Ai palestinesi della Cis­giordania è vietato difendersi – difendere le loro vite, la loro terra o le loro proprietà – dagli aggressori ebrei. L’autodifesa contro i coloni ebrei in Cisgiordania è un reato che può avere come conseguenza multe pesanti, l’arresto, un processo, il carcere o la morte. Non è una questione d’interpretazione, ma una sintesi della contorta realtà dietro all’omicidio del palestinese Qosei Mitan, avvenuto ad agosto nel villaggio di Burqa, in Cis­giordania, e dietro alla farsa dell’arresto di Amar Asliyyeh, ferito da colpi di arma da fuoco, e dei suoi tre figli, accorsi per impedire agli invasori di entrare nel loro villaggio.

Ai palestinesi non è permesso usare armi per difendersi né pietre o bastoni, e non gli è nemmeno permesso difendere gli altri. Tutto queste cose sono considerate una sorta di “sabotaggio” o, nel migliore dei casi, disturbo della pace, non solo quando ad attaccare sono persone inviate in veste ufficiale – soldati e poliziotti – ma anche se sono semplici ebrei in abiti civili.

Il divieto è sancito dalla legislazione militare, da una prassi radicata nell’esercito israeliano, dai pubblici ministeri e dai tribunali, in un’atmosfera di supremazia ebraica, e anche dagli accordi di Oslo. È una rete complessa in cui ogni componente è collegato a un altro e lo tiene in piedi.

La missione primaria

Non c’è da stupirsi che lo Shin bet (i servizi segreti israeliani) e l’esercito siano preoccupati. Non servono informazioni dai collaboratori o sofisticate apparecchiature per sapere che questa realtà è come un contenitore di bombe a grappolo che qualsiasi colono con il fucile può far saltare in aria. Ma lo Shin bet e l’esercito sono ostacolati da una realtà che loro stessi hanno plasmato e mantenuto. La rete spiega come gli attentati siano possibili e perché i loro autori siano numerosi tra gli ebrei osservanti e timorati di Dio.

Secondo il diritto internazionale, i soldati hanno l’obbligo di garantire il benessere della popolazione civile protetta (occupata). Ma l’esercito non rispetta la legge, perché il progetto mirato al furto della terra, che Israele tutela, è in conflitto con il benessere di quelle persone. L’esercito non le protegge dalla violenza dei civili ebrei perché la sua missione primaria in Cisgiordania è proteggere i cittadini israeliani. O, più precisamente, gli ebrei tra loro, in particolare quelli che portano avanti il progetto di espropriazione in cui sono coinvolti gli insediamenti. Anche se non tutti i comandanti e i soldati si identificano con il piano di insediamento, negli anni l’obbligo di difendere solo i coloni ebrei è stato interiorizzato. Generazioni di soldati sono state addestrate a credere che non proteggere i palestinesi sia un valore, un principio indiscusso e un ordine. Di conseguenza i soldati restano in disparte quando ci sono i pogrom contro i palestinesi, o addirittura aiutano i rivoltosi ebrei ad attaccarli e a espellerli dalla loro terra. E quando gli attivisti di sinistra accompagnano i palestinesi, il fatto che siano ebrei non li aiuta. I soldati attaccano ed espellono anche loro.

“Nessuna marcia, raduno o picchetto deve svolgersi senza un permesso del comandante militare”, afferma l’ordine 101 del 1967 sul divieto d’incitamento e propaganda ostile. I palestinesi sanno che se si mettono a difendere un pastore o un contadino, i soldati li “disperderanno” con i mezzi a loro disposizione: dai gas lacrimogeni alle percosse fino ai proiettili.

Per qualche motivo l’esercito non era lì il 4 agosto, quando un gruppo di coloni devoti si sono messi a pascolare il loro gregge sul terreno di Burqa. Un fatto strano visto che i militari stazionano vicino all’avamposto di Ramat Migron giorno e notte. Ma anche se ci fossero stati, sicuramente avrebbero disperso “l’assembramento illegale” dei residenti di Burqa e non i coloni invasori. Questo succede in ogni villaggio palestinese dove la terra o le sorgenti sono occupate dai coloni, o nei frutteti palestinesi che i coloni vandalizzano.

Negli ultimi mesi è successo, per esempio, nel villaggio di Qaryut, a nord di Ramallah. Ogni venerdì, un gruppo di israeliani provenienti dagli insediamenti vicini (Eli, Shiloh e i loro avamposti) va a fare il bagno nella sorgente al centro del villaggio, un metodo per espropriarla (dopo essersi già impossessati delle sorgenti di altri tre villaggi della zona). L’esercito si trova nelle vicinanze (e arriva addirittura prima dei coloni) per impedire ai residenti palestinesi di cacciare i coloni invasori, tra cui ci sono anche bambini piccoli.

Dopo un attacco dei coloni a Turmusaya, in Cisgiordania, il 23 giugno 2023 (Ilia Yefimovich, Dpa/Getty)

Poi ci sono le incursioni notturne nelle case degli abitanti che osano opporsi a queste invasioni: arresti e processi davanti a giudici militari israeliani, seguiti da mesi di prigione e pesanti multe per far sì che i residenti si arrendano e non cerchino di cacciare i trasgressori dalla loro terra.

La legge militare impedisce ai palestinesi di possedere o usare armi. I coloni israeliani, che (quando gli fa comodo) sono soggetti invece alla legge israeliana, ottengono licenze dal ministero della sicurezza nazionale.

Gli agenti delle forze di sicurezza palestinesi ricevono da Israele il permesso di possedere armi, ma solo nei territori della Cisgiordania designati come area a, controllati dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Possono portarle per periodi limitati nell’area b (sotto il controllo civile palestinese e militare israeliano) dopo aver seguito estenuanti regole di coordinamento. Fuori di queste enclave, gli accordi di Oslo gli impediscono di agire. In ogni caso, anche nelle aree a e b, non possono far rispettare la legge e l’ordine quando i coloni attaccano i palestinesi. I poliziotti palestinesi non sono autorizzati a mostrare le armi per tenere a bada i rivoltosi ebrei, figuriamoci a usarle (se lo facessero sarebbero portati in carcere come terroristi). Non possono arrestare gli ebrei nei territori palestinesi, tanto meno fuori.

All’Anp è vietato processare i coloni per incursioni e vandalismo in un tribunale palestinese. “La polizia palestinese sarà responsabile della gestione degli incidenti di ordine pubblico che coinvolgono solo i palestinesi”, dice l’articolo 13 dell’accordo provvisorio di Oslo. L’Anp, guidata da Abu Mazen, rispetta religiosamente questa clausola e non è riuscita ad adattare metodi e tattiche alla nuova realtà.

L’articolo 15 degli accordi di Oslo stabilisce che “entrambe le parti prenderanno tutte le misure necessarie per prevenire atti di terrorismo, crimini e ostilità reciproci” e “contro le loro proprietà”. C’è molta falsa simmetria in questa frase, perché l’Anp non è uno stato sovrano e, come il suo popolo, è soggetta all’occupazione militare israeliana, che non ha intenzione di contrastare la violenza dei coloni. L’Anp non può proteggere il suo popolo, ma ha l’obbligo di agire contro di lui.

La polizia, la sicurezza e i servizi segreti civili e militari dell’Anp, che arrestano le persone per aver criticato la leadership e che Israele vuole dalla sua parte per riprendere le operazioni a Nablus e Jenin, non sono presenti nelle decine di villaggi e comunità sottoposte al terrore quotidiano dei coloni israeliani.

Ad agosto la comunità palestinese di Al Qabun, composta da dodici famiglie (86 persone) di pastori, ha dovuto abbandonare la valle del Giordano a causa delle violenze degli avamposti circostanti. È la quarta comunità della zona costretta a fuggire negli ultimi mesi per una combinazione di molestie dei coloni, divieti di costruzione e movimento decisi dall’amministrazione civile israeliana e per l’assenza di una forza che la proteggesse.

Questa contraddizione e l’ingiustizia che riflette tormentano molti palestinesi in servizio nelle forze di sicurezza dell’Anp. Dovrebbero preoccupare anche i leader di Al Fatah e dell’Anp. Non è chiaro per quanto tempo e a quale costo personale e politico potranno continuare a contenere la rabbia popolare contro di loro. ◆ dl

Amira Hass è una giornalista israeliana. Sarà al festival di Internazionale a Ferrara il 29 settembre.

Da sapere
Numeri in aumento

◆ Secondo le Nazioni Unite, da gennaio ad agosto del 2023 sono stati uccisi più di duecento palestinesi e quasi trenta israeliani in manifestazioni, scontri, operazioni militari e attacchi. Sono stati registrati 591 incidenti causati dai coloni ebrei che hanno provocato vittime palestinesi o danni alle proprietà. I coloni hanno ucciso sette palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Sei palestinesi sono stati uccisi tra la sera del 19 e la mattina del 20 settembre: quattro in un raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, uno in un’operazione a Jerico e l’ultimo durante una manifestazione alla barriera di separazione tra la Striscia di Gaza e Israele.

◆ Gli accordi di Oslo sono stati firmati il 13 settembre 1993 dal capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Prevedevano il riconoscimento reciproco e l’autonomia palestinese per cinque anni, al termine dei quali si sarebbero dovute affrontare le questioni più complesse.


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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati