Quando dopo pranzo Ionela Pădure e suo figlio Milanko fanno un giro per il villaggio di Vizurești, decine di bambini li salutano sorridenti. Le frasi “Buongiorno, professoressa!” e “Come stai, Milanko?” risuonano ovunque, come se le voci che di solito popolano il corridoio della scuola si fossero spostate all’aria aperta.
Da dieci anni la colonna sonora della vita di Ionela, un’insegnante di lingua romaní di 35 anni, è composta essenzialmente da voci di bambini. All’inizio erano quelle degli studenti a rischio di abbandono della scuola media nel quartiere di Ferentari, a Bucarest, in cui Ionela teneva corsi di recupero. Aiutava gli alunni a c0lmare le lacune accumulate e gli dava la possibilità di scoprire da soli che a scuola potevano farcela. Poi sono arrivati i figli dei romeni tornati a casa dopo aver vissuto alla periferia di Parigi, in Francia: con loro ha parlato francese e li ha aiutati a sentirsi meno stranieri nel nuovo paese.
Ora la voce principale delle sue giornate è quella di suo figlio. Ma da due anni, cioè da quando si è trasferita a Vizurești, un villaggio a quaranta chilometri da Bucarest, Ionela ha sempre le braccia aperte, pronte ad accogliere folletti e fatine, come chiama i suoi alunni.
A casa come in classe parla con tono fermo, coprendo tutti gli altri rumori. Le parole che usa provengono dai testi più recenti sulla pedagogia per bambini e sono di solito osservazioni incoraggianti e positive: “Grazie per aver messo i pennarelli al loro posto”; “Apprezzo i tuoi sforzi per provare a farcela da solo”; “Mi fa piacere che tu abbia chiesto aiuto”.
“Vediamo chi riesce a tradurre la seguente frase”, dice ai suoi alunni di scuola elementare una mattina, mentre si esercitano con il verbo avere. Poi scrive con il pennarello sulla lavagna la seguente frase: “Kana me sem xoliame, man si man asva p-o muj”. I bambini leggono in coro e alzano subito la mano.
“Quando sono arrabbiato, ho le lacrime in gola!”, dice ad alta voce un ragazzino. “Bravo, folletto! Hai ragione. Muj significa gola. Però ricordate che vi ho detto che può avere anche un altro significato? In che altro modo possiamo tradurla?”. “Quando sono arrabbiato, ho le lacrime sul viso”, aggiunge un altro bambino.
In classe Ionela punta a piccoli successi come questo. È così che stimola la fiducia degli alunni, spingendoli a trovare le soluzioni e a superare gli ostacoli con le loro forze. “La lezione di romaní è il momento della loro vittoria”, mi ha detto. “Aumenta la loro autostima. Li valorizza e li aiuta a sentirsi inclusi”. È per questo che applaude quando un bambino legge lettera per lettera la parola m-ă-r (mela in romeno) e poi dice phabaj, la traduzione in romaní. Anche a casa Ionela usa il multilinguismo, per esempio quando chiede a Milanko cosa sta combinando e lui le risponde con le mani piene di farina che sta facendo il manro (pane). Con il marito Cristi parla tanto in romeno quanto in romaní, la loro lingua madre.
Ionela lavora a scuola dallo scorso gennaio. Ha un’ora di lezione a settimana con gli alunni di tutte le classi del ciclo primario, circa quaranta bambini e bambine dai sette ai quattordici anni.
Oltre all’insegnamento, dal novembre 2021 ogni settimana organizza un gruppo di studio con dieci-quindici ragazzi del villaggio, i cosiddetti incontri Friends Vizurești: l’obiettivo è guidarli a diventare un esempio per i più piccoli.
Inoltre, sempre dalla fine dello scorso anno promuove anche altre attività per ragazzi e ragazze: balli, lavori con perline, corsi di recupero, picnic.
Il primo segnale
Gli studenti della scuola media iscritti al gruppo Friends Vizurești a volte assistono alle lezioni che Ionela tiene alle elementari. Vengono a salutarla, a regalarle caramelle perché è il loro compleanno, a chiederle quale attività è in cantiere. Alcuni vorrebbero scappare dalle altre lezioni e rimanere con lei, ma l’insegnante gli dà un bacio e li rimanda in classe.
Sa che la cercano perché hanno bisogno di essere visti come lei li vede: folletti e fatine. E sa che farebbero volentieri a meno delle altre lezioni semplicemente perché temono l’insuccesso. Molti sono indietro in diverse materie e mancano di nozioni base, a causa del continuo avvicendarsi degli insegnanti, ma soprattutto perché alcuni di loro già lavorano per aiutare le famiglie o non hanno abbastanza fiducia in se stessi. A questi ragazzi Ionela compra penne e quaderni, e li aiuta a rimettersi in pari in sintassi, grammatica, aritmetica e lettura. “Alle superiori è troppo tardi per colmare le lacune accumulate alla primaria”, sostiene. Una volta, per spiegare le frazioni, ha portato in classe una torta, che gli alunni hanno tagliato, capendo così il concetto di parti di un intero, e poi mangiato. “In questo modo è stato molto più semplice spiegargli che un quarto e un ottavo sono due cose diverse”.
Il ragazzino di terza che di solito non parla e si vergogna perché ancora non sa leggere, durante l’ora di Ionela è felice di riuscire a tradurre correttamente una frase dal romaní. Sa che se sbaglierà non sarà umiliato. “Non ho un metodo segreto”, dice l’insegnante. “Credo solo nel potenziale degli studenti e glielo faccio capire. Resto lì con la loro rabbia, con la loro mancanza di fiducia. Non mi arrendo, anche se so che è questo che si aspettano da me”.
Ionela organizza concorsi settimanali per gli alunni che hanno scelto di studiare la lingua romaní: in premio ci sono dolci, matite, astucci e pennarelli.
Tutti questi sforzi sono frutto del suo impegno personale: non dipendono certo dai duemila lei (circa quattrocento euro) al mese che prende di stipendio né sono finanziati da privati. Tuttavia, l’insegnante spera di potere raccogliere nuovi finanziamenti attraverso l’associazione Centrul popular de cercetare și documentare (Centro popolare di ricerca e documentazione) di Vizurești, fondato insieme al marito Cristi, professore di romaní alla facoltà di lingue straniere dell’università di Bucarest. Entrambi credono di poter cambiare le cose facendo attivamente parte della comunità che vogliono rafforzare e spingendo altri a fare come loro.
Per questo hanno portato a Vizurești tutto il loro bagaglio di conoscenze, accumulate nel tempo, su come incoraggiare i bambini e gli adolescenti ad avere fiducia in se stessi: il pugilato riduce la violenza fuori dagli allenamenti; la lingua romaní è un elemento identitario per far capire ai bambini che appartengono a un popolo sparso in tutto il mondo; i corsi di recupero li aiutano ad acquisire le nozioni scolastiche di base; la danza accresce la sicurezza e rafforza la capacità di concentrazione.
Ionela e Cristi hanno portato a Vizurești tutto il loro bagaglio di conoscenze su come aiutare i bambini e gli adolescenti a sentirsi più sicuri
La lotta ai pregiudizi
Uno dei primi segnali che hanno fatto capire a Ionela di essere sulla buona strada è arrivato quando uno studente di quattordici anni le ha chiesto, con evidente amarezza, perché l’insegnante di storia avesse saltato l’unico capitolo sui rom presente sul manuale di storia. Gli incontri del gruppo Friends le hanno fatto capire quanto sia importante essere rappresentati. Ed è proprio da qui che è cominciato il suo viaggio: dal desiderio di scoprire e dal coraggio di rivendicare questo diritto.
Quando andava a scuola nel suo villaggio natale, Ţăndărei, Ionela Ionela risolveva problemi di matematica per puro divertimento, e imparava così velocemente che i compagni non riuscivano ad associarla ai classici luoghi comuni sui rom. Ricorda ancora il giorno in cui le autorità chiesero alla sua scuola un rapporto in cui fosse indicato il numero di alunni di etnia rom. Immediatamente i suoi compagni puntarono il dito verso Mitică, un alunno di etnia romena che aveva evidenti problemi di apprendimento. Per loro la parola rom indicava prima di tutto una categoria di bambini con difficoltà scolastiche. Ionela non rientrava in questo stereotipo. Ma non aveva altri punti di riferimento per costruire un’identità propria, che andasse oltre l’immagine che di lei avevano gli altri.
Ionela ha conosciuto Cristi sempre a Ţăndărei. La cugina del suo futuro marito era la sua migliore amica. Stanno insieme da vent’anni. Nel 2005 si trasferirono entrambi a Bucarest per fare l’università. Ionela aveva deciso di studiare per diventare assistente sociale: doveva lavorare per mantenersi e se avesse scelto matematica non ce l’avrebbe mai fatta.
Su raccomandazione di un parente, Cristi si iscrisse invece al corso di romaní della facoltà di lingue straniere. Grazie a questa scelta Ionela e il marito frequentavano professori universitari, sociologi e linguisti rom orgogliosi della loro identità. Recitavano in opere teatrali per studenti rom ed erano circondati da giovani che, come loro, vivevano con fierezza questa rivelazione.
Ancora oggi scoppiano a ridere quando ripensano al giorno in cui indossarono degli abiti tradizionali per le fotografie dei libretti universitari, facendo rimanere di stucco l’impiegata della facoltà. “Non riusciva a concepire che potessimo essere studenti universitari”, dice Cristi. “Ci piaceva stupire le persone. Dopo aver represso la nostra identità e aver vissuto in un mondo in cui essere rom era considerato un handicap, all’università abbiamo attraversato una fase di euforia identitaria”.
“Tutto quello che facciamo, lo facciamo insieme”, dice Ionela, mentre Cristi aggiunge che non sarebbe diventato l’uomo che è oggi senza la moglie. Ma ci sono stati anche momenti in cui hanno dovuto stringere i denti. Ionela ricorda bene quando è uscita piangendo dall’aula dopo aver sentito un professore sostenere che i rom “sono tutti ladruncoli”. Una situazione simile l’ha vissuta anche durante il colloquio per un master, nel 2013, quando uno dei professori della commissione le ha chiesto se sapesse ballare. La sua esperienza a scuola, le lezioni di pedagogia non contavano più. Ionela era la candidata esotica, legata ai soliti stereotipi.
In momenti come questi avrebbe voluto avere degli strumenti con cui difendersi. Non per convincere gli altri che si stavano sbagliando, ma per essere in pace con se stessa, per far sì che le parole degli altri non la facessero dubitare del suo valore. È questo il regalo che vuole fare ai bambini di Vizurești: “Vorrei che non arrivassero a vent’anni senza sapere chi sono. Devono capire già da ora che esistono modelli e informazioni”. Sapere chi si è non dev’essere un lusso. Per questo Ionela ha invitato i ragazzi e le ragazze del villaggio a partecipare agli incontri del gruppo Friends: affinché abbiano accesso a uno spazio di apprendimento aperto a tutte le classi sociali, come aveva visto fare nelle università popolari in Francia. Vuole che questi giovani siano degli esempi, che conoscano i propri diritti e la propria storia, che siano orgogliosi della loro origine etnica e capaci di respingere i pregiudizi.
Ionela non vuole che a suo figlio capiti di tornare a casa piangendo perché a scuola i bambini lo hanno chiamato zingaro: “Tutti gli sforzi che faccio, li faccio prima di tutto per Milanko”, dice.
Ed è proprio pensando al suo futuro che ha creato i seminari Ame sam rroma (Noi siamo rom), organizzati da marzo con cadenza mensile a Bucarest. Ionela e una quindicina di ragazzi e ragazze di Vizurești incontrano attivisti e ricercatori rom per discutere di identità, lingua e della rappresentazione dei rom nei film e nelle serie tv.
Nel primo seminario hanno avuto come ospite Adrian Nicolae Furtună, uno dei più importanti studiosi della schiavitù e dell’olocausto dei rom di Romania. Appena arrivato ha spiegato ai ragazzi che non gli avrebbe parlato di storia. “Voglio prima preparare i vostri cuori”, ha detto. E ha mostrato sul suo pc una fotografia che lo ritraeva l’estate prima dell’inizio del liceo nella sua cittadina natale, Bârlad. I ragazzi di Vizurești si sono passati il portatile e sono scoppiati a ridere per il suo aspetto: Furtună aveva dei buffi baffetti, che tra gli altri bambini non erano affatto comuni e che tagliò prima dell’inizio dell’inizio delle lezioni per intregrarsi meglio con i compagni. Poi ha spiegato che lo stereotipo è come una cicatrice che ognuno porta sempre con sé: “Molti di noi percepiscono così la propria identità. Ma la paura si può vincere solo con la conoscenza. Guardatevi dentro”, ha esortato. “Farcela nella vita significa anche accettare se stessi”.
“Penso che il processo sia complicato: per avere il coraggio di affermare chi sono devo prima di tutto stare bene con me stessa”
Lo studio della lingua romaní è uno degli strumenti con cui rafforzare l’autostima dei bambini rom. Sentirsi sicuri quando si parla la lingua materna in pubblico vuol dire anche essere orgogliosi della propria origine etnica.
Tornando a casa
Il cuore di Cristi, il marito di Ionela, è rimasto a Vizurești, dove ha cominciato la sua carriera, facendo il pendolare. In breve tempo i suoi studenti sono passati dalla lettura sillabica a vincere premi nei concorsi nazionali e internazionali di lingua romaní. Per quei bambini il professore era “l’unico contatto con la civiltà”, come gli hanno confessato anni dopo: gli raccontava cosa succedeva nel mondo, gli faceva vedere i film e gl’insegnava la storia dei rom. Cristi usava le sue lezioni per non far sentire i bambini a disagio con la loro identità, un aspetto importante anche nelle relazioni sociali a livello locale: al censimento del 2011, per esempio, solo 267 sui circa 1.200 abitanti di Vizurești si sono dichiarati rom, ma il numero reale era tre volte più alto.
In seguito Cristi ha insegnato romaní a Parigi a persone di tutto il mondo interessate alla cultura rom, ma per lui la magia della scoperta della lingua è rimasta nel piccolo villaggio di Vizurești: è qui che ha visto i suoi studenti diventare orgogliosi del loro idioma, è qui che ha stretto amicizie con le famiglie dei ragazzi che durano ancora oggi. Ecco perché, dopo sette anni di lavoro e di studio a Parigi e la nascita di Milanko, nell’autunno 2018 ha sentito la necessità di mettere un freno ai ritmi “occidentali” della sua vita. Con Ionela hanno deciso di crescere il figlio in una comunità piccola e unita, lontano dalla grande città. E Vizurești è stato il primo posto a cui hanno pensato.
Oggi il mondo di Milanko ruota intorno a due librerie piene di testi sulla lingua e la storia dei rom (alcuni scritti dai suoi genitori), ai seminari moderati dalla mamma a Bucarest, alle danze collettive, agli allenamenti di pugilato con i bambini del villaggio e a un cortile pieno di uccelli.
Ionela è una dei neanche 250 insegnanti di lingua romaní in Romania. I loro studenti sono in totale 17.500. Per capire le proporzioni: nel paese gli alunni rom iscritti all’anno scolastico in corso sono duecentomila.
Dieci anni fa, il numero di professori che insegnavano lingua romaní era circa il doppio (430) e gli studenti erano quasi 23mila, il 30 per cento in più di oggi.
Ionela e Cristi credono che il calo sia dovuto al fatto che chi insegna romaní è isolato dal resto della comunità didattica. Lei, per esempio, si sente “un’insegnante di serie b”, nonostante sia una dottoranda in linguistica.
Le lezioni di romaní si svolgono alla prima o all’ultima ora e solo su richiesta dei genitori. Ionela non ha colleghi con cui confrontarsi su come lo studio della lingua materna migliori le prestazioni scolastiche in generale o su come l’insicurezza e la mancanza d’informazione sulla propria identità culturale aumentino il rischio di abbandono scolastico.
Secondo quello che le raccontano i ragazzi e le ragazze, diversi professori sostengono che studiare il romaní sia una perdita di tempo. Poi ci sono i genitori che minacciano di ritirare i figli dalle lezioni di romaní se non vanno bene nelle altre materie. E ci sono anche quelli convinti che lo studio di questa lingua dia ai bambini un accento immediatamente associabile all’etnia di appartenenza.
Ionela capisce lo stigma legato alla lingua romaní. Né lei né il marito l’hanno voluta studiare a scuola. In base ai dati dell’ultimo censimento, quello del 2011, appena il 40 per cento dei rom romeni parla il romaní. Tutto questo impedisce che le nuove generazioni si avvicinino alla lingua e aiutino a diffonderla. Secondo Ionela, il ministero dell’istruzione dovrebbe ricordare agli insegnanti che la Romania è firmataria della Carta europea delle lingue minoritarie, che si è impegnata a tutelare il romaní e a fare in modo che i rom si sentano liberi di parlarlo ovunque. Studiarlo a scuola non è un capriccio, ma un diritto.
Il censimento giusto
In Romania quest’anno è in corso il censimento della popolazione, il primo dopo quello del 2011. Gli attivisti rom stanno lavorando per fare in modo che le statistiche si avvicinino quanto più possibile alla realtà del paese, in cui vivono tra gli 1,5 e i due milioni di persone di etnia rom. Nel 2011 a dichiararsi rom furono 621.573 cittadini, una cifra in crescita rispetto ai 535.250 del 2002.
Nei comuni dove la popolazione rom censita supera il 20 per cento, le autorità locali sono obbligate a svolgere attività culturali per promuovere il rispetto della diversità, a usare una comunicazione inclusiva nelle scuole, ad assumere funzionari di lingua romaní e a usare sia il romeno sia il romaní nelle affissioni pubbliche.
Secondo i dati del 2011, in 29 unità amministrative della Romania ci sono comunità che parlano una lingua minoritaria (ucraino, turco o ungherese), mentre la percentuale di cittadini rom supera il 20 per cento solo in 24 località del paese. Nei prossimi mesi questi dati cambieranno di sicuro. Ionela e Cristi hanno già compilato il questionario online e hanno barrato la casella “etnia rom” per la loro famiglia, come avevano fatto nel 2011. Ma il censimento gli è sembrato molto complicato da completare per gli altri abitanti del villaggio, a causa del basso livello d’istruzione.
Per molti attivisti rom il censimento è una specie di test sul lavoro svolto negli ultimi dieci anni: sono davvero riusciti a raggiungere anche i rom con una posizione sociale relativamente sicura e che tendono quindi a nascondere la loro identità? Se la risposta è sì, allora le nuove statistiche, che saranno definitive alla fine del 2023, dovrebbero essere più coerenti con realtà. “La situazione migliorerà se avremo le cifre vere”, dice Ionela. “Tuttavia, penso che il processo sia piuttosto complicato: per avere il coraggio di affermare chi sono devo prima di tutto stare bene con me stessa”.
Quando si accorge che i ragazzi e le ragazze hanno tante domande durante i seminari mensili, Ionela capisce di essere sulla buona strada. “Non riesco più a stargli dietro”, mi confessa dopo l’incontro di aprile, in cui gli studenti hanno discusso con Luiza Medeleanu, che fa ricerca sull’immagine dei rom nella cultura popolare, e con Gabriel Zorilă, fondatore del gruppo Facebook Starea Romilor, che pubblica quotidianamente miniritratti di rom celebri, con i quali spera di alimentare l’orgoglio di bambini e ragazzi per le loro radici.
Cose che uniscono
Medeleanu ha mostrato ai ragazzi alcune foto dei personaggi di etnia rom o appartenenti alla comunità nomade dei traveller delle serie televisive Inimă de ţ igan e Peaky blinders e poi gli ha chiesto di riconoscerli e di osservare cosa avevano in comune. I ragazzi hanno subito capito che quei personaggi erano interpretati da attori non rom, con i quali nessuno di loro riusciva a identificarsi.
Poi hanno guardato delle fotografie di persone con origini rom: la poeta Papusza, il linguista Marcel Courthiade, lo scrittore Matéo Maximoff, la scrittrice e attivista Katarina Taikon. E si sono chiesti come mai non ne conoscessero nessuno, nonostante il lavoro che avevano fatto per la cultura e per i diritti dei rom. “È perché siamo sommersi da immagini esclusivamente negative dei rom”, “Il motivo è che i rom sono considerati inferiori e non gli si dà importanza, i giornali e le tv non parlano di loro quando fanno qualcosa di buono”, “Non ce li fanno studiare a scuola”, hanno detto i ragazzi e le ragazze.
“Quando avevamo quattordici anni a scuola nessuno ci aiutava a essere orgogliosi della nostra identità”, gli ha raccontato Zorilă. “Ho avvertito un senso di appartenenza alla comunità solo a 38 anni. Solo trovando le cose che ci uniscono possiamo aiutarci l’un l’altro e accrescere la nostra autostima”.
Dopo più di due ore di conversazione sugli strumenti con cui difendersi dai pregiudizi, Ionela Ionela ha invitato tutti a mangiare una torta che aveva preparato la sera precedente. “Non possiamo portare tutta Vizurești a questi seminari”, ha concluso. “Ma se voi contribuirete a diffondere le informazioni a cui avete accesso, potrete cambiare i soliti discorsi pieni di stereotipi in cui v’imbattete quotidianamente e aiuterete gli altri a stare bene”. ◆ edl
◆ Con l’espressione lingua romaní si indica un gruppo di circa sessanta dialetti di origine indoaria, imparentati con alcune lingue diffuse nell’India settentrionale e centrale. Arrivato in Europa nel medioevo, il romaní – anche detto romaní chib o romanès – è la lingua delle comunità rom, sinti, calé e di altri gruppi di origine nomade. È parlato da 3,5 milioni di persone in Europa e da un altro mezzo milione nel resto del mondo. Il romaní è particolarmente diffuso nell’Europa centrale e sudorientale, soprattutto in Romania, Slovacchia, Macedonia e Bulgaria. Unione europea
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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati