S ono passati quattro mesi da quando il presidente di sinistra Pedro Castillo è stato destituito, ma la situazione in Perù continua a essere molto grave. La crisi politica è stata alimentata dalla violenza e dalla repressione della polizia, e il 2 marzo una nuova folla di manifestanti è arrivata nella capitale Lima dal sud del paese.
Rispetto agli inizi l’intensità delle contestazioni è diminuita, ma la rabbia popolare non si è placata. “Dina, dinamite. Dina killer”, continuano a scandire i manifestanti, mostrando i ritratti dei loro compagni uccisi negli scontri con gli agenti. La piazza chiede le dimissioni di Dina Boluarte, la vicepresidente arrivata al potere dopo il fallito colpo di stato organizzato da Castillo e la sua destituzione. Ma vuole anche elezioni immediate e la formazione di un’assemblea costituente. Boluarte, però, non ha intenzione di farsi da parte, e il parlamento rifiuta di anticipare il voto. “Que se vayan todos”, via tutti: lo slogan scandito nei cortei esprime una rabbia profonda.
Disuguaglianze sociali enormi, divari tra regioni, razzismo, corruzione endemica, le ragioni del malcontento in Perù si sovrappongono e si rafforzano a vicenda. Il potere conta sul fatto che il movimento di protesta si esaurisca da solo. Alcuni analisti politici temono invece che il disagio sociale unito alla deriva autoritaria possa far precipitare le cose.
La rivolta è cominciata nelle campagne. I primi a mobilitarsi sono stati i contadini delle popolazioni native che nel 2021 avevano votato in massa per Castillo, figlio di agricoltori. Il sud del paese è stato anche teatro della violenta repressione delle forze di polizia. In totale sono stati uccisi 49 manifestanti e un agente.
Dichiarato all’inizio del dicembre 2022 e poi prolungato, lo stato d’emergenza è ancora in vigore in sette regioni. Per settimane le forze dell’ordine non sono state in grado di riportare una parvenza di normalità nel paese. Decine di strade restano bloccate, i problemi nelle forniture di prodotti alimentari, gas e benzina si fanno sentire e i prezzi crescono in modo vertiginoso. L’“autostrada” del corridoio minerario è stata infine riaperta, permettendo l’uscita del rame grezzo, di cui il Perù è il secondo produttore mondiale. Tutto è cominciato il 7 dicembre 2022, quando il “presidente dei poveri” Pedro Castillo ha annunciato lo scioglimento del parlamento, mentre i deputati si preparavano a proporre una mozione di sfiducia nei suoi confronti.
Per bloccare il golpe una parte della sinistra ha scaricato l’ex presidente, votando la sua destituzione insieme alla destra. Nessuno in Perù ha dimenticato l’abolizione del parlamento ordinata nel 1992 dal presidente Alberto Fujimori, e neanche gli otto anni di regime autoritario che seguirono.
Castillo è stato arrestato e la destra, che da mesi cercava di liberarsene, era entusiasta. Il potere è passato nelle mani della vicepresidente Boluarte e il parlamento era convinto di avere la situazione sotto controllo. Ma presto il sud del paese è esploso. “Avevamo il nostro presidente e ce lo hanno portato via”, si rammarica un contadino a Cusco durante le manifestazioni. Per chi è sceso in piazza a protestare, Castillo incarna un Perù che non si sente rappresentato a Lima.
Eletta con Perú libre, lo stesso partito di sinistra di Castillo, Boluarte è considerata una traditrice. Secondo Fernando Tuesta, che ha diretto l’ufficio nazionale dei processi elettorali, “Boluarte avrebbe potuto e dovuto indire le elezioni appena diventata presidente. Ma ha scelto di dialogare con la destra più radicale e di affidarsi alla polizia per soffocare il dissenso”. Nonostante la repressione, la protesta si è estesa a tutto il paese e oggi niente sembra poterla fermare.
“Più ancora dell’arresto di Castillo, è l’atteggiamento di Boluarte ad alimentare la rabbia della popolazione”, osserva lo storico Raúl Asensio dell’Istituto di studi peruviani (Iep) di Lima.
In mancanza di una soluzione politica, i manifestanti chiedono la formazione di un’assemblea costituente, per definire un nuovo patto sociale e ripristinare la stabilità delle istituzioni. La costituzione attuale, ereditata dal governo Fujimori, favorisce il settore privato, limita i doveri dello stato verso i cittadini e consente di rimuovere un presidente con facilità. Eppure questo non basta a spiegare l’instabilità politica del paese. Nessuno dei sei presidenti eletti dal 2016 ha portato a termine il mandato. In sei anni il paese ha conosciuto quindici primi ministri e più di 250 rimpasti di governo. Il Perù è diventato il paese più instabile del continente e uno dei più disuguali: secondo il World inequality report del 2022 l’uno per cento della popolazione controlla il 28 per cento della ricchezza complessiva.
“Il Perù è cambiato poco dalla fine del vicereame nel 1821, quando ottenne l’indipendenza dalla corona spagnola. Le élite della capitale continuano a voltare le spalle al resto del paese e a disprezzarlo”, spiega il giurista ed ex ministro della giustizia Diego García-Sayán. Lima vive in una sorta di bolla sulla costa del Pacifico, lontano dalle Ande che attraversano il continente, dall’Amazzonia e dal grande est. Il paese è un mosaico umano di 55 popoli autoctoni e quasi altrettante lingue. Gli abitanti di lingua quechua e aymara, i più importanti numericamente, sono 4,5 milioni, su una popolazione totale di 33 milioni.
Il “presidente dei poveri” ha dimostrato di non saper governare. Ma ha un ampio sostegno tra le persone che lo hanno votato
“Nell’immagine che i peruviani hanno del loro paese c’è Lima, città moderna, occidentale e popolata di bianchi, poi ci sono le Ande rurali abitate dai nativi e infine la foresta selvaggia e incontaminata”, racconta l’antropologo Guillermo Salas Carreño dell’Università pontificia cattolica del Perù, che parla di una “razzializzazione della geografia”.
Apartheid di fatto
La realtà ovviamente è molto più complessa. A Lima vivono più peruviani di lingua quechua che in tutto il resto del paese. La maggior parte delle risorse minerarie, petrolifere e di gas si trova nelle Ande e in Amazzonia. Il turismo è in espansione. Più del 55 per cento degli abitanti dell’Amazzonia vive in centri urbani e il numero di giovani indigeni che studiano è in aumento.
Ma il razzismo è una realtà nella società peruviana. Parlare una lingua diversa dallo spagnolo o indossare abiti tradizionali può portare a discriminazioni nei negozi o negli ospedali, a maltrattamenti nei commissariati o insulti. I modelli delle pubblicità hanno la pelle chiara. E anche se la tv pubblica trasmette programmi nelle lingue autoctone, molte istituzioni non sempre sono accessibili a chi non parla spagnolo. I nativi sono trattati come cittadini di serie b.
La storica Cecilia Méndez, che insegna all’università della California a Santa Barbara, parla di “un’apartheid di fatto che non ha bisogno di essere istituita per legge, perché esiste nella società ed è radicata nelle abitudini e negli schemi mentali dei gruppi dominanti”.
Il diritto di voto fu riconosciuto agli analfabeti solo nel 1979. Fino a quel momento gran parte delle popolazioni delle Ande e dell’Amazzonia, dove nelle zone rurali il tasso di analfabetismo raggiungeva il 40 per cento, erano state escluse dal processo democratico. I termini indio, serrano o cholo sono usati per discriminare i nativi, i meticci e i contadini. A Lima sui muri dei caffè del ricco quartiere di Miraflores alcuni piccoli adesivi ricordano che “conformemente al decreto comunale 20/19, la discriminazione è vietata”.
La riforma agraria del 1969 mise fine allo sfruttamento semifeudale dei contadini nativi nelle haciendas, le grandi proprietà terriere, ma non ha eliminato la mentalità coloniale degli ex proprietari, gli hacendados. “Il problema del paese sono gli indigeni”, dice freddamente uno di loro, che ha una tenuta di diverse centinaia di ettari nel dipartimento di Cusco. E conclude categorico: “I nativi sono improduttivi”.
Da cinque secoli il Perù è un territorio conteso per le ricchezze del sottosuolo. Le aziende straniere presenti nel paese estraggono rame, oro, argento, ferro, zinco, petrolio e gas. Per un certo periodo la forte domanda di materie prime, e la conseguente impennata dei prezzi, ha stimolato la crescita: nel 2008 il pil del paese crebbe del 9,1 per cento.
Tra il 2001 e il 2019 dieci milioni di peruviani sono usciti dalla povertà. Molti economisti, però, sottolineavano già allora la fragilità del miracolo peruviano, fondato sulla dipendenza dalle materie prime e ancora segnato dalle disuguaglianze.
Il covid-19 ha avallato la loro tesi. Nel 2020, secondo l’Istituto di studi statistici, la povertà è aumentata più che nel resto del Sudamerica, passando dal 20,2 al 30 per cento della popolazione. Il paese ha anche registrato il tasso di mortalità per covid più alto del mondo. Il Perù era già fragile, e ora la crisi politica lo ha messo in ginocchio.
Secondo gli avversari, ma anche secondo alcuni che lo hanno votato, Castillo è stato un pessimo presidente. Originario del dipartimento di Cajamarca, nel nord, figlio di contadini analfabeti, faceva il maestro e il sindacalista prima di essere notato e diventare il candidato del partito marxista-leninista Perù libre alle elezioni presidenziali del 2021. Non aveva nessuna esperienza amministrativa. “Castillo ha vinto di misura al secondo turno solo perché gli elettori hanno votato contro Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore”, commenta José Ugaz, un ex procuratore.
Sconfitta alle elezioni, Fujimori ha subito cercato lo scontro, mettendo in discussione l’esito del voto e accusando gli avversari di brogli. “Anche lei ha contribuito all’attuale crisi istituzionale”, afferma Tuesta. “I partiti di destra pensavano a come destituire Castillo prima ancora che entrasse in carica”, aggiunge Ugaz.
Una volta al potere, il “presidente dei poveri”, che non aveva le competenze di un capo di stato, ha commesso molti errori. Ha nominato ministri senza esperienza, alcuni con precedenti penali. In parlamento la destra e i suoi alleati hanno fatto un’ostruzione sistematica. La procura ha aperto sette indagini contro il presidente, in particolare per corruzione. Ma per chi lo ha votato, “Castillo non era più corrotto dei suoi predecessori”.
Tutti i capi di stato peruviani eletti negli ultimi quarant’anni sono stati accusati di corruzione. E anche se solo Alberto Fujimori, 84 anni, è in prigione, gli scandali a ripetizione hanno finito per distruggere completamente la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Arrivato al potere, Castillo ha cercato di mantenere il contatto con le regioni che avevano votato in massa per lui. Ha continuato a ripetere il suo slogan elettorale, “Mai più poveri in un paese ricco”, promettendo investimenti, strade e scuole. “Ha saputo capitalizzare e alimentare il risentimento legittimo delle fasce più povere della popolazione”, continua Ugaz. Nonostante gli scarsi risultati, un sondaggio del novembre 2022 dell’istituto Datum gli attribuiva ancora il 26 per cento dei consensi.
Leggere e scrivere
Le regioni di Ayacucho, Apurímac, Puno, Cusco e Arequipa sono state le prime a scendere in strada contro l’arresto dell’ex presidente. In alcune circoscrizioni Castillo aveva ottenuto più dell’ottanta per cento dei voti al secondo turno. “Erano vent’anni che non si vedeva una mobilitazione del genere nel sud del paese”, osserva Omar Coronel, sociologo dell’Università pontificia cattolica del Perù.
Queste regioni sono le più ricche di risorse, in particolare di rame e gas, ma anche le più arretrate. Vicino alla miniera di rame a cielo aperto di Las Bambas, una delle più grandi del mondo, il 45 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà: è così che la carta geografica delle disuguaglianze sociali e quella della rivolta hanno finito per sovrapporsi.
Maribel Chávez, una contadina arrivata a Cusco per manifestare, accusa “le aziende minerarie milionarie di non pagare le tasse” e di non preoccuparsi dei più poveri. “I politici vendono le nostre terre, le multinazionali saccheggiano le nostre ricchezze. Loro si arricchiscono mentre noi contadini, che lavoriamo la terra, viviamo nella miseria”, ribadisce Lisa Palomino, che ha preso parte alle manifestazioni a Lima.
Felicia Mamani, trent’anni, agricoltrice e originaria delle Ande, è convinta che le cose siano diverse rispetto alla generazione dei suoi genitori: “Quel Perù non esiste più. Non siamo delle pecore, sappiamo leggere e scrivere”, spiega. “Anche se veniamo dalla campagna siamo informati. Abbiamo i nostri mezzi d’informazione alternativi”.
I giornali e le radio locali e i social network hanno trasmesso le immagini della repressione, che nelle Ande è stata un massacro: dieci morti ad Ayacucho a metà dicembre e diciotto a Juliaca il 9 gennaio. Secondo un’inchiesta del sito Salud con Lupa, almeno quindici persone sono state uccise da colpi d’arma da fuoco alla testa, al torace o all’addome. Altre tre sono state colpite alla schiena. Amnesty International ha denunciato possibili esecuzioni illegali. Alcuni video mostrano poliziotti sparare con la pistola o il fucile e lanciare i gas lacrimogeni direttamente contro i manifestanti. Le Nazioni Unite e l’Unione europea hanno condannato “l’uso sproporzionato della forza”.
Tuttavia Dina Boluarte ha definito “irreprensibile” il comportamento dell’esercito e della polizia, nessun ministro si è dimesso e nessun militare è stato sospeso. Per solidarietà con le vittime del mondo rurale, i giovani delle città, alcuni sindacalisti, le associazioni femministe e gli attivisti lgbt sono a loro volta scesi in piazza.
Boluarte, originaria del sud del paese e proveniente dalla sinistra marxista, continua a ricordare che ha studiato “in una scuola con i muri di terra”, parla il quechua e cerca di sfruttare il fatto di essere la prima donna presidente del paese, ma senza convincere. Il suo cambio di rotta e le alleanze con la destra non sono sfuggite ai manifestanti.
Gli appelli di Boluarte al dialogo sono suonati ancora più falsi dopo che ha accusato tutti i manifestanti di essere manipolati dall’ex presidente boliviano di sinistra Evo Morales, di essere diretti dal Movadef (il partito politico vicino a Sendero luminoso, il gruppo armato di ispirazione maoista in guerra contro lo stato negli anni ottanta e novanta), di essere strumentalizzati dai trafficanti di droga e da chi fa affari sfruttando le miniere illegali. Questa tesi delle “forze occulte” è stata ripresa dai mezzi d’informazione: anche se ha i suoi sostenitori nella destra, per i manifestanti è un insulto.
Un ricordo vicino
In tutto il paese il ricordo degli anni bui del conflitto armato interno, dal 1980 al duemila, è ancora molto vivo. Le regioni del sud sono quelle che hanno sofferto di più: il 40 per cento dei morti e delle persone scomparse in quel periodo veniva dalla regione di Ayacucho, roccaforte di Sendero luminoso. In totale 70mila persone sono state uccise in vent’anni, secondo la Commissione per la verità e la riconciliazione, che attribuisce il 54 per cento di queste morti alle azioni terroristiche di Sendero luminoso e il 30 per cento all’attività degli agenti.
Il rapporto della commissione, pubblicato nel 2003, sottolinea che “la tragedia vissuta dalle popolazioni del Perù rurale, delle Ande e dell’Amazzonia, dai nativi quechua e asháninka, dai contadini, dai poveri e dalle persone semianalfabete non è stata sentita né compresa come una tragedia nazionale dal resto del paese”.
Da allora le forze dell’ordine continuano a vedere nemici ovunque e sono ossessionate dalla caccia al terruco, un termine che indica al tempo stesso un terrorista, un militante di sinistra o un semplice contadino che manifesta. “Il governo, la polizia, i mezzi d’informazione ci trattano come terroristi”, affermano i manifestanti.
◆ Il 7 dicembre 2022 il presidente peruviano Pedro Castillo (Perú libre, sinistra) ha annunciato lo scioglimento del parlamento e l’inizio di un governo di emergenza nazionale per riorganizzare il sistema giudiziario e scrivere una nuova costituzione. Ma i ministri del suo governo si sono dimessi nel giro di qualche minuto e varie istituzioni hanno respinto il colpo di stato. Le forze armate non hanno seguito Castillo e il parlamento ha approvato la sua destituzione per incapacità morale, un meccanismo di impeachment che dovrebbe essere usato per rimuovere i presidenti affetti da disturbi psichiatrici. Castillo è stato arrestato mentre cercava di raggiungere l’ambasciata del Messico ed è stato portato alla prefettura di Lima. Sarà giudicato per i reati di sedizione e cospirazione. Dopo il voto con cui il parlamento ha destituito Castillo, la vicepresidente Dina Boluarte ha assunto la presidenza, ma una parte della popolazione non riconosce la legittimità del suo governo. Inizialmente le proteste si sono concentrate nelle regioni del sud del paese, dove la maggioranza della popolazione, povera e nativa, aveva votato per Castillo alle elezioni presidenziali del 2021. Ma nelle settimane successive si sono estese in tutto il Perù, anche nella capitale Lima. Nelle contestazioni sono morti almeno 49 civili, un poliziotto è stato bruciato vivo e 970 persone sono rimaste ferite. Afp, Bbc
Né l’esercito né la polizia sono mai stati riformati in modo strutturale. La lotta al terrorismo continua a caratterizzare i loro discorsi e a influenzare il loro modo di agire. “Le forze di sicurezza hanno ancora una logica da guerra fredda”, spiega Coronel. Il nemico comunista non è mai troppo lontano.
La violenza, gli insulti e l’odio di queste settimane hanno riportato d’attualità i fantasmi del passato: per i manifestanti la minaccia è il ritorno della dittatura; per la classe dirigente e i grandi gruppi imprenditoriali è il ritorno del terrorismo. A destra s’ipotizza già un intervento più duro delle forze di sicurezza, se non un colpo di stato militare, come un possibile rimedio alla situazione attuale.
“Fujimori è stato il miglior presidente del paese”, afferma César Rodríguez, un sottufficiale in pensione. Costretto ad arruolarsi quando era ancora minorenne, è rimasto nell’esercito per più di trent’anni. “I giovani di oggi non hanno conosciuto l’iperinflazione, il terrorismo di Sendero luminoso, le bombe, gli omicidi, gli attacchi alle infrastrutture elettriche. Il Perù viveva letteralmente nell’oscurità e Fujimori ci ha restituito la luce”, afferma l’ex militare.
Nel 2009 l’ex dittatore fu condannato a 25 anni di prigione per la sua responsabilità nei massacri nel quartiere di Barrios Altos nel 1991 e all’università La Cantuta a Lima nel 1992, che costarono la vita a 25 persone.
Uniti nel denunciare la violenza della repressione, i governi progressisti latinoamericani non hanno una posizione comune su quello che sta succedendo in Perù. Il presidente cileno Gabriel Boric ha condannato il tentativo di “golpe” di Pedro Castillo, mentre i leader della Colombia, del Messico e dell’Argentina hanno contestato la legittimità della sua destituzione e quindi del nuovo governo di Boluarte. Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, che ha concesso asilo alla moglie di Castillo e ai loro due figli, continua a chiedere il suo ritorno al potere. Per i governi di Cuba, Venezuela, Nicaragua e Honduras, Castillo rimane il presidente legittimo del Perù. Il brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, che si è insediato il 1 gennaio, non ha preso posizione.
Il governo di Boluarte parla di ingerenza e accusa “gli stati ideologicamente vicini a Castillo d’incoraggiare la rivolta sociale”. Lima ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Honduras, ha espulso l’ambasciatore messicano, ha richiamato i suoi ambasciatori a Città del Messico, a Bogotá e a La Paz. Inoltre ha dichiarato persone non grate Evo Morales e il presidente colombiano Gustavo Petro.
In ogni modo Boluarte rifiuta di dimettersi e afferma di avere “un dovere nei confronti del Perù”. Secondo i suoi avversari è soprattutto la paura di finire in prigione a impedirle di lasciare il mandato senza negoziare prima le condizioni per la sua uscita di scena. A gennaio la procura generale del Perù ha aperto un’inchiesta contro di lei per “genocidio”, il termine con cui in America Latina si definisce un massacro, nella repressione delle proteste.
Se Boluarte accettasse di dimettersi, spetterebbe al presidente del parlamento Williams Zapata sostituirla e organizzare le elezioni. Il problema è che Zapata, ex capo del comando congiunto delle forze armate, rappresenta la destra più radicale. “Non è detto che le elezioni riescano a ripristinare la fiducia nelle istituzioni”, sottolinea Fernando Tuesta, “ma oggi sono una condizione necessaria per un ritorno alla calma”.
Il 7 febbraio il parlamento ha seppellito la possibilità di andare alle urne nel 2023. I deputati, in carica da meno di due anni, vogliono conservare il più a lungo possibile i loro vantaggi e privilegi. “L’atteggiamento del parlamento è indecente”, osserva Tuesta. La sua opinione è condivisa da molti. Eppure milioni di peruviani che sentono di appartenere al Perú profundo, i contadini quechua e aymara, e i popoli dell’Amazzonia, vogliono credere che qualcosa sia cambiato nella società. “Vogliamo una vita degna”, ha gridato il dirigente comunale Remo Candia prima di essere ucciso da un colpo d’arma da fuoco per le strade di Cusco, l’11 gennaio. ◆adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1505 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati