L’autobus si ferma. Apro gli occhi a fatica. C’è scritto: “Stop. Punto di controllo Sharif Abad”. Posso dormire ancora una mezz’ora prima di arrivare. Mi rigiro sul sedile e chiudo gli occhi, ma la passeggera di fianco mi dà un colpetto. Alzo lo sguardo e vedo un vigile che sta dicendo qualcosa. Non sento. Scosto il velo dall’orecchio. Fa un cenno indicando l’uscita dell’autobus. Avevo messo gli apparecchi acustici in valigia per dormire senza farmi disturbare dai rumori. Papà aveva una strana fissazione riguardo agli apparecchi acustici. Mi aveva comprato un modello tedesco, trecentomila toman più caro di quello cinese, ma continuava a ripetere: “Mi raccomando, usali solo quando sono indispensabili, e solo sotto il maghnae”.
Andavo al secondo anno di università e nessuno si era ancora accorto che non ci sento. In realtà con l’apparecchio percepisco i suoni, anche se con qualche difficoltà, ma – senza – il mio orecchio sinistro è completamente sordo. Quando sono stata ammessa all’università, ho scoperto che il signor Abtahi, l’autista dell’autobus, era un conoscente di mio padre, allora ci siamo messi d’accordo che una volta al mese avremmo fatto insieme il viaggio da Teheran a Birjand, così mi avrebbe dato una mano. Tenendo conto delle soste per il pranzo, la cena e le preghiere, ci volevano ventidue ore per coprire quel tratto.
Andavo al secondo anno di università e nessuno si era ancora accorto che non ci sento. Con l’apparecchio percepisco i suoni ma, senza, il mio orecchio sinistro è sordo
Erano passate due settimane dall’inizio del semestre. Stavo riempiendo un bicchiere d’acqua, quando Yasser Samavat ha notato l’apparecchio. Il mio orecchio sinistro spuntava dalla sciarpa. L’università non obbligava le studentesse di arte a portare il maghnae. Una semplice sciarpa bastava per coprirsi. Da lì le cose si sono complicate. Yasser Samavat veniva da Karaj e, tutto sommato, poteva essere considerato un ragazzo della capitale: viziato e caciarone. Ho pensato: “Ora che l’ha scoperto, lo saprà tutta l’università!”. Mi aspettavo che il giorno dopo avrebbe spifferato a qualcuno la notizia e che tutti i ragazzi sarebbero venuti a saperlo nel giro di poco tempo. Tre giorni dopo mi ha chiesto: “Marjan, ti va di andare al cinema? Al Farhang fanno un film di Tarkovskij, cavolo!”.
Scendo dall’autobus. Accanto al vigile c’è anche un ragazzo afgano. Non lo vedo bene in faccia, ma sta parlando. Che sia afgano lo capisco dal taglio degli occhi. Se vivi a Birjand ci metti un attimo a distinguere un afgano da un iraniano. Penso tra me e me: “Non è che pensano che sia afgana anch’io?”.
Il vigile indica il cancello del commissariato di Sharif Abad. È verde e abbastanza ampio da far passare un camion. Lì mi riceve una donna che m’indica l’ingresso dell’edificio. Sono assonnata e confusa. Dev’essere quasi l’ora della preghiera del pomeriggio, o forse hanno già recitato l’azan mentre dormivo. All’interno dell’edificio c’è un corridoio su cui affacciano diverse stanze con porte color crema. La prima a destra è aperta.
La donna mi tiene una mano sulla spalla. Un’altra, seduta lì con una fascia colorata sul braccio, dice: “Entra”. La prima donna mi toglie la sciarpa dalla testa, mi tasta il collo e mi fruga tra i capelli, poi mi muove i lobi delle orecchie a destra e a sinistra. Quel movimento produce un ronzio tanto forte da togliermi l’udito anche all’orecchio destro. Le si muovono le labbra. Sta parlando anche la donna seduta dietro la scrivania. Sento solo il ronzio.
“Mi scusi, come? Non sento!”. Non risponde. La donna di fronte a me mi apre i bottoni a pressione del manteau e mi perquisisce frettolosa. La donna con la fascia colorata si alza in piedi e questa volta mi chiede: “Che sostanze hai assunto?”.
Non fumavo sigarette. La sera in cui siamo andati a vedere Tarkovskij, Yasser Samavat mi ha passato il suo pacchetto, ma ho rifiutato. Lui si è fatto una grassa risata e ha detto: “Una studente di teatro che non fuma? Non c’è più religione!”. Mi ero sentita costretta ad accettare l’invito per il cinema perché avevo paura. Avevo pensato che se non ci fossi andata avrebbe raccontato a tutti dell’apparecchio acustico. Lui stava studiando per una doppia laurea. Era stato ammesso alla facoltà di letteratura persiana perché aveva vinto le olimpiadi letterarie e in più studiava teatro. Il suo dipartimento non era tanto lontano da quello di belle arti, solo trecento metri, e a uno come Yasser Samavat non ci voleva niente per raccontarlo a tutti. Quando sono uscita dal dormitorio, lui era seduto in macchina dall’altra parte della strada. “Ehi, Marjan!”, ha gridato, “Marjan tontolona! Da questa parte!”. Ho fatto finta di niente. Tanto avrebbe pensato che era perché non ci sentivo. Però, “Marjan tontolona”, che uscita… Ha fatto inversione e ha accostato. Sono salita in macchina. Mi ha chiesto: “Come stai?”. “Bene, grazie”. Ha tirato fuori dal cruscotto una merendina Rangarang e ha detto: “Mangia che ti fa bene!”. Mi ha strappato la carta della merenda dalle mani, l’ha lanciata dal finestrino e ha riso senza un motivo. Siamo partiti diretti al cinema Farhang. Per me viale Shariati è il posto più bello di Teheran. Mi era piaciuto fin dalla prima volta che ero andata a casa di zia Jari. Yasser Samavat si girava ogni tanto verso di me e probabilmente mi sbirciava l’orecchio sinistro. Avevo la sciarpa ben stretta intorno alla testa, ma l’apparecchio era acceso. Papà diceva: “Se qualcuno lo scoprisse, ti prenderebbero in giro. Non è bene per il tuo futuro”. Il problema, però, non era solo essere presa in giro. Non c’era posto per parcheggiare di fronte al cinema e abbiamo girato a vuoto per mezz’ora. Oltre ad aver vinto le olimpiadi letterarie, Yasser Samavat era anche bravo a guidare. Andava forte ma padroneggiava la macchina. Gli è suonato il cellulare e ha risposto. Ha detto due carinerie a qualcuno e ha riattaccato, poi ha commentato: “Queste ragazze hanno fiuto! Continuano a chiamarmi come se avessero scoperto che sto uscendo con una!”. E ha aggiunto: “Non sanno che possono stare tranquille, tanto è solo la nostra Marjan, la tontolona”.
Mi portano la valigia con un po’ di ritardo. Rispondo alla vigilessa: “Niente, non assumo niente”. Dice, in modo che sentano tutti: “Ora lo scopriremo!”. Un soldato annoiato lancia la valigia sul tavolo. Le due donne cominciano a perquisirla. Tirano fuori il barattolo di sottaceti di stagione. Lo aprono. L’odore dell’aglio pervade la stanza e mi riaccende un po’ i sensi, ma ho ancora sonno. A Birjand ho preso tre compresse di diazepam per non svegliarmi fino a Teheran. Dico: “Ho preso del diazepam”. Tirano fuori i miei vestiti e le sceneggiature. L’altro vigile è in piedi in un angolo e guarda il mio bagaglio. L’apparecchio acustico è lì dentro. Lo trovano. La donna mi fa un cenno e io rispondo indicando il mio orecchio. Appoggia freddamente l’apparecchio sul tavolo. Sembra che non le importi se sono sorda. Le interessa solo trovare tracce di droga.
“Visto che dici di aver preso delle pasticche, dov’è la confezione?”.
“Non ce l’ho. Erano rimaste solo tre compresse e ho buttato la confezione nel bidone della stazione di Birjand”.
Le due donne parlottano tra loro. Forse ridacchiano. Non capisco. Le voci si confondono. Lascio l’orecchio sinistro fuori dalla sciarpa per poter rispondere tempestiva. A un cenno dell’agente, il vigile prende l’apparecchio dal tavolo e me lo porge. Il suo sguardo mi dice che dovrei ringraziarlo. Annuisco.
Dopo la serata passata al cinema, Yasser Samavat era diventato antipatico. A malapena ricambiava il mio saluto e scherzava con tutti tranne che con me. Gli avevo detto: “Signor Samavat, il mio nome è Marjan Moghimi”. Forse gli aveva dato fastidio. Ma mentre eravamo al cinema aveva riso e mi aveva chiesto: “Sì, signora Moghimi, desidera un po’ di patatine?”. E io avevo detto di no, così, senza motivo. Il film di Tarkovskij sembrava un dipinto. Lui ha evitato di girarsi verso di me per tutta la durata del film e non ha neppure mangiato le patatine. Il film era un po’ noioso, ma doveva essere senz’altro molto importante. L’audio era buono e l’apparecchio acustico non serviva. Mi sono seduta alla sua sinistra in modo da poter lasciar fuori l’orecchio senza preoccuparmi, ma alla fine non è stato necessario. La musica fluiva e il salone buio del cinema era l’unico posto in cui desideravo che il mio orecchio uscisse dal velo. Intorno alla metà del film ho pensato che forse avevo sbagliato a farmi problemi fino a quel momento. Cosa cambia a Yasser Samavat se ho l’apparecchio? È uno che non ha problemi, che gli importa se un altro ha o non ha i requisiti per essere ammesso alla facoltà di teatro? Anzi, non avrei proprio dovuto accettare l’appuntamento. Quando siamo usciti dalla sala, ho detto: “L’audio era buono, non ho avuto nessun bisogno dell’apparecchio”. Lui si è limitato a rispondere: “Sì, è un buon cinema”. Ha detto solo questo e siamo usciti. Ho scoperto entrambe le orecchie e sono salita in macchina.
“È una sordità congenita, ma mi sta simpatica. Io sono fatta così e non me ne frega niente del parere degli altri”.
“Mmm… sì, fai bene. E a me stai simpatica tu”.
Metto l’apparecchio nell’orecchio. Il vigile fa un sorrisetto: “Niente da fare, devi andare al laboratorio”. La porta si apre un po’. Dalla fessura posso vedere il cognato del signor Abtahi che tutto preoccupato sta discutendo con qualcuno. Il vigile se ne va e io e le donne rimaniamo sole. Una di loro mi fa cenno di prendere posto su una fila di sedie gialle. Il coperchio dei sottaceti è ancora aperto e la donna sta sfogliando il dramma Lo scimmione di Eugene O’Neill.
Mercoledì, alle due del pomeriggio, avevamo lezione di analisi della sceneggiatura e dovevo presentare la mia ricerca. Yasser Samavat si era messo una maglia rosso scuro che gli dava un’aria molto affascinante. Le ragazze avevano cominciato a provarci dai primi momenti della lezione e ridevano sguaiate alle sue battute banali. Appena è arrivato il professore, ho cominciato. Samavat, seduto in fondo all’aula, non ha fatto altro che smanettare con il cellulare per tutto il tempo. Ho concluso la mia presentazione dicendo: “Dunque, Lo scimmione può considerarsi il più importante dramma espressionista della storia della letteratura teatrale contemporanea”. Mehraneh, che era seduta nella seconda fila, ha fatto una domanda su come si poteva interpretare il colore del ponte della nave. Anche se aveva una voce bassa, l’avevo sentita e le ho risposto. Il professore ha sentenziato: “Ma questa è una visione molto formale, dogmatica e parziale”. Marciando a grandi falcate, ha raggiunto il fondo dell’aula, si è fermato accanto a Yassar Samavat e si è voltato di colpo verso di me: “Sto parlando con lei, ha sentito?”.
Mi si è incendiato il viso. Non avevo sentito. Yasser Samavat si è messo a tossire così forte che sembrava stesse per soffocare. Il professore gli ha dato dei colpi sulla schiena con il palmo della mano, ma lui non smetteva. Ogni secondo diventava sempre più rosso. In aula si è creato un tale scompiglio che il professore si è dimenticato della mia risposta. Per la prima volta mi sono sentita in debito con lui. Yasser Samavat aveva avuto la prontezza di ricordarsi che uno dei requisiti di ammissione alla facoltà di teatro era essere dotati di una perfetta salute fisica e io avevo un deficit uditivo. Un deficit che avevo tenuto nascosto. A quanto pare Yasser Samavat sapeva che se l’ufficio amministravo avesse ricevuto un resoconto sulla mia sordità, per me sarebbe stata la fine. Il mio cuore batteva tanto forte da rimbombarmi nella testa. Non potevo buttare via così la passione della mia vita. Il giorno dopo, finita la lezione, gli ho detto: “Grazie che mi hai salvata”. Lui mi ha dato una pacca sulla spalla. “Domani andiamo a fare una passeggiata in montagna a Darakeh? Vieni?”.
Il soldato mi porge l’apparecchio. Ormai sono anni che il mio orecchio è abituato a questo corpo estraneo, ma adesso mi sembra più pesante che mai. Una guardia donna apre la porta e dice: “Il laboratorio è chiuso, questa notte deve rimanere qui”. Di fianco a me il soldato fa spallucce e mi dice: “Anch’io ho un problema, guarda!”. Spalanca la bocca e mi mostra qualcosa in fondo alla gola. Non capisco. Continua: “Vedi? Non sento i gusti. Tu sei messa meglio di me, almeno c’è qualcosa che puoi mettere nell’orecchio e sentirci, per me invece niente”. Ho il voltastomaco. Il suo viso cambia colore. Sul suo petto c’è scritto “Mansur Behmanesh”. La nonna diceva: “Se Dio ti toglie qualcosa, ti dona qualcos’altro. Confida nel destino”.
Il signor Abtahi mi raggiunge con il mio sacchettino dei viveri. Devo per forza passare la notte qui, neanche lui può farci niente. Gli dico che non importa e gli chiedo di non dire niente a papà. L’autobus, dopo un’ora di attesa, riparte. Vedo svanire il suo fondo arancione da sopra il cancello del centro di detenzione.
Darakeh era molto affollato. All’inizio della salita, il chiosco a sinistra vendeva sottaceti. Mi sono affacciata su uno dei bidoni per annusare e capire che tipo di frutta contenesse. Quando sono riemersa mi è sembrato che il vecchio venditore somigliasse a Yaqub, il bottegaio del quartiere della nonna a Birjand. Da piccola, quando tornavo da scuola e mia madre era al lavoro, andavo a casa della nonna e per strada compravo sempre del kashk. La stradina alle spalle della bottega pareva l’entrata della casa della nonna, con le stesse piante e lo stesso canale per l’acqua. La bocca del vecchio venditore si è mossa. Stava dicendo qualcosa, ma non riuscivo a capire. L’apparecchio era fuori posto e non sentivo niente. L’odore dei sottaceti mi aveva fatto venire l’acquolina in bocca. Ho riposizionato l’apparecchio. Quando la nonna aveva saputo che ero stata ammessa all’università, aveva detto: “Una ragazza che non trova marito, tanto vale che continui a studiare”.
Yasser Samavat mi ha tirato la mano. “Dai, andiamo!”. Ho continuato a spostare l’apparecchio finché non ho ripreso a sentire le voci. Darakeh non sembrava più Birjand. Un uomo di mezza età e un ragazzo stavano litigando per il parcheggio. Il venditore mi ha chiesto: “Signorina, mi senti? Ne vuoi? Ti faccio un pacchettino?”. Non ne volevo. Ci siamo incamminati in direzione della montagna. Dopo dieci minuti di passeggiata ci siamo seduti in un bar. Yasser Samavat, a differenza del solito, era tranquillo e non aveva fretta. Aveva la solita maglia rossa e si era messo una cuffia nera. Non sapevo da dove cominciare ma dovevo dirglielo. Ero agitata. Ho pensato: “Avremmo dovuto comprare almeno qualche striscia di pelle di frutta”. Tutto d’un tratto ho cominciato a parlare del kashk, della pelle di frutta e della nonna. Del fatto che si è sposata quattro volte, che adora i figli del primo marito e non si ricorda mai la mia data di nascita né è mai stata a una mia festa di compleanno. Non ho mai visto un’altra donna così impassibile e risoluta. Ogni anno, alle feste di Nowruz, ribadisce: “Se devo voler bene a tutti, come faccio a prendermi cura di me? L’amore va dosato e misurato”.
Sorrideva e mi ascoltava. Non so cosa pensasse di me. Forse diceva tra sé e sé: “E allora tu perché sei così fifona?”. Oppure si stava immaginando il volto della nonna, assai più bella e forte di me. Non so. Non avevo idea di come apparivo agli altri, tantomeno come mi vedesse lui. La nonna non si sarebbe mai trovata in una situazione simile, lei era molto forte e soprattutto non era sorda.
Ero arrivata a raccontare della mia adolescenza quando, di colpo, è scoppiato a ridere. Si è indicato le orecchie: “Perché gridi? Il tuo aggeggio è a posto?”. Sì, lo era. Dovevo andare dritta al sodo. Mi vergognavo come una ladra per aver mentito, ma avevo i miei buoni motivi. Essere cacciata dall’università ed essere costretta a lasciare la disciplina che amavo non era roba da poco. Dovevo dirgli che gli ero grata per la sua gentilezza, ma non sopportavo la sua pietà. Già basta e avanza essere sordi, ci manca solo che qualcuno ti compatisca. Al primo tè sono rimasta in silenzio. Cercavo di fare ordine nella mia testa tra le cose che volevo dirgli. Al secondo tè, lui ha appoggiato la sua mano sulla mia. Mi ha presa alla sprovvista. Aveva il palmo caldo e umido. Avrei voluto dire qualcosa, ma le parole mi morivano in gola. Stava facendo buio e dovevo tornare al dormitorio entro le nove di sera. Dovevo dirglielo. Che pasticcio. Ho scostato il velo dalle orecchie e ho tolto l’apparecchio. Mi ero decisa, gliel’avrei detto senza sentire la sua risposta. Ho fatto un bel respiro e ho detto: “Guarda, io non ci ho mai sentito in vita mia, anche adesso non sento, ma amo il teatro. È l’unica cosa che ho qui. Sono uscita con te perché mi sono sentita costretta. Avevo paura che dicessi a qualcuno del mio difetto e così finiva tutto. Per favore, non pensare male di me”. Lui ha toccato l’apparecchio sul vassoio e l’ha spinto verso di me. Insisteva che lo mettessi. Aveva gli occhi sbarrati.
“Sei uscita con me solo perché avevi paura?”.
La sera in cui siamo andati a vedere Tarkovskij, Yasser Samavat mi ha passato il suo pacchetto, ma ho rifiutato. Lui si è fatto una grassa risata e ha detto: “Una studente di teatro che non fuma? Non c’è più religione!”
“Sì”.
“Le confessioni di una sorda a Darakeh! Domani mattina sarà il titolo di tutti i giornali di Teheran. Con tutto questo coraggio, meno male che non sei diventata una partigiana di sinistra. Che onore che tu ti sia mischiata con noi del teatro…”.
Rideva talmente forte che tutti i clienti del bar ci guardavano. Io non riuscivo a ridere neanche se mi sforzavo. Continuava a ripetere: “La partigiana sorda, la partigiana sorda…”.
La notte di fermo non ha inizio e non ha fine. Un corridoio di cemento si affaccia su qualche squallida cella, spoglia e poco illuminata. Ne superiamo sei ed entriamo nella settima. L’agente mi fa svestire, mi lascia una coperta sottile sopra il letto di ferro ed esce senza dire una parola. È una cella d’isolamento. La porta si chiude. Non provo niente, penso solo a quanto sia assurda questa situazione. “Che figata!”, mi dico, “sarebbe una scena perfetta per il palcoscenico! Potrei passare la notte ad analizzare Il processo di Kafka e domani sarò giustiziata per aver assunto del diazepam”. Sento dei rumori confusi. Schiaccio forte l’apparecchio. Sono le risate dei vigili che chiacchierano. Non capisco niente di cosa dicono. Mi avvolgo nella coperta e mi sdraio sul letto di ferro. Come diavolo fanno a pensare che io sia una drogata? Proprio io, una studente di teatro dell’università di Teheran, la trentaquattresima classificata al concorso nazionale di ammissione. Cosa dirò a papà? Qui siamo in mezzo al deserto. Davvero non ho nessuno che può venire a liberarmi da questo inferno. Qualcuno bussa alla cella. Dallo spioncino vedo Mansur Behmanesh. Mi porge un bicchiere di tè.
“Ti va?”.
Incorniciato così, in questo riquadro buio di metallo, m’inquieta ancora di più.
Gli chiedo: “Stanotte resti qui? Che paura!”.
“Restare qui è il mio lavoro. Tu non fare queste cavolate, così non ti metti nei guai. Adesso sta tranquilla. Spaventarsi non serve. Domani ti lasciano andare”.
Yasser Samavat si era messo una maglia rosso scuro che gli dava un’aria molto affascinante. Le ragazze avevano cominciato a provarci dai primi momenti della lezione e ridevano sguaiate alle sue battute banali. Appena è arrivato il professore, ho cominciato. Samavat, seduto in fondo all’aula, non ha fatto altro che smanettare con il cellulare per tutto il tempo
“Ma cosa dici? Io non ho fatto proprio niente. Però non so chi può venire a salvarmi domani”.
“Pensavo fossi di Teheran! Non hai un parente, un amico?”.
Non aspetta la risposta. Si allontana e torna dopo qualche secondo. Infila la mano tra le sbarre. Sul palmo ha tre zollette di zucchero e una lunga linea della vita. Gira la testa e dice: “Poi ridammi il bicchiere. Qui mi annoio da morire. Tu ci resti solo una notte, io ho ancora otto mesi. Pensa come sto io!”.
Avvicino il bicchiere alle labbra e bevo un sorso. Il calore del tè si diffonde nel mio corpo. Sento la testa più leggera. Lo ringrazio. Mi lascia in mano una zolletta attraverso le sbarre, se ne mette una in bocca e beve il suo tè tutto d’un fiato.
“Evita di far vedere la gola agli altri, tanto non si vede niente. È solo disgustoso. Che senso ha?”.
Gli restituisco il bicchiere vuoto e se ne va senza aggiungere niente. Avrei voluto vedere la sua faccia attraverso le sbarre, ma il corridoio è troppo buio. Sento caldo dietro le orecchie.
Mi sdraio sul letto. Sembro uno di quegli afgani che vengono ingabbiati e cercano qualcuno che li aiuti. Non ci voglio pensare. Chiudo gli occhi. Non ho proprio nessuno! Sì, ci sono le mie coinquiline, Nireh, Rojan e Mahbubeh, ma come fanno ad arrivare fin qui?
Essere cacciata dall’università ed essere costretta a lasciare la disciplina che amavo non era roba da poco. Dovevo dirgli che gli ero grata per la sua gentilezza, ma non sopportavo la sua pietà. Già basta e avanza essere sordi, ci manca solo che qualcuno ti compatisca
Nireh mi ha detto di aver visto Yasser Samavat che camminava mano nella mano con una ragazza alta e bella in via Amir Abad. Ci ha proprio tenuto a dirmi che erano mano nella mano. Mi voleva far capire che mi ero fatta sfuggire il ragazzo più figo di tutta l’università. Non mi aspettavo che una notizia simile potesse darmi fastidio, invece l’ha fatto. L’avevo deluso e l’avevo lasciato andare con quella ragazza alta e bella che non sapevo chi fosse, avevo fatto tutto da sola. Sono uscita dal dormitorio con la scusa di comprare del pane. Mi veniva da piangere. Nireh, con quel tono, mi aveva fatto capire che sono una fallita. Già è una sofferenza non farsi notare da nessuno, ma se succede e poi ti bruci l’occasione… Le lacrime mi rigavano il viso. Ho dovuto togliere l’apparecchio. Se lo tengo mentre piango, le voci mi rimbombano in testa. Teheran era diventata di nuovo Birjand. Mi sentivo immersa nel suo bazar, solo che era pieno di luci e le persone erano più eleganti. Non vedevo le insegne dei negozi. Birjand era diventata molto affollata, ma neppure Teheran era più la stessa. Senza rumori, la città aveva perso la sua anima di metropoli. Era diventata una piccola città di provincia, con la differenza che nessuno faceva caso alle mie lacrime.
Il giorno dopo, a lezione, per caso ci siamo seduti vicini. Scarabocchiava un foglio senza seguire. Non ero in me. Sentivo un nodo alla gola e mi faceva rabbia. Cosa c’entravo io? Non mi piaceva nemmeno! Ancora una volta avevo reagito d’impulso. Nireh aveva detto una fesseria. Yasser Samavat non era mai stato la persona giusta per me. A fine lezione il professore ha detto qualcosa che non ho sentito, ma tutti hanno cominciato a lamentarsi. Mi sono girata verso Samavat e gli ho chiesto: “Cos’ha detto?”. La sua espressione apatica piano piano si è trasformata in un sorriso.
“Signorina partigiana! Hai l’apparecchio spento?”.
“Smettila di prendermi in giro. Sì, sono una fifona. Lasciami stare, fa’ come ti pare!”.
Lui è arrossito e si è rabbuiato. Ha raccolto le sue cose dal tavolo ed è sgusciato fuori dall’aula di fretta. Qualche minuto dopo ho sceso le scale e lui, lì in fondo, mi ha tirato per un braccio e mi ha spinto sotto la rampa.
“Ricordati Marjan, io non andrò mai in giro a dire che porti l’apparecchio. Anche se non importa a nessuno. Comunque c’è una sola ragione se non lo dico, una ragione che per te non è importante”.
Quella sua reazione improvvisa mi aveva spiazzata, ero rimasta ammutolita. Mi sono liberata il braccio e, con un filo di voce, gli ho detto: “Grazie”. Lui, invece, ha alzato il tono: “Senti, ragazzina, non frega niente a nessuno se non ci senti, nemmeno a me. Devi essere sicura di te stessa, non sentirti in difetto e non farti intimidire da nessuno, manco da me che…”.
Ha lasciato la frase a metà. Da me che ti amo? Da me che sono il più sbruffone di tutti? Non avevo una risposta, ma un dubbio mi stringeva la gola. Non sapevo se fosse il momento giusto per chiedergli di quella ragazza alta e bella. E lui ha continuato: “Hai capito cosa ti ho detto? Non farti intimidire!”. Poi ha acceso una sigaretta e si è allontanato veloce. Avevo un nodo in gola. Una sensazione sconosciuta, che non dipendeva dalla mia volontà. Quel giorno, per la prima volta durante quei semestri, ho avuto la netta sensazione che Yasser Samavat fosse una persona di cui ci si può fidare. Anche se aveva preferito quella ragazza alta e bella a me.
La guardia donna mi porta in una stanza che sembra un laboratorio. Il medico mi controlla gli occhi. Mi prende un campione di sangue e ci dice che l’esito sarà pronto in una mezz’ora. Usciamo dal laboratorio e ci sediamo sulla prima panchina in giardino. Mansur Behmanesh ci sta aspettando. Da ieri gli è già cresciuta la barba e sembra un po’ più vecchio. La donna mi porge il telefono.
“Chiama qualcuno e digli di venire. Il risultato dell’esame sarà pronto tra mezz’ora”.
Mio fratello ha lasciato l’Iran sei mesi fa. Sembra che Abtahi mi abbia dato retta, infatti papà non si vede. Non ho altre soluzioni. Ho pensato a Yasser Samavat tutta la notte. Da quel giorno ho capito che è il più affidabile di tutti. Magari non è innamorato come il marito di Rojan, o non vuole sposarmi, oppure una ragazza sorda come me non gli piace neanche, mentre quell’altra ragazza… Ma comunque ha dimostrato che su di lui si può contare. Faccio il suo numero.
“Ciao, sono Marjan”.
Ride e risponde con il tono di un operatore: “Ciao, sono Yasser”.
“Senti, sono bloccata al commissariato di Sharif Abad. Ho bisogno di un garante. Potresti venire?”.
Rimane in silenzio. Sento le risate e gli schiamazzi di ragazzi e ragazze intorno a lui. A quest’ora sarà sicuramente all’università.
“E Sharif Abad dove sarebbe?”.
“All’entrata della provincia, a trenta chilometri da Teheran”.
Gli racconto il resto della storia e riattacco. La donna prende il cellulare e si alza. Di nuovo il pensiero che possa dirlo a qualcuno mi riempie la testa. La donna mi consegna al soldato e si dirige al laboratorio.
Behmanesh sta giocando con il calcio del fucile. Prende una cosa da terra e si siede dall’altra parte della panchina.
“Pensavo che a Teheran non avessi nessuno. Volevo farti da garante io, così magari potevamo rivederci”.
“Grazie. Viene un mio amico. I risultati dell’esame non sono ancora arrivati. Non ti conviene fare da garante per una tossica. Ti allungherebbero la leva!”.
“Hai qualcuno? Intendo un ragazzo, fidanzato…”.
Mi giro dall’altra parte e non rispondo. Due soldati vengono ridendo verso di noi con dei succhi di frutta in mano. Uno butta a terra il cartoncino del succo e lo calpesta. Ci passano davanti indifferenti. Seguo lo sguardo di Behmanesh, che è rimasto fisso sul succo. Lo va a prendere e legge qualcosa sul retro della confezione. Gli dico: “Questi succhi sono terribilmente dolci e sono pieni di aromi. Non ti sei perso niente, è robaccia”.
Mi ignora e butta la confezione nel cestino della spazzatura. La guardia donna arriva con un foglio e ci fa cenno di seguirla. Arriviamo a un edificio di recente costruzione nella parte centrale della stazione di polizia. Superata la porta, troviamo una fila di persone ma noi la saltiamo. Rispetto agli altri, il colonnello ha un fare più pacato e rispettoso. Mi siedo. Comincia l’interrogatorio: “Da quando?”, “Dove?”, “Quante volte?”. Io ripeto le stesse cose che avevo detto il giorno prima. Dice: “Cara, l’esame è negativo con riserva. Vuol dire che non è proprio chiaro cosa tu abbia fatto. Adesso che facciamo?”.
“Ricordati Marjan, io non andrò mai in giro a dire che porti l’apparecchio. Anche se non importa a nessuno. Comunque c’è una sola ragione se non lo dico, una ragione che per te non è importante”
Un soldato bussa alla porta e Yasser Samavat entra insieme a lui. È pallido e sorpreso. Sembra che durante le vacanze sia dimagrito. Lo saluto con un cenno del capo. Il colonnello chiede qual è la nostra relazione e lo presento come un amico di famiglia. Sono contenta che Behmanesh sia dietro di me, così mi risparmio la vista della sua faccia stupita. Il colonnello comincia a parlare con Yasser Samavat e gli spiega quali sono le conseguenze se il reato viene reiterato. Io non riesco ancora a capire cosa ho fatto di sbagliato, ma firmo tutto. Poi tocca a Yasser Samavat. Noto che mentre firma gli trema la mano.
Non mi guarda. Mi fa un cenno per dirmi di andarcene. Sono più agitata di prima.
Usciamo dalla stanza e dopo qualche minuto un soldato mi riporta la valigia, da cui spunta un lembo della mia sciarpa rossa. Yasser Samavat non dice niente e controlla il cellulare di continuo. Arrivati all’ingresso dell’edificio, gli suona il telefono. Risponde: “Amore, non sono a Teheran, ti chiamo tra mezz’ora”. Sento una stretta al cuore e il montare di una rabbia incontenibile. Mansur Behmanesh viene verso di noi.
“Auguri! Te ne vai?”.
“Sì, grazie per ieri sera e per oggi. Vedrai che questi otto mesi voleranno. Coraggio! Non buttarti giù”.
Faccio come se fossimo più in confidenza di quanto siamo davvero. Così, senza motivo. Yasser Samavat mi prende di mano la valigia e comincia a camminare veloce davanti a me. Usciamo dal cancello verde. Saluto in fretta Behmanesh. Per raggiungere Samavat devo quasi correre. Lui si ferma dopo pochi passi.
“Scusa! La valigia è pesante. Lascia che la
porti io”.
“Bello! Hai anche trovato nuovi amici! Oggi in generale mi stupisci, brava! Stai migliorando!”.
Mi ritrovo a balbettare.
“Ah… Sì. È un bravo ragazzo. Non sente i gusti. Un giorno gli è venuta una brutta febbre. Gli bruciava la gola e poi ha smesso di sentire i sapori. Ma non mi fa pena. Il destino ricambierà con qualcos’altro anche lui”.
“Lo so che non ti fa pena. Ma la nonna non ti ha mai detto che mica tutti quelli che hanno un problema sono come te? Comunque, non serve che mi spieghi, so che l’amore lo sai dosare e misurare, così puoi lasciare un po’ di spazio anche al tuo destino”.
Non riconosco quel tono. A differenza del solito non ride. Ora dovrei trovare le parole giuste per farmi perdonare. Dovrei ringraziarlo e fargli capire quanto apprezzo il suo gesto. Ma non le trovo. Ho la bocca secca e le mie labbra faticano a muoversi. Mi sforzo e gli dico: “Grazie per essere venuto fin qui. Veramente, non sapevo di chi avrei potuto fidarmi se non ci fossi stato tu”.
Non so come continuare. Preferisco tacere. Yasser Samavat mi fissa. Forse sta aspettando di sentire il resto. Ho perso il filo del discorso. Gli compare un sorriso sulle labbra. Un sorriso che non conosco. Il sibilo del vento mi rimbomba nell’orecchio. Sto per dire qualcosa, quando lui apre la bocca. Non sento! Lui continua. Scosto il velo. Fa una piccola pausa, mi si avvicina all’orecchio e dice: “Qui di macchine ce ne sono. Io ho un impegno, devo andare. Prendi un taxi e torna al dormitorio”.
Nel freddo, il suo respiro avvolge il mio collo come una nuvola. Appoggia per terra la mia valigia. Non so se devo ringraziarlo. Lo guardo allontanarsi, passo dopo passo. Sento un sapore dolce salato in fondo alla gola. Il vento continua a soffiare e un lembo della mia sciarpa rossa fluttua sospeso nell’aria.
Alieh Atai
è nata nel 1981 a Zahedan da una famiglia afgana. Vive e lavora a Teheran. Questo racconto è uscito sulla rivista Dastan con il titolo Si kilometr . La traduzione è di Harir Sherkat.
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Questo articolo è uscito sul numero 1441 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati