Dall’aula risuona un grido che fa rabbrividire. “Sparisci! Non mi toccare!”, urla una ragazza. E poi di nuovo: “Sparisci!”. A pochi metri di distanza, nel cortile della scuola Ayany a Kibera (una grande baraccopoli nella capitale keniana Nairobi), ci sono alcuni ragazzi con indosso la logora uniforme scolastica marrone. Nessuno sembra far caso alle urla. Uno tiene in mano una vaschetta di plastica e mangia a cucchiaiate il porridge che la cuoca ha preparato per pranzo. “È solo un esercizio”, spiega. “Le ragazze devono imparare ad alzare la voce. E a colpire”.
Circa sessanta studenti della settima classe (che corrisponde alla seconda media italiana) si radunano tra i banchi di legno grezzo. Avanzano una alla volta e colpiscono, prima con i palmi, poi con i gomiti e le ginocchia, i cuscini paracolpi che le tre istruttrici tengono fermi davanti alla lavagna.
Le altre applaudono, incoraggiandosi a vicenda, in modo sempre più frenetico. “Rispetto! Vogliamo rispetto!”, gridano. Il livello dei decibel sfiora la soglia del dolore. In mezzo al gruppo c’è Norah Mudanya, una donna minuta di 52 anni e un metro e sessanta centimetri di altezza, con un berretto bianco in testa, le mani sui fianchi e un’espressione mista di euforia e trionfo. “Non è grandioso?”, ci urla nell’orecchio.
Sulla sua maglietta nera c’è la scritta: “NO!”. È la divisa delle istruttrici di Ujamaa-Africa, un’organizzazione attiva negli slum di Nairobi. Sul suo sito afferma di aver trovato un metodo vincente per combattere la violenza contro le donne e le ragazze. Cioè, difendersi e resistere. Urlare e passare al contrattacco.
È una promessa coraggiosa, e infatti la prima reazione è di scetticismo. Per questo Ujamaa-Africa ha invitato i giornalisti della Zeit ad andare a trovare Mudanya e le sue colleghe.
Kibera è la più grande baraccopoli del Kenya e, secondo alcuni, di tutta l’Africa. Questo mare di tetti di lamiera arrugginiti si estende per 2,6 chilometri quadrati nel centro di Nairobi. Qui vivono almeno 200mila – ma forse anche 300mila – persone che in gran parte guadagnano meno di 1,20 euro al giorno. Fogne a cielo aperto, blackout quotidiani, case allagate a ogni acquazzone, l’ultimo appena quattro giorni fa. Alti tassi di criminalità e di violenza sessuale, soprattutto contro le donne più giovani. Secondo le stime di Ujamaa-Africa e di altre ong, a Kibera una persona su quattro è vittima di stupro.
L’autodifesa è solo una piccola parte del programma offerto da Ujamaa-Africa. È più importante aiutare le ragazze a liberarsi di comportamenti che hanno interiorizzato. In molti casi basta dire “no” a voce alta per fermare un’aggressione. Tuttavia, anche questo bisogna impararlo. Nelle prime sessioni le istruttrici spiegano più volte alle adolescenti che non devono sentirsi in colpa per aver smascherato un molestatore al mercato, per essere scappate davanti allo zio che si era spogliato davanti a loro o per aver risposto male al compagno di scuola che chiedeva sesso in cambio di un pacchetto di patatine. “Ci hanno cresciute inculcandoci l’idea che una ‘brava ragazza’ tiene sempre la bocca chiusa, qualunque cosa succeda”, spiega Mudanya. Crede che sia un problema keniano o africano, ma riguarda le donne di tutto il mondo. Quando pensano che l’importante sia non dare spettacolo. O sperano che l’aggressione finisca da sé. O si colpevolizzano, dicendo che il vestito era troppo aderente, la scollatura troppo profonda, la strada troppo buia o la risposta data al marito in camera da letto troppo brusca.
Ujamaa-Africa dà lavoro a un centinaio di formatrici e formatori. Migliaia di studenti tra i dieci e i diciannove anni hanno frequentato i suoi corsi: dodici ore divise in sei settimane, seguite da seminari di ripasso a cadenza regolare.
Il programma proposto da questa ong è stato valutato più volte da un gruppo di ricercatrici dell’università statunitense di Stanford, le quali hanno riscontrato che tra chi ha frequentato i corsi il rischio di subire uno stupro diminuisce di circa il 50 per cento. Nel 2022 l’organizzazione ha deciso insieme al ministero dell’istruzione keniano di estendere il suo programma a tutte le scuole keniane nell’arco dei prossimi sette anni, con gli insegnanti che saranno formati per fare a loro volta da istruttori.
Finale prematuro
A questo punto l’articolo potrebbe chiudersi con un lieto fine: ecco finalmente una notizia positiva sull’Africa, un continente di cui i giornali si occupano solo per parlare di fame, miseria e guerre. In questo modo, però, passerebbe inosservato un punto importante: le donne di Ujamaa-Africa sono all’avanguardia. Hanno qualcosa da insegnare al resto del mondo.
Nel saggio Against our will (Contro la nostra volontà) la femminista statunitense Susan Brownmiller affermava che l’elemento decisivo della violenza sulle donne non è tanto la superiorità fisica maschile ma “il vantaggio psicologico”. Da quando sono piccoli i maschi imparano a usare il corpo in modo aggressivo e a prendere possesso dello spazio, mentre le femmine sono educate a tirarsi indietro, a farsi piccole, a sembrare bisognose di protezione. “Quello che non ci ha insegnato nessuno”, scriveva Brownmiller, “è combattere e vincere”. Era il 1975.
In quel periodo le femministe statunitensi organizzarono i primi corsi di autodifesa femminile, una decisione che suscitò discussioni all’interno del movimento. C’era chi insisteva sulla presunta natura non violenta del sesso femminile e chi invece riteneva che l’autodifesa potesse essere utile nel singolo caso, ma che non incidesse a livello strutturale. La convinzione che, difendendosi, le donne e le ragazze peggiorino solo la loro situazione è ancora molto diffusa.
Sempre negli Stati Uniti è nata la empowerment self-defense (Esd), che non c’entra niente con le arti marziali: insegna ad acquisire fiducia in sé e a imparare a mettere dei paletti. Nei primi anni duemila Lee Paiva, una statunitense sopravvissuta a uno stupro che sviluppa programmi Esd, ha portato l’idea dei corsi di autodifesa a Nairobi. Paiva ha fatto venire alcune istruttrici negli slum per formare altre donne, tra cui Mudanya. Poi le keniane hanno cominciato a gestire il progetto da sole.
In genere, quando le donne oppongono resistenza alle aggressioni riescono a difendersi, a prescindere dal paese in cui vivono e da chi sia l’aggressore: il marito, il vicino di casa, il capo, il professore, un amico di amici o uno sconosciuto. L’hanno dimostrato diversi studi statunitensi e canadesi. Per chi segue un corso Esd le probabilità di uscirne indenni aumentano notevolmente.
Alle ragazze, spiega la sociologa statunitense Joyce Hollander, che studia l’argomento da più di vent’anni e ha valutato anche il progetto keniano, s’insegna ad ampliare il loro spazio di manovra, anziché a ridurlo costantemente per paura della violenza. La passività indotta, sostiene, “contribuisce ad aggravare il problema dello stupro”. E può essere motivo di controversie, visto che in passato, nei dibattiti sulla violenza sessuale, si sentivano dire frasi come “se non ha reagito, era consenziente”.
Quando si è unito a Ujamaa per proporre modelli maschili alternativi, Okoyo non si è fatto degli amici a Kibera, anzi, ne ha perso qualcuno
Queste considerazioni non tolgono nulla al fatto che i corsi Esd si sono rivelati efficaci e dovrebbero far parte delle misure di prevenzione della violenza, anche nei paesi ricchi. Invece non succede. Negli Stati Uniti e in Europa le risorse sono destinate ai servizi di assistenza che si attivano dopo gli abusi, ai numeri d’emergenza, alle case rifugio e alla consulenza psicologica e legale. Nel 2016 uno studio del parlamento europeo consigliava d’includere l’Esd nelle strategie e nei piani d’azione nazionali per combattere la violenza contro donne e ragazze.
A Kibera, Norah Mudanya sente spesso criticare le ginocchiate e le gomitate. Dal momento che altre hanno affermato “siamo femministe, e insegniamo alle donne e alle ragazze a picchiare gli uomini”, Mudanya e le colleghe preferiscono evitare di definire a quel modo il loro lavoro. Anzi, sottolineano che la loro organizzazione non si occupa solo di ragazze.
Nella scuola Ayany, oltre alle tre istruttrici ci sono anche sei ragazzi con la maglietta nera con la scritta “NO!”. Il capogruppo si chiama Stephen Okoyo, ha 31 anni e viene da Korogocho, un altro slum di Nairobi. Durante i primi corsi Esd destinati alle alunne delle scuole, spiega Okoyo, è diventato chiaro “che, in quelle ore, non basta mandare i maschi a giocare a calcio”, anche perché tra loro molti commettono le violenze. Secondo Okoyo questi adolescenti crescono con la cultura del bad boy, in un ambiente dove lo stupro non è considerato un crimine, ma un segno di mascolinità.
Quando si è unito a Ujamaa per proporre modelli maschili alternativi, Okoyo non si è fatto degli amici a Kibera, anzi, ne ha perso qualcuno. Le prime reazioni che lui e i suoi colleghi suscitano nelle classi maschili sono di disprezzo. Ma poi nelle sessioni successive, quando i formatori raccontano le loro storie – di botte date e prese, di ragazze della famiglia conciate male –, non vola più una mosca. In seguito si formano dei gruppetti di ragazzi che vogliono discutere dei loro problemi: della violenza dei padri, della droga, degli abusi sessuali in famiglia. Anche il programma Ujamaa rivolto ai maschi sarà esteso a tutto il Kenya, in un esperimento che non è mai stato tentato altrove.
Giro per Kibera
Alla fine della settimana che passiamo a Nairobi, Norah Mudanya ci propone di accompagnarci in una passeggiata nel suo quartiere. “Potete scrivere che è una baraccopoli, non c’è problema”, dice. “Non preoccupatevi, non vi succederà niente”.
“Ci hanno cresciute inculcandoci l’idea che una ‘brava ragazza’ tiene sempre la bocca chiusa, qualunque cosa succeda”
Si è trasferita a Kibera più di trent’anni fa, quando ha sposato un uomo del posto. Allora, racconta, era una di quelle donne che a casa non osavano contraddire il marito, che sull’autobus non protestavano quando qualcuno gli palpava il seno, che fingevano di non sentire quando dei ragazzi strafatti di marijuana gridavano delle oscenità: “Erano cose considerate normali e la maggior parte delle donne reagiva così. All’epoca non sarei mai riuscita a gridare, non sapevo nemmeno fare un respiro profondo”.
Mudanya ha cresciuto tre figli lavorando in una baracca di lamiera con la scritta “Beauty salon”, prima di accorgersi che in lei era in atto un cambiamento. A casa ha cominciato a dire la sua, spiega, e poi si è unita a un’organizzazione di quartiere impegnata a convincere le famiglie a non ritirare prematuramente le figlie da scuola e ad aspettare che avessero diciott’anni prima di farle sposare.
Poi ha sentito che Ujamaa-Africa cercava delle persone per una campagna contro la violenza sulle donne e sulle ragazze. Il corso di formazione è durato un mese: respirazione, esercizi per la voce, introduzione al diritto penale, rudimenti di psicologia, un corso accelerato di pedagogia, giochi di ruolo, tecniche di autodifesa.
“Ho rischiato di non farcela”, dice Mudanya, “non ero proprio capace di alzare la voce”. Da allora sono passati dodici anni. Oggi riesce a gridare a pieni polmoni.
Mudanya si fa strada tra la folla, saluta le ex colleghe del Beauty salon e una venditrice di vestiti seduta dietro montagne di abiti usati provenienti dall’Europa. Racconta dei duri scontri con il marito e di quando, alcuni anni fa, mentre seguiva la formazione di Ujamaa, gli ha sbattuto in faccia la definizione di stupro coniugale, che in Kenya ancora oggi non è perseguibile. Ma si sono chiariti: “Io e mio marito ne abbiamo passate tante”.
Lui non è ancora tornato a casa. In appena quindici metri quadrati, fra pareti di argilla attraverso le quali si sentono i vicini, vivono tra le cinque e le otto persone, a seconda delle necessità. Mudanya scalda l’acqua per il tè su un fornelletto a gas. “È stata una buona settimana”, osserva. Ha tenuto otto corsi, ha trovato un posto dove stare per una bambina di undici anni che aveva subìto abusi dal padre, e ha insistito affinché il makenge, l’uomo che riscuote i soldi del biglietto sul minibus, le desse il resto, che di rado le donne riescono ad avere.
“Ho rischiato di mettermi a piangere solo una volta”, e non per questioni di lavoro, ma perché alcuni adolescenti che protestavano contro la disoccupazione e il carovita hanno sfogato la loro rabbia contro il quartiere, dando fuoco alla chiesa. “Ora ci toccherà rimetterla a posto”. Mudanya ha bisogno della chiesa: l’omelia domenicale è il suo unico momento di pausa della settimana, un’occasione per pregare Dio perché protegga la sua famiglia e il quartiere, e la benedica per il lavoro che svolgerà la settimana successiva, quando insegnerà a un’altra ventina di ragazze ad alzare la voce e, in caso di necessità, a dare una ginocchiata ben assestata.
“Perché in fin dei conti è tutto nelle mani di Dio”, afferma Mudanya. Ma ecco che salta la corrente: dopo cinque minuti torna e poi salta di nuovo. Mentre cerca una candela, la lampadina si riaccende. “Che dire? Benvenuti a Kibera”. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati