Nelle prime ore del mattino di sabato 21 ottobre – poco dopo la liberazione delle israeliane Judith e Natalie Raanan, rilasciate da Hamas che le teneva in ostaggio, e poche ore prima che il valico di Rafah fosse aperto per l’invio di aiuti umanitari – i bombardamenti israeliani hanno ucciso circa sessanta palestinesi in tutta la Striscia di Gaza, in base a quanto riportato dall’agenzia di stampa palestinese Sama.

Secondo il ministero della sanità della Striscia di Gaza i bombardamenti israeliani hanno già causato più di cinquemila morti, il 40 per cento dei quali bambini. Più di mille persone risultano disperse: la maggior parte sono quelle che le squadre di soccorso non sono riuscite a estrarre da sotto le macerie e che sono rimaste sottoterra. Alcune sono state uccise nell’impatto delle bombe, altre sono morte lentamente. Alcune stanno morendo mentre scrivo queste parole. Tra le persone uccise la mattina del 21 ottobre ce ne sono sette a Rafah, nel sud della Striscia, come riportato da Al Jazeera. La pressione costante, che soffoca la Striscia di Gaza dal 7 ottobre, si è solo intensificata.

Molti dei miei amici vivono a Rafah o sono stati costretti a fuggire lì dopo che i bombardamenti israeliani li hanno spinti a lasciare le loro case nella città di Gaza

Molti dei miei amici e conoscenti vivono a Rafah o sono stati costretti a fuggire lì dopo che gli avvertimenti e i bombardamenti israeliani li hanno spinti a lasciare le loro case di Gaza e dei campi profughi di Al Shatti e Jabaliya, alla periferia della città. Da qualche giorno è difficile raggiungerli al telefono. O l’infrastruttura è stata danneggiata o la rete è sovraccarica. Ogni giorno lascio messaggi su WhatsApp, che di solito ottengono un solo segno di spunta, cioè non vengono letti perché non c’è internet. Anche le parole scritte su Facebook Messenger sono rimaste senza risposta.

In realtà non sono veri e propri messaggi. Scrivo solo il nome dell’amico, oppure scrivo habibi o habibti (“mio caro” o “mia cara”), o “dove sei?”. Voglio fargli sapere che sto aspettando notizie. Ogni singola spunta o mancanza di risposta è un altro macigno sul cuore. Tra le persone a cui ho scritto ci sono una madre e sua figlia della famiglia Samouni, sopravvissute all’operazione militare israeliana Piombo fuso nel 2009, quando furono uccisi 29 parenti della loro famiglia allargata. Ventuno di loro morirono nel bombardamento di una struttura in cui i soldati avevano radunato un centinaio di persone, dopo avergli ordinato di lasciare le case. Anche la madre e la figlia, al momento, non rispondono.

Secondo il ministero della salute della Striscia di Gaza a partire dal 18 ottobre 79 famiglie hanno perso dieci o più parenti. Circa 85 famiglie ne hanno persi tra sei e nove e 320 famiglie ne hanno persi tra due e cinque ciascuna. Un ricercatore di B’tselem a Gaza, Ulfat al Kurd, ne ha persi quindici in un bombardamento. La più anziana era una donna di 65 anni, il più giovane un bambino di due.

Uno degli obiettivi dei bombardamenti israeliani del 19 ottobre è stato il complesso della chiesa greco-ortodossa nel quartiere Zeitun di Gaza. Come in ogni guerra, anche stavolta la chiesa era servita da rifugio per centinaia di persone, cristiane e musulmane. In quell’attacco sono state uccise 18 persone, tra cui quattro parenti di miei amici che si erano trasferiti a Ramallah dieci anni fa.

Alle 10.30 del mattino del 22 ottobre la mia amica Salma mi ha risposto su WhatsApp. Che sollievo. “Buongiorno”, ha scritto, e ha confermato: “È stata una dura notte di bombardamenti, difficile da descrivere”. Una settimana fa è fuggita da Gaza con il figlio e i nipoti per raggiungere la casa della sorella a Rafah. Le ho risposto: “Spero che tu riesca a dormire ora, perché hanno appena comunicato che il valico di Rafah sarà aperto per venti camion con aiuti umanitari, e sicuramente non bombarderanno durante quel periodo”. Ma lei ha replicato: “Amira, la mia casa a Gaza non c’è più”. “Da quando?”, ho chiesto. “Ora, hanno bombardato tutto il nostro complesso”. L’unica cosa che potevo scriverle è: “Non ho parole”.

Negli ospedali i chirurghi sono costretti a operare con le torce dei cellulari perché non c’è corrente. Le strutture ancora funzionanti ospitano inoltre migliaia di sfollati in cerca di un riparo

Cinque miei amici e conoscenti hanno perso la casa per i bombardamenti israeliani. Due famiglie hanno perso l’abitazione nei primi due giorni di attacchi. Immagino che anche molti altri dei miei conoscenti, che non sono riuscita a contattare, abbiano avuto lo stesso destino. A Beit Hanun, a Beit Lahia, a Jabaliya. Non so dove stiano vagando ora. Non sono nemmeno sicura che siano vivi. Una mia amica e la sua famiglia, compresa la madre anziana, si trovavano in un appartamento a Gaza fino a pochi giorni fa, insieme al cognato sulla sedia a rotelle, quasi completamente paralizzato, il che gli ha impedito di fuggire verso sud. “Siamo nel corridoio. È un po’ protetto”, ha scritto. Quando siamo riuscite finalmente a parlare, mi ha fatto sapere che ero in viva voce, così tutti potevano sentirmi, ma la connessione era discontinua. “Stiamo bene”, mi ha scritto il 20 ottobre. “È stata una notte terribile. Come all’inferno”. Da allora non ho più avuto sue notizie. Vivono vicino all’ospedale Al Ahli , dove la sera del 17 ottobre un’esplosione ha provocato molte vittime. Il 20 ottobre l’ospedale ha ricevuto un avviso dall’esercito israeliano in cui si diceva che i pazienti dovevano lasciare la struttura insieme al personale e agli sfollati che si erano rifugiati lì.

“Almeno il 30 per cento di tutte le unità abitative della Striscia di Gaza è stato distrutto o danneggiato dall’inizio delle ostilità, secondo il ministero degli alloggi della Striscia”, si legge in un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato il 22 ottobre.

Venticinque anni fa avevo accompagnato dei miei amici quando avevano aggiunto un piano alla casa di famiglia nel campo profughi, e poi quando alcuni di loro hanno lasciato il campo o si sono trasferiti a Gaza, risparmiando centesimo per centesimo e perfino indebitandosi. Sono appartamenti in cui ho dormito, in cui sono stata ospite, in cui ho giocato con i bambini, che ormai hanno diciotto o vent’anni. Immagino i libri nell’appartamento della mia amica Salma e in quello sottostante, di suo figlio Karmel. Libri sepolti sotto le macerie, o bruciati. Penso ai giocattoli dei nipoti, ai computer su cui i miei amici hanno scritto storie e articoli, ai documenti di ricerca e alle lettere e alle foto. Quanti di questi sono stati salvati sul cloud? Penso ai mobili nella casa di R e a quelli in quella di N. Ai giardini che alcuni di loro sono riusciti a curare in cortili minuscoli. Quando l’incubo finirà, prima o poi dovrà finire, saranno poveri. Come lo erano i loro genitori nel 1948.

E se Israele dovesse dar seguito alla sua minaccia di restringere ulteriormente la Striscia di Gaza (cioè di occuparne e annetterne una parte), perderanno anche la terra su cui è stato costruito il loro appartamento o la loro casa. Ancora.

Secondo le autorità della Striscia, il 22 ottobre i feriti erano almeno 13mila. Alcuni di loro si trovano negli ospedali, dove i chirurghi sono costretti a operare con le torce dei cellulari perché non c’è corrente. Le strutture ancora funzionanti ospitano anche migliaia di sfollati che cercano un riparo e un minimo di sicurezza. Dopo l’esplosione all’ospedale Al Ahli, la gente sa che nessun luogo è sicuro.

L’Organizzazione mondiale della sanità ha documentato 62 attacchi contro operatori sanitari: 29 strutture che forniscono servizi sanitari sono state colpite e danneggiate, tra cui 19 ospedali e 23 ambulanze. Sette ospedali hanno cessato l’attività perché danneggiati gravemente o perché hanno dovuto far uscire pazienti e personale. Sarà così anche per il grande ospedale Al Ahli o gli sforzi delle Nazioni Unite e delle organizzazioni mediche internazionali lo impediranno?

Tra le vittime incluse nelle statistiche ci sono anche sette persone di una famiglia di miei amici a Rafah. Una bomba israeliana ha colpito una casa vicina alla loro. Due occupanti sono rimasti uccisi. Le schegge, le onde d’urto, i crolli di muri, le finestre saltate, i vetri in frantumi nella casa dei miei amici hanno ferito sette persone. È successo il 12 ottobre, quando gli abitanti del nord della Striscia di Gaza stavano fuggendo verso il sud e verso Rafah.

Il 13 ottobre ho scritto come al solito a Yazan, che ho conosciuto durante la prima intifada, quando aveva 16 anni. “Stiamo bene”, mi ha risposto. Ho approfittato del fatto che internet funzionava e ho fatto una chiamata vocale. Poi mi ha raccontato delle loro ferite. Uno dei bambini è stato trattenuto in ospedale per tutta la notte. Il 20 ottobre mi ha scritto ancora una volta: “Stiamo bene”. Mi ha detto che c’era poca acqua, ma non ha fornito altri dettagli. Ho deciso di non disturbarlo più con ulteriori domande.

Un altro amico costretto a fuggire da Gaza verso Rafah a casa della sorella ha scritto che hanno pagato 400 shekel (circa 92 euro) per una cisterna d’acqua da 500 litri. Ma non si tratta di acqua potabile. Attualmente l’acqua potabile pulita costa 15 shekel al litro, circa 3,5 euro.

Un’altra famiglia di Gaza si è rifugiata nell’appartamento di amici a Deir al Balah, e un’altra famiglia a Khan Yunis. Il 20 ottobre sono state uccise 15 persone nel bombardamento a Deir al Balah e 38 a Khan Yunis. Secondo le Nazioni Unite in questi attacchi sono rimaste ferite centinaia di persone.

Un’altra famiglia di amici ha trovato rifugio in una scuola dell’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa) nel centro della Striscia. Tredici persone della famiglia sono in un’aula di venti metri quadrati. Una nonna è cieca e paraplegica. L’altra soffre di fibrosi. Entrambe erano bambine nel 1948. Uno dei fratelli ha il parkinson. E ci sono due neonati di diciotto mesi, che richiedono l’attenzione richiesta da tutti i bambini. “Ognuno di noi gioca a nascondino con i colpi mortali israeliani. Vinceremo”, ha scritto il mio amico. E poi ha aggiunto: “Finora, fisicamente, stiamo bene”. ◆ dl

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Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 43. Compra questo numero | Abbonati