Era capodanno. Tutti si stringevano le mani. Risa, sedie che sbattono, movimenti di persone, bicchieri che cadono a terra, grasse risate, poi silenzio. Quando si accesero le luci, Luca era di fronte a Nina. ‘È arrivato l’anno nuovo, madame’. ‘Buon anno’. ‘Auguri’. ‘Mila è morto’. ‘L’anno nuovo è arrivato, madame. Mi concede un ballo?’. Le luci si spensero alle quattro del mattino. Luca aveva un sidecar sgangherato che aveva posto per una persona, lo mise in moto e uscì con Nina. ‘Per noi zingari, ovunque c’è amore’. Nina chiuse gli occhi e disse: ‘Però vai piano, è tutto ghiacciato’. E nessuno li vide mai più”.
“Quanto desideravo raccontare questa storia, la storia di Nina. Solo tu ti sei accorto dei fiori ricamati sulla tovaglia. La sera, quando fumo e penso a Nina, chiudo gli occhi e la brace della sigaretta cade sulla tovaglia bucandola”
Era quasi mattina. Mi ero tranquillizzato.
Madame disse: “Vedi, caro ragazzo, cos’è successo alla fine? I due se ne sono andati”.
Guardavo le fotografie di Nina.
Madame disse: “Quanto desideravo raccontare questa storia, la storia di Nina. Solo tu ti sei accorto dei fiori ricamati sulla tovaglia. La sera, quando fumo e penso a Nina, chiudo gli occhi e la brace della sigaretta cade sulla tovaglia bucandola. Ma passiamo oltre, caro, prendi del tè o un delizioso pesciolino di cioccolato?”.
“Sì, Madame”.
Madame portò il tè. Insieme ai pesciolini di cioccolato ricoperti di stagnola colorata.
“Che bello, Madame! Come nella storia che ha raccontato!”.
“Ma questa storia non è ancora finita, caro”.
“Certamente, Madame”.
E bevvi il mio tè.
Madame si aggiustò lo scialle che le era scivolato dalle spalle.
“No, ragazzo mio. Quando me ne andai via con Luca, vidi che nessun luogo era come quello in cui mi ero innamorata. Nessuno mi conosceva, Luca era uno zingaro… Prendeva il violino e se ne andava a zonzo, vicino al Volga o al Danubio. Nel bel mezzo del viaggio, tornai indietro. Misi gli arazzi in valigia e sparii. Finché non divenni Madame Anna. Nessuno conosceva Nina. Allo stesso modo, nessuno conosce Madame Anna. Tranne te. Io questa storia non l’ho mai raccontata a nessuno, ragazzo mio. Mi piacerebbe, prima che tu te ne vada…”.
Si alzò. Caricò il grammofono, prese un disco e ce lo sistemò sopra.
“Alzati, balliamo”.
Spense la luce. Fuori nevicava.
“Luca, dove ce ne andremo?”.
“Ovunque tu vorrai, Nina”.
“Mila, dove ce ne andremo?”.
“Ovunque tu vorrai, Nina”.
La musica del grammofono risuonava dappertutto. ◆
Ali Khodai
è nato a Teheran nel 1958 e ha studiato medicina a Isfahan, la città dove vive. Questo racconto è uscito sul trimestrale di letteratura Zenderud, poi nella raccolta Tamam-e zemestan mara garm kon . Il titolo originale è ’Asrha-ye yekshanbe . La traduzione è di Melissa Fedi.
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Questo articolo è uscito sul numero 1441 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati