Chi è stato il primo a emigrare della sua famiglia? “Mio nonno, credo”, risponde Demba Lô. “O magari il mio prozio, forse è stato lui il primo”.

Demba Lô è seduto nell’ombra del suo negozio, lungo la strada principale di Niomré, nel nordovest del Senegal, dove sotto il sole cocente di mezzogiorno circolano più capre che automobili. Due aiutanti, fradici di sudore, scaricano sacchi di arachidi da un camioncino. Come tutti gli abitanti del villaggio, anche Lô non vede l’ora che arrivi la stagione fresca: la vita diventa più serena e il mare più agitato. Più di cinquanta chilometri separano il villaggio dall’oceano Atlantico, eppure dalle condizioni del mare dipende il numero di figli, padri e mariti che Niomré è destinata a perdere.

Nessuno sa bene quando i primi uomini cominciarono ad andare via dalle loro case. In queste zone emigrare fa parte della vita. Dakar, Bruxelles, Saint-Étienne, Lione, Milano, Bilbao: Demba Lô ha lavorato in tutte queste città. “Sempre con i documenti in regola, ovviamente”.

Anche se gli manca un dente Lô, 62 anni, ha un bel sorriso. Indossa un caftano blu, in una mano ha due telefoni e nell’altra un tablet. Tra tutti questi dispositivi, ce n’è sempre uno che vibra o squilla. Lô è vicesindaco, grossista di arachidi e fagioli, capocantiere e referente dell’iniziativa “Un’ambulanza per Niomré”. Ha tre mogli e 18 figli. Insomma, è uno a cui servono più canali di comunicazione.

Niomré si trova circa duecento chilometri a nordest di Dakar, la capitale del Senegal. Il territorio del comune comprende decine di villaggi per un totale di 18mila abitanti, ma non si sa mai chi c’è e chi invece è all’estero. Il confine con la Mauritania è poco distante. “Molti di noi lavorano lì”, racconta.

Ndeye Lô, la sorella di Demba Lô, è la direttrice della scuola coranica. Niomré, 27 novembre 2023 (Carmen Yasmine Abd Ali)

Venti franchi nel 1984

Demba Lô ci guida nella città. Dal municipio andiamo a vedere la moschea ristrutturata, proseguiamo verso le nuove bancarelle in muratura del mercato e poi raggiungiamo l’ambulanza, appena arrivata, parcheggiata in un garage, in mezzo alle macchine edili: è una Renault Trafic, ancora con le targhe francesi. Ovviamente non è nuova, ma di seconda mano, anche se è stata tirata a lucido. Sono tutti investimenti realizzati con le rimesse di chi lavora all’estero, spiega Lô. Tranne l’ambulanza, che lui stesso ha ottenuto da un’ong francese.

La passeggiata finisce in un cantiere: con le donazioni della diaspora stanno costruendo una sala comunale. Tre giovani stanno intonacando un muro di mattoni. “Appena avrò messo da parte i soldi, me ne andrò”, dice uno di loro. “Alle Canarie”. Lô lo guarda scuotendo la testa e il ragazzo ricambia lo sguardo con aria di sfida. “Abbiamo un problema con i giovani”, osserva Lô. “Corrono troppi rischi”.

“Migrazioni e sviluppo”. La Banca mondiale chiama così quello che succede a Niomré. È una storia antica, che si ripete ovunque nel mondo: le persone, in cerca di opportunità migliori, si trasferiscono in città o in un paese vicino, dove le cose vanno meglio. O nei ricchi stati del golfo Persico, in Nordamerica, in Europa. Lì trovano da lavorare, spesso facendo quello che la gente del posto non vuole più fare. Poi mandano a casa una parte dei loro guadagni.

Secondo la Banca mondiale, nel 2022 nei paesi in via di sviluppo, ma anche in Cina e India, sono arrivati 630 miliardi di dollari di rimesse, più del triplo degli aiuti allo sviluppo stanziati dai paesi ricchi. Cento miliardi di dollari sono arrivati in Africa, di cui 2,5 miliardi in Senegal. “Senza gli emigrati saremmo messi decisamente male”, dice Demba Lô.

Lô ha guadagnato i primi soldi europei un giorno d’estate del 1984: venti franchi per un braccialetto venduto a una turista a Saint-Étienne. All’epoca non c’erano l’euro né l’area Schengen né Frontex né l’obbligo del visto. Lui era all’inizio della sua carriera di commerciante.

Negli anni sessanta, dopo l’indipendenza delle colonie, la Francia aveva reclutato migliaia di africani per lavorare nelle fabbriche. Con la distruzione quasi totale dell’agricoltura e dell’allevamento nel Sahel, dovuta alle ondate di siccità degli anni settanta e ottanta, anche Demba Lô, figlio di contadini, andò in Francia. Il suo viaggio fu assolutamente legale: partì con la benedizione dei genitori e una valigia piena di stoffe locali, maschere di legno e bigiotteria. Qualche anno dopo, aveva un permesso di soggiorno e una Renault 12 con cui faceva su e giù per i mercati nei dintorni di Saint-Étienne.

A un certo punto aprì un negozio di souvenir africani, poi un altro. Nel 1998, durante i mondiali di calcio in Francia, le attività di Demba Lô fecero affari d’oro con i tifosi. “Fu un anno fantastico”. Un anno in cui in Francia, dove era già stato introdotto l’obbligo del visto per i senegalesi, ancora nessuno si chiedeva se gli africani che pulivano gli stadi dopo le partite, che rifacevano i letti negli alberghi e lavavano i pavimenti nelle cucine dei ristoranti avessero i documenti in tasca. Così, a Niomré, molte famiglie costruirono un secondo piano nelle loro case, si permisero qualcosa di meglio da mangiare, di comprare un televisore e di andare in pellegrinaggio alla Mecca.

Verso le Canarie

Per gli economisti della Banca mondiale le persone come Demba Lô sono “fattori di sviluppo economico”, non dei “profughi economici”. In Senegal le rimesse della diaspora contribuiscono al 10 per cento del prodotto interno lordo. Nel vicino Gambia, arrivano quasi al 30 per cento.

Oggi l’economia ha un buon tasso di crescita. Ma questo non basta a creare nuovi posti di lavoro in un paese dove l’età media è diciott’anni

Una storia di successo. O forse no?

Abbiamo incontrato Demba Lô a Niomré alla fine di novembre del 2023, pochi giorni dopo il naufragio di un peschereccio nell’Atlantico. A bordo c’erano probabilmente più di duecento persone, quasi tutte senegalesi. Se ne sono salvate 37. Da mesi continuavano ad arrivare notizie simili. Nella stagione calda, spesso il mare è apparentemente calmo e spinge i giovani a imbarcarsi per tentare un viaggio di 1.500 chilometri verso le isole Canarie. Destinazione Spagna, destinazione Europa. Lô conosce quattro famiglie che negli ultimi anni hanno perso in mare almeno un figlio.

In Germania, in Francia e in Italia quando si parla di immigrazione spesso tragedie simili sono presentate come nuovi segni di un assalto dell’Africa all’Europa. È una rappresentazione falsa, che fa comodo ad alcuni politici. In realtà, gli africani costituiscono meno del 15 per cento dei migranti di tutto il mondo e, in gran parte, non lasciano il loro continente. Gli emigrati senegalesi vivono e lavorano per lo più in Costa d’Avorio, Gabon, Mauritania e Marocco. Quelli che cercano di andare in Europa sono senza dubbio in aumento, ma le loro storie parlano di un problema legato più al Senegal che all’Europa.

Omar, 21 anni, uno dei muratori al lavoro nel cantiere, sta facendo una pausa. Se riesce ad arrivare alle Canarie, racconta, andrà in Spagna o in Italia. Alto e allampanato, ha le mani piene di calli per il duro lavoro. In cantiere guadagna circa 150 euro al mese. “Così non posso mettere su famiglia o costruirmi casa. E se mio padre o mia madre si ammalano, non posso aiutarli. Cosa penserà la gente?”.

Proprio dietro l’angolo, c’è la casa di Demba Lô. A due piani, con un’ampia terrazza, le piastrelle alle pareti e gli arredi eleganti è piuttosto appariscente per gli standard locali. Omar ci passa davanti ogni mattina. Sentendolo parlare, ci rendiamo conto che a Niomré l’emigrazione non ha portato solo un certo grado di benessere, ma ha fatto nascere anche una specie d’invidia tra le generazioni.

Da sapere
Largo ai giovani
Stime di crescita della popolazione del Senegal, milioni di abitanti, per fasce d’età (Fonte: ISS AFRICA)

In passato la strada per arricchirsi e aiutare le proprie famiglie nei tempi di crisi non presentava grossi ostacoli, mentre oggi i più giovani devono correre dei pericoli. L’Europa ormai è una fortezza. Omar, convinto che sia impossibile, non ha nemmeno provato a ottenere i pochissimi visti temporanei per lavorare nell’agricoltura in Italia o Spagna. Tenterà di salire su uno di quei barconi sovraccarichi che risalgono la costa in direzione del Marocco e poi fanno rotta verso ovest, verso le Canarie. I più sfortunati sono trasportati dalle correnti a Capo Verde, o finiscono nelle statistiche dei dispersi.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, nel 2023 sono riusciti ad arrivare in Spagna quasi 60mila migranti e rifugiati, la maggior parte percorrendo la rotta atlantica. È a loro che pensa Omar, non ai naufraghi o agli annegati. Per pagare i trafficanti dovrà risparmiare l’equivalente di cinquecento euro. Spesso le famiglie partecipano alla spesa, perché anche a loro conviene: un figlio che trova lavoro in Europa significa soldi e prestigio. Ce l’ha fatta il marito della levatrice, che fa il pasticciere in Italia. Ce l’hanno fatta i mariti delle contadine di Niomré, che nei campi di Almería, in Spagna, raccolgono pomodori. O anche il marito di Fatou Lakhone, 29 anni, venditore a Bilbao. “Ogni mese mi manda più o meno 220 euro”, racconta lei, che con quei soldi paga le rette scolastiche di tre dei quattro figli, le bollette della luce sempre più care, i medicinali, la spesa, i vestiti, le riparazioni.

Duecento euro nel 2024

Ma c’è un rovescio della medaglia. Con i servizi di money transfer chi è rimasto a casa riceve rimesse che vanno dai 150 ai 400 euro al mese. Bastano per tirare avanti, mandare i figli a scuola, assistere le donne incinte, ingrandire le case. I contributi che Demba Lô raccoglie tra gli emigrati del gruppo WhatsApp Taxaw Niomré (Sostenete Niomré) e dall’Associazione degli emigranti bastano a rinnovare le attrezzature per il reparto dedicato a madri e bambini dell’ambulatorio locale o per asfaltare un tratto di strada. Ma non bastano ad aprire fabbriche, negozi e officine, quindi a creare occupazione.

Ogni anno circa duecentomila giovani cercano di entrare nel mercato del lavoro senegalese. Il governo del presidente Macky Sall (al potere dal 2012) ha ampliato le reti stradali e bancarie, e potenziato il settore energetico. Oggi l’economia ha un buon tasso di crescita. Ma questo non basta a creare nuovi posti di lavoro in un paese dove l’età media è diciott’anni.

Inoltre un terzo dei senegalesi al di sotto dei 29 anni non studia e non lavora, e i posti si trovano soprattutto nel settore informale. La situazione è ancora più precaria a causa degli effetti della crisi climatica sull’agricoltura e sulla pesca, che oltretutto subisce la concorrenza dei pescherecci cinesi ed europei attivi al largo della costa. Con ogni probabilità il muratore Omar farà la traversata a bordo di un barcone guidato da un pescatore senegalese.

A Niomré nessuno spera nell’aiuto dello stato. “Il governo è il primo dei trafficanti! Lo scriva!”, si sente esclamare tra gli uomini di una certa età che bevono tè nella piazza del mercato. Il presidente Sall ha appena annunciato “misure urgenti” per limitare l’emigrazione irregolare, stanziando aiuti economici, ma a Niomré pensano tutti che siano solo slogan.

I miliardi di euro investiti dall’Unione europea per contrastare le cause delle migrazioni, invece di contribuire al tasso di occupazione nei paesi d’origine, spesso sono serviti per rafforzare le frontiere esterne. A pattugliare le spiagge senegalesi c’è anche la guardia civil spagnola, mentre i droni del paese europeo sorvolano le coste.

Demba Lô ha aperto un panificio non lontano dal suo negozio. Tutte le mattine alcuni giovani di Niomré preparano centinaia di pagnotte. Ancora non pensano a emigrare. È il contributo di Lô all’economia locale. Certo, qualche centinaio di visti di lavoro per i giovani della sua comunità non guasterebbe, dice Lô: “L’Europa ha bisogno di braccia. E noi ne abbiamo in abbondanza”.

Squilla il telefono: è uno dei suoi figli, quello che lavora a Bilbao. “In maniera perfettamente legale”, sottolinea Demba Lô. ◆ sk

Ultime notizie
Elezioni al più presto

Il 17 febbraio 2024 a Dakar migliaia di persone hanno potuto partecipare al primo corteo autorizzato dalle autorità dopo che due settimane prima il presidente senegalese Macky Sall aveva annunciato il rinvio delle elezioni presidenziali, previste il 25 febbraio. Il rinvio ha scatenato le proteste dell’opposizione e una serie di appelli internazionali a rispettare il calendario democratico. Nella capitale i manifestanti hanno indossato delle magliette nere con la scritta “Aar sunu élection” (Proteggiamo le elezioni), dal nome della coalizione di gruppi della società civile che si sono uniti per reclamare il rispetto della democrazia.

Il consiglio costituzionale senegalese – il più alto tribunale del paese, responsabile tra l’altro della convalida delle candidature alle presidenziali – è stato chiamato il 15 febbraio a giudicare la questione e ha invalidato il rinvio del voto, chiedendo al presidente di organizzare le elezioni al più presto.

Il 5 febbraio il parlamento, dopo che i deputati dell’opposizione erano stati allontanati con la forza dall’aula, aveva deciso di spostare le presidenziali al 15 dicembre. Ora Sall dovrà accelerare i tempi.

Secondo il filosofo ed economista senegalese Felwine Sarr la decisione del consiglio costituzionale contiene “un messaggio chiaro”: “Si può fermare una deriva autoritaria se ognuno si assume le proprie responsabilità e se i cittadini si mobilitano”, ha dichiarato al settimanale Jeune Afrique. L’importante, secondo Sarr, è che si riesca a organizzare il voto entro la fine di marzo, per avere un nuovo presidente entro il 2 aprile, data in cui scade il mandato di Sall.

In Senegal, spiega l’intellettuale, dai tempi dell’indipendenza il sistema politico si è trasformato in un “iperpresidenzialismo” che concentra gran parte dei poteri nella figura del capo dello stato, senza i giusti contrappesi.

“In generale in Africa chi detiene il potere cerca di ostacolare sistematicamente la crescita e l’autonomia delle istituzioni che dovrebbero controllarlo”, osserva Sarr. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1551 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati