Al primo sbarramento c’è un taliban che sorride, perché così gli hanno ordinato di fare. Al secondo, invece, c’è un cartello: “Punto di consegna armi”, bisogna posare il kalashnikov in un armadietto e prendere un numero per ritirarlo all’uscita. La strada si snoda su per la collina coperta di siepi ben curate. Al terzo sbarramento ci perquisiscono e poi, dietro a un portone di metallo, ecco finalmente il vialetto d’accesso all’albergo. Sulle lastre di marmo davanti all’ingresso gli pneumatici stridono.

L’hotel Intercontinental svetta come una fortezza sulla capitale afgana, su questa Kabul mutilata dalla guerra. Quassù non arriva neppure il rumore dei clacson.

Primo albergo di lusso in Afghanistan, l’Intercontinental ha aperto nel 1969, un’epoca che oggi sembra molto più lontana di quanto sia in realtà. Tutti quelli che si sono succeduti al potere in questo paese, in guerra per più di quarant’anni, sono passati da qui. Anche se gli sfarzi del passato sono ormai tramontati, l’Intercontinental resta un simbolo: chi ha in mano Kabul ha in mano l’Afghanistan, e chi ha in mano Kabul ha in mano l’Intercontinental. Oggi l’hotel è gestito dai taliban.

Entrati nella capitale il 15 agosto 2021, i taliban sono ancora un mistero. All’esterno filtrano solo notizie terribili: da due anni donne e ragazze non possono più frequentare scuole superiori, università e giardini pubblici; chi commette adulterio è punito a colpi di frusta.

Tuttavia il più grande esperimento in corso sulle scrivanie di tutto il paese è passato praticamente inosservato. Nell’apparato amministrativo e nelle aziende vicine al nuovo governo, i taliban costringono i miliziani a collaborare con i semplici cittadini. Giovani civili condividono l’ufficio con quei giovani combattenti che un tempo temevano; giovani combattenti si ritrovano seduti fianco a fianco a quei giovani civili che un tempo disprezzavano. È un esperimento importantissimo: a seconda di come andrà, sapremo se questa pace è destinata a durare, se sarà possibile una riconciliazione o almeno una normalità condivisa.

In piccolo, questo grande esperimento si sta svolgendo anche all’Intercontinental. Probabilmente per dare una sbirciata al futuro dell’Afghanistan non c’è posto migliore di quest’hotel, dove si incontrano passato e presente.

Reception

Le vecchie porte automatiche si aprono cigolando. Gli ospiti sono ricevuti a un imponente bancone di marmo. Alle sue spalle, sulla boiserie, diversi orologi segnano l’ora di Kabul, New York, Londra, Dubai: un po’ di cosmopolitismo in questo paese così isolato. All’Intercontinental non accettano carte di credito, perché l’Afghanistan è quasi integralmente tagliato fuori dal circuito bancario internazionale. Un ospite arriva con una busta di plastica piena di banconote.

Samiullah Faqiri (Elise Blanchard)

Nella hall solo un lampadario su due è acceso. “Risparmiamo sull’elettricità”, spiega Samiullah Faqiri, responsabile marketing dell’hotel, che si è subito entusiasmato all’idea di avere un giornalista straniero che si aggira per qualche giorno dietro le quinte.

Con i suoi 28 anni e la barba squadrata a coprirgli un viso tondo, Faqiri lavora qui da due anni, da quando i taliban hanno preso il potere. “Mi sono messo a fare pubblicità come un matto”, racconta nel suo inglese fluente. È stato proprio lui, aggiunge, a inventare lo slogan “Intercontinental for everyone”, che ha fatto stampare su manifesti sparsi per Kabul, anche se sa benissimo che al momento gli afgani che possono permettersi una cena o una notte in un albergo di lusso sono pochissimi. Secondo le Nazioni Unite, infatti, nove famiglie su dieci non sono in condizioni di sfamarsi, mentre una notte nella camera più economica dell’hotel costa l’equivalente di 93 euro, che è la paga mensile di molti afgani.

Ma come ogni responsabile marketing Faqiri ha un fatturato da raggiungere. L’hotel appartiene al governo, che lo vuole redditizio. Tutti i profitti vanno allo stato, che poi li usa per salari e interventi di manutenzione e ristrutturazione. Faqiri però non è un taliban, pur lavorando per loro. Per riferirsi ai taliban, dice “quelli” o “loro”. “Se non raggiungo gli obiettivi non mi uccideranno”, osserva ridendo. Quando ride muove prima il naso, poi le spalle e infine la pancia. Di solito scoppia in questa sua risata molto fisica e contagiosa dopo aver detto frasi che altrimenti risulterebbero pesanti.

Faqiri viene da una famiglia a cui non manca nulla: il padre è professore universitario e vivono tutti insieme nelle immediate vicinanze dell’albergo. Faqiri ha studiato economia aziendale in India e prima che i taliban andassero al potere indossava canottiere e giocava a basket. Oggi, come quasi tutti, porta il salwar kamiz, l’abito tradizionale afgano.

Per raggiungere il suo obiettivo, Faqiri dovrebbe moltiplicare le prenotazioni. Stando a quanto dice, ora le 198 camere dell’Intercontinental sono occupate solo per un quinto. Del resto, se praticamente nessuno stato riconosce i taliban è difficile che i turisti arrivino in massa. Lui però non si arrende. Quando il governo canadese ha messo in salvo gli afgani a rischio, per esempio, ha preso accordi con l’agenzia di viaggi che gestiva l’operazione: chi doveva lasciare il paese si dava appuntamento all’Intercontinental. In questo modo Faqiri è riuscito a far pernottare in 120 camere dell’albergo dei taliban proprio quelli che fuggivano da loro.

La giornata lavorativa di Faqiri termina nel primo pomeriggio. Appoggiato al marmo nero della reception c’è un giovane taliban di nome Mohammed Elyas Niazai. “Ecco il turno di notte”, lo presenta Faqiri.

Faqiri e Niazai, un afgano qualsiasi e un taliban, fanno entrambi parte del grande esperimento dell’Intercontinental e devono trovare il modo di collaborare in nome di un interesse superiore.

Terzo piano

Nel piccolo ascensore dorato il viso di Niazai, 23 anni e una barba incolta, ancora un po’ irregolare, si riflette deformato sulle pareti. Niazai ha gli occhi vivaci e lo sguardo irrequieto di qualcuno che è cacciatore e preda allo stesso tempo.

Alloggia al terzo piano. La stanza 311 è arredata come tutte le altre, posacenere e pesanti tende color verde muschio con piccoli disegni a nascondere eventuali macchie. Al contrario di Faqiri, Niazai vive all’Intercontinental. Il suo ruolo, spiega, è quello di responsabile del personale. Anche lui ha studiato economia aziendale. “Quello alberghiero è un ottimo settore, praticamente senza rischi”, commenta. Nella camera non c’è traccia di oggetti personali, ma magari non è la sua vera camera, visto che dice di averne una seconda, segreta, dove tiene le sue armi, un fucile d’assalto M4 sottratto a dei militari francesi e una Glock 22.

Dietro alla carta da parati increspata dell’Intercontinental si annida il mistero. Niazai riceve continuamente chiamate: è la Gdi, la polizia segreta dei taliban, che gli chiede cosa ci fa un giornalista nell’albergo. Niente passa inosservato, perché loro sono nascosti da qualche parte a monitorare tutto, anche se sembra che le telecamere siano solo nei corridoi. Al terzo piano alloggia un gruppo di russi che non dà confidenza a nessuno.

Dietro al bancone della reception (Elise Blanchard)

Niazai si è unito ai taliban a sedici anni, dopo la morte dello zio e del cugino, uccisi da un’unità speciale dell’esercito nel corso di un’operazione a cui partecipavano anche militari stranieri. È così che è cominciato il suo jihad, la sua personale guerra santa, combattuta per vendetta. Cresciuto in un quartiere povero di Kabul, Niazai per i taliban ha fatto la talpa. Studiava in un’università di Kabul e parlava bene l’inglese, almeno così dice: oggi l’ha in gran parte dimenticato. Sullo smartphone mostra le foto di quel periodo: era un giovanotto con il pizzetto e la frangia pettinata all’ultimo grido. Per conto dei taliban spiava i suoi compagni di corso e, quando gli impegni universitari glielo consentivano, andava fuori città per partecipare agli scontri con le truppe della Nato e l’esercito afgano. Sostiene di saper costruire una bomba con una bottiglia di plastica e due dollari.

Quando arrivava in ritardo e il professore gli chiedeva una giustificazione, Niazai rispondeva in inglese, con una frase di cui va fiero e che ripete ancora: “Legends are always late”, le leggende sono sempre in ritardo.

Tutto questo succedeva anni prima della caduta di Kabul. La capitale sarebbe dovuta diventare il cuore pulsante del nuovo Afghanistan, alla cui costruzione gli statunitensi e i loro alleati avevano lavorato per vent’anni spendendo miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo. Ma le lealtà politiche in questa città non sono mai state chiare.

Il 15 agosto 2021 Kabul è caduta nelle mani dei taliban, che nelle settimane precedenti avevano conquistato una provincia dopo l’altra. Secondo gli esperti Kabul avrebbe dovuto reggere almeno qualche settimana e invece la città non ha fatto alcuna resistenza. A tarda sera i taliban sono arrivati davanti all’Intercontinental a bordo dei loro fuoristrada. Nelle ore precedenti gli uomini della sicurezza dell’hotel avevano abbandonato le postazioni, portandosi via i computer della hall. I taliban hanno sistemato i loro combattenti nell’albergo e hanno mandato a casa i dipendenti, per poi richiamarli due giorni dopo: l’Intercontinental avrebbe riaperto i battenti.

“Inizialmente i dipendenti ci temevano”, racconta Niazai. “Ma avevamo l’ordine di trattarli bene”.

Mohammed Elyas Niazai (Elise Blanchard)

Quinto piano

L’ascensore dorato si ferma al quinto piano, dove converge l’intera storia dell’Intercontinental. A sinistra dell’ascensore c’è il Pamir Supper Club che ospitò feste sfrenate fin dal 1969. Qui si esibirono i primi musicisti pop afgani con i capelli lunghi e le chitarre. All’epoca in Afghanistan c’era ancora il re Mohammed Zahir Shah. Dopo un colpo di stato, nel 1973, prese il potere suo cugino, ucciso cinque anni dopo dai comunisti. Ma le feste non si fermarono: mesi dopo l’omicidio, l’Intercontinental ancora pubblicava sui giornali l’invito al Festival della Baviera, con tanto di buffet per accompagnare le bevute mattutine, “gli schnapps della casa”, sponsorizzate dalla Lufthansa. Nel 1979 l’Afghanistan fu invaso dai sovietici e i funzionari russi sostituirono quelli statunitensi al Pamir Supper Club.

L’Intercontinental sembrava estraneo a quel paese che stava precipitando nella guerra civile. Nel 1989, quando i russi se ne andarono, il nuovo presidente afgano Najibullah sfilò davanti all’Intercontinental a bordo della sua Mercedes nera.

Nel 1992 su Kabul marciarono i mujahidin, miliziani islamici equipaggiati e addestrati dagli Stati Uniti in funzione anticomunista. Mangiavano all’Intercontinental senza pagare il conto e presto cominciarono a combattersi tra di loro nelle strade della capitale: anche l’Intercontinental fu colpito da razzi. Poi gli uomini del famigerato Ahmad Shah Masud presero il controllo dell’hotel.

Al quinto piano, alla fine di un lungo corridoio, sulla destra c’è la Khyber suite, l’attico dell’Intercontinental, con un balcone perimetrale da cui si vede tutta Kabul. Ora la suite è occupata dalle Nazioni Unite per un corso sulla risoluzione dei conflitti interpersonali. Sembra che proprio da qui Masud, armato di binocolo, pianificasse i suoi attacchi. Fino al 1996, quando dal sud arrivò un gruppo di islamisti ancora più radicale: i taliban. Castrarono e poi giustiziarono Najibullah, l’ex presidente con la Mercedes, e ne trascinarono il cadavere per le strade della città prima di impiccarlo sulla pubblica piazza. Dal bar dell’hotel tolsero le sedie, preferendo sedersi sui tappeti.

In questo lungo corridoio al quinto piano non ci sono finestre. A combattere l’oscurità ci sono solo lampade al neon che proiettano ombre scure sulle pareti. Con il suo odore di acido e polvere la moquette soffoca ogni rumore e ogni storia. Ai dipendenti non piace trattenersi al quinto piano: dicono sia infestato dai fantasmi.

Kabul doveva diventare il cuore pulsante del nuovo Afghanistan, alla cui costruzione gli statunitensi e i loro alleati avevano lavorato per anni

L’Intercontinental rimase nelle mani dei taliban fino al 2001. Qui fu organizzata, all’indomani degli attentati contro le torri gemelle a New York, la conferenza stampa durante la quale il ministro degli esteri dichiarò di non sapere dove si trovasse Osama bin Laden: “So solo che non è qui”. Stava mentendo: Bin Laden era ospite dei taliban, motivo per cui qualche mese dopo gli statunitensi invasero l’Afghanistan.

Dopo l’arrivo degli americani e dei loro alleati, l’Intercontinental tornò a essere un ritrovo per diplomatici stranieri, uomini d’affari e personalità dell’élite.

Il nuovo governo affidò a imprese edili amiche la ristrutturazione dell’hotel che però non tornò ai passati splendori: una ditta coprì la terrazza della sala ristorante dove prima, sorseggiando il caffè, si sentiva il vento freddo che spirava dalle montagne; un’altra invece costruì una seconda sala ristorante che sembra quella di una nave da crociera, con le nuvole dipinte sul soffitto, e una terza si portò via le lastre di marmo del giardino per rivenderle. Secondo il personale dell’hotel, all’Intercontinental i funzionari corrotti si servivano come meglio credevano, proprio come in tanti altri posti in Afghanistan. “Quei maledetti hanno distrutto tutto: ora non restano che il nome e l’edificio”, commenta un cameriere che lavora qui da molti anni. “Nient’altro”.

I taliban combatterono per anni in clandestinità, rafforzandosi nonostante la presenza di migliaia di militari della Nato nel paese. Nel 2011 sferrarono un attacco kamikaze all’hotel causando dodici vittime. L’ultimo dei nove attentatori suicidi si fece esplodere al quinto piano, nella camera 523. La camera è stata ristrutturata e ora in bagno le mattonelle sono rosa. Nel 2018 ci fu un secondo attacco: quattro o cinque attentatori occuparono l’albergo per dodici ore uccidendo quaranta persone. Gli ospiti si barricarono nelle camere, rannicchiati nelle vasche da bagno ingrigite con i tappetini antiscivolo. Nella camera 519 alloggiava un prete che morì nell’attacco. L’addetto alle pulizie del quinto piano giura che a volte lo sente fare la doccia.

Nel 2021, appena tre anni dopo l’attentato, i taliban conquistarono Kabul per la seconda volta. Uno dei guardiani dell’albergo, che conosceva alcuni degli attentatori suicidi, dice: “Avevano un incredibile coraggio”. A tirare le fila di quegli attacchi era Sirajuddin Haqqani, oggi ministro dell’interno, che nella sala da ballo dell’Intercontinental tenne un discorso di ringraziamento alle famiglie degli attentatori. Le porte delle camere ancora ricordano quelle azioni: la vernice marrone è stata applicata su acciaio blindato antiproiettile.

Il bar dell’Intercontinental (Elise Blanchard)

Cucina

In cucina, il responsabile marketing Faqiri indica il pentolone in cui viene stufato l’agnello: “L’ho venduto per 230 dollari, scrivilo”. Due famiglie stanno organizzando il matrimonio dei figli e hanno affittato una sala conferenze: gli uomini stanno trattando sul prezzo della sposa. Faqiri li ha convinti a fermarsi per la cena.

In cucina si prepara da mangiare per novecento persone. Ogni giorno, a pranzo e a cena, l’Intercontinental allestisce un buffet. In più oggi bisogna pensare anche al ministero della difesa: i pasti per settecento persone saranno consegnati con un camion con tanto di scorta. L’hotel, infatti, fa anche il catering per i taliban.

Il capocuoco si chiama Sayed Mazaffar Sadat, detto Goldfinger: ha partecipato cinque volte a concorsi di cucina in tv, vincendo quattro volte. Ha conquistato il suo posto all’Intercontinental prima che i taliban prendessero il potere, superando altri venti candidati: “Anche se non avevo nessun aggancio. E senza, in teoria, all’Intercontinental non si entra”.

Sadat sostiene di non aver mai pensato di lasciare il paese, neanche dopo il ritorno dei taliban. Presto rappresenterà l’Afghanistan in un concorso di cucina in Francia e i suoi amici gli consigliano di restarci. Sarebbe solo uno tra i tanti giovani che, legalmente o illegalmente, abbandonano l’Afghanistan in cerca di una vita migliore. Dalla presa del potere dei taliban sono fuggiti 1,6 milioni di afgani che, per la maggior parte, vivono in condizioni precarie nei vicini Iran e Pakistan. “Ma la mia filosofia è questa”, spiega Sadat. “La morte ti viene a prendere anche se lasci il tuo paese”.

Nella cucina rovente, uno dei cuochi di Sadat sta rimproverando un taliban che se ne sta lì con le mani in mano: “Non servi a niente qui, vattene nel tuo ufficio”.

Quando erano arrivati al governo per la prima volta, negli anni novanta, i taliban avevano imposto un loro miliziano solo per il ruolo di direttore dell’albergo. Questa volta, invece, li hanno piazzati in tutti gli uffici e in diversi livelli gerarchici: così, taliban e non taliban si trovano costretti a collaborare.

Ovviamente, da tutto questo le donne sono escluse. Le dipendenti dell’Intercontinental sono state lasciate a casa: dovrebbero continuare a percepire lo stipendio, ma al lavoro non possono tornare. C’è un’unica donna nel personale e la sua postazione è presso una delle sbarre di sicurezza all’ingresso: è addetta alla perquisizione delle ospiti. Si rifiuta di coprire anche il viso oltre al corpo e ai capelli: dice di essere troppo vecchia per queste cose.

La cucina è il regno di Faqiri, che agita le braccia come uno che ha passato tutta la vita a dare ordini. È sempre al telefono per chiarire qualcosa. Niazai invece prova a tenersi occupato in qualche modo: a volte solleva un cestino del pane solo per posarlo subito dopo, oppure si rigira tra le mani un kiwi o magari contempla la data di scadenza su una lattina di Coca- Cola. A quanto dice, infatti, è responsabile anche del controllo qualità.

Sembra che i taliban abbiano voglia di imparare e ad alcuni la dirigenza ha pagato perfino dei corsi di informatica. I nuovi padroni vogliono pace e riconciliazione, ma molti dipendenti sono quanto meno perplessi ritrovandosi ora, in ufficio, seduti accanto a quei ribelli che hanno temuto per vent’anni. “Un miliziano era diventato un mio sottoposto”, racconta un ex dipendente dell’Intercontinental. “Ma che ordini avrei mai potuto dargli? Era armato!”.

Giardino

Niazai si guarda intorno sul campo da tennis abbandonato dell’hotel. È la prima volta che ci viene: manca la rete e la sedia dell’arbitro arrugginisce in un angolo. Ha sentito dire che l’allenatore è fuggito in Spagna: “Ma tanto, chi sa giocare a tennis?”.

Negli ultimi due anni Niazai ha svolto molte mansioni nell’hotel: ora gli tocca quella di responsabile del personale. Ha uno stipendio pari a circa 500 euro al mese e sta risparmiando per sposarsi. Sa già che vuole una grande festa, anche se la sposa deve ancora incontrarla.

La piscina (Elise Blanchard)

“Se domani mi ordinano di fare le pulizie, io le faccio senza discutere”, spiega. Agli ordini si obbedisce e basta.

La catena di comando dei taliban non è facile da ricostruire, ma una cosa è chiara: al vertice c’è l’emiro di Kandahar con i suoi fedelissimi, a seguire i ministri di Kabul e i loro vice. Poi ci sono anche potenti comandanti locali, a Kabul e fuori. I taliban sono un gruppo meno omogeneo di quanto sembri guardandoli dall’esterno. Una volta Niazai ha ricevuto dal suo superiore l’ordine di tagliarsi i suoi amati capelli e lui l’ha fatto subito.

Ma l’ordine che aspetta – quello di tornare al fronte, a un fronte qualsiasi – non è ancora arrivato. Se arrivasse non perderebbe tempo: partirebbe immediatamente. “Quest’hotel per me è una prigione”. Sente la mancanza delle montagne, dei boschi e dell’acqua gelata dei fiumi. Quando si sfila le scarpe e avanza a piedi nudi sull’erba del giardino, sentendola sulla pianta dei piedi, Niazai lascia andare tutti i pensieri negativi.

Secondo piano

Al secondo piano dell’hotel, camere 238 e 239, abita la famiglia Hakimi. Gli ospiti che alloggiano all’Intercontinental non sono molti: ci sono i russi, con il fuoristrada bianco che passa a prenderli ogni mattina; il cooperante indiano; l’uomo d’affari pachistano che vende lampade di sale dell’Himalaya; e gli Hakimi.

Hayatullah Hakimi, 67 anni, e sua moglie Aziza, 64, erano fuggiti dall’Afghanistan nel 1988, quando Hayatullah, che faceva il gioielliere, è finito nel mirino dei servizi segreti. Gli Hakimi hanno vissuto i fasti dell’Intercontinental. Quando chiudeva la gioielleria, il venerdì pomeriggio, Hayatullah portava qui la moglie. “All’epoca ci piacevano i Beatles”, racconta. “La musica pop stava arrivando in Afghanistan”. Le band si esibivano in piscina, mentre le turiste facevano il bagno in costume. L’hotel era un po’ fuori città, circondato da pini, e dagli altoparlanti in giardino risuonava la musica di Ahmad Zahir, l’Elvis afgano morto prematuramente in un incidente d’auto. La coppia mostra vecchie fotografie: lui con baffoni, capelli lunghi e cintura scintillante e la moglie con i pantaloni a zampa d’elefante.

Hayatullah e Aziza Hakimi con le figlie (Elise Blanchard)

“Una volta una cliente mi ha offerto un visto per gli Stati Uniti”, racconta Hayatullah. “Io però non volevo andarmene. Kabul mi sembrava la città migliore del mondo”.

“Nessuno voleva lasciare il paese per trasferirsi in Europa o in America”. aggiunge Aziza. “Erano gli altri a venire qui da noi”.

Dal balcone degli Hakimi si vede tutta Kabul, che negli ultimi decenni è cresciuta avvolgendo l’albergo. Il sole sorge davanti all’Intercontinental e tramonta alle sue spalle. Strutture in cemento bianco collegano il balcone degli Hakimi a quello di sotto: di sopra fanno da ringhiera, di sotto da parasole. Sembra che ciascuna camera abbia delle pesanti ciglia bianche. Il sole bruciante svela crepe nel muro, la città scompare tra polvere e luce accecante. Si sentono il ronzio del condizionatore e le scope dei giardinieri che grattano l’asfalto.

Oggi gli Hakimi vivono in Canada. Sono venuti a Kabul perché le figlie, ormai adulte, possano vedere per la prima volta la città che hanno lasciato tanto tempo fa. Trascorrono molte ore a percorrere strade che non riconoscono più.

“Qui in hotel tutti portavano completi eleganti”, ricorda Aziza. “Gli uomini indossavano l’abito tradizionale solo a casa. È doloroso vedere tutti questi cambiamenti”.

“Piango tutte le notti”, dice Hayatullah. “Spero che l’hotel resti aperto. Fa parte della nostra identità”.

Hall

Faqiri si china su una scrivania che in realtà non è la sua. Il suo posto sarebbe in un angolo ma lui si accomoda come se niente fosse al centro della stanza, al tavolo più grande, quello del suo superiore, un taliban che però non si presenta quasi mai al lavoro. Faqiri digita qualcosa sullo smartphone. Oggi è il giorno dell’indipendenza afgana e lui sta lavorando a un post per i social network. Il risultato è un collage di foto: sotto Faqiri, sopra una bandiera al vento. È quella nero-rosso-verde dell’ex repubblica afgana, ora sostituita da quella bianca dei taliban. “Mi fa venire in mente dei bei ricordi”, dice Faqiri parlando della vecchia bandiera. Poi aggiunge: “La maggior parte delle famiglie ha delle figlie giovani e spera che prima o poi per loro le cose vadano meglio. Io mi auguro che vada tutto bene. Non voglio andarmene”.

Fuggire dall’Afghanistan è costoso e complicato. Perciò molti si augurano che prima o poi la vita sotto i taliban migliori. Oppure aspettano il prossimo cambiamento. La volta precedente i taliban sono rimasti al potere per cinque anni. Solo che oggi il paese non dà segnali di resistenza. Kabul sembra immersa in un letargo e nessuno sa per quanto tempo sarà così. Chi non scappa deve arrangiarsi. Senza agganci all’Intercontinental non entri. Il padre di Faqiri era stato uno dei manager durante il primo regime dei taliban. Dopo la caduta di Kabul gli hanno chiesto di riprendere il suo posto e lui ha mandato il figlio.

Durante il primo governo dei taliban capitò all’hotel anche il mullah Omar, il fondatore del movimento. Alloggiava nella camera 124. Al padre di Faqiri chiese: “Perché non c’è un’anima qui?”. L’hotel non aveva ospiti e il padre di Faqiri gli spiegò: “La gente non viene perché ha paura di voi”. Allora il mullah fece annunciare via radio che tutti gli stranieri che volevano stare al sicuro a Kabul dovevano soggiornare all’Intercontinental. Il giorno dopo l’albergo era pieno, almeno così vuole la leggenda.

Faqiri ha molte idee per riempire l’hotel. Vorrebbe ingrandire la sala da ballo, costruire un eliporto oppure ospitare sul gigantesco terreno che ospita la struttura una facoltà universitaria o un ospedale. Ma per tutto questo servono i soldi e al momento nessuno ne ha.

Per Niazai fare la talpa, spiare gli altri, combattere una guerra segreta era come un gioco. “Ora il gioco è finito”, dice

E poi ci sono i matrimoni. Un tempo nella sala da ballo si facevano grandi feste: un matrimonio afgano significa centinaia di invitati, un’area dedicata agli uomini e una alle donne. I taliban hanno vietato la musica ai matrimoni, ma capita che nell’area donne ci sia lo stesso. Le afgane un modo lo trovano sempre, e i taliban non se la sentono di entrare a controllare. Ma l’Intercontinental è il loro hotel e qui la musica è severamente vietata. Faqiri stima che questo divieto sia costato una fortuna in mancati guadagni: “I taliban devono diventare più aperti, se non lo fanno non potrò mai raggiungere i miei obiettivi”. Probabilmente anche quest’anno l’hotel andrà in perdita.

Anche Faqiri sarebbe potuto scappare. Il 15 agosto 2021, quando è caduta Kabul, un suo amico era in aeroporto e gli avrebbe potuto assicurare un posto su uno dei voli per uscire dal paese. Ma lui ha deciso di restare: non voleva andarsene da solo, prima di aver sposato la sua fidanzata. Il matrimonio è stato celebrato nella grande sala da ballo dell’Intercontinental e poco dopo sua moglie ha partorito un figlio. Faqiri non ha ancora abbandonato del tutto l’idea di andarsene. Gli piacerebbe fare un dottorato da qualche parte. Ma per il momento sta qui e aspetta.

Primo piano

L’ascensore dorato si ferma al primo piano, dove per un breve periodo nelle camere 196 e 197 soggiornò Osama bin Laden. A fianco dell’ascensore dei grossi cavi escono dalla porta della camera 114 per poi sparire sotto la moquette. Dentro la camera c’è la polizia segreta, intenta a osservare i monitor. Prima o poi si preoccuperanno di nascondere meglio quei cavi, commenta imbarazzato uno degli agenti. Più avanti lungo il corridoio, nella camera 122, c’è l’ufficio del direttore, Hafiz Zia-ul-Haq Jawad, che ci aspetta seduto in poltrona. “Di noi taliban si dice che siamo qui per distruggere, ma non è vero: siamo qui per costruire”, spiega.

Jawad dice che lo addolora la decadenza dell’albergo, che non è più degno delle sue cinque stelle. Vorrebbe ristrutturarlo e renderlo accessibile a tutti. “Questo posto ci sta molto a cuore”, sottolinea. Non è chiaro come andranno avanti le cose. La maggior parte del personale è qui da anni, ma i giovani qualificati stanno lasciando l’Afghanistan. I taliban hanno in cantiere una scuola alberghiera e vorrebbero che l’Intercontinental diventasse uno dei migliori hotel di lusso di tutta la regione. Il ministero competente è alla ricerca di investitori. Un’azienda turca ha fatto un’offerta, ma secondo Jawad non era abbastanza consistente: “Non siamo messi così male da svendere l’hotel”.

Jawad sostiene di non fare distinzioni tra dipendenti, per lui l’unica cosa che conta è che tutti lavorino duramente, che siano onesti e servano il paese. “A volte scendo in cucina per far vedere a tutti che sono uno di loro. Nessuno deve pensare che i taliban siano qui solo di passaggio”. Alla parete del suo ufficio c’è una foto dei tempi d’oro dell’Intercontinental, con la gente che fa il bagno in piscina. Qualcuno ha coperto con della pittura bianca le donne sulle sedie a sdraio.

Un tempo nella sala da ballo si facevano grandi feste: un matrimonio afgano significa centinaia di invitati e un’area dedicata alle donne

La sera i pipistrelli svolazzano sopra la piscina dando la caccia alle zanzare che sciamano sopra un po’ d’acqua stagnante. Un residuo verdognolo si disperde nel punto più profondo della vasca che prima o poi sarà riempita di altra acqua. Una zanzara finisce sulle patatine di Niazai che, come ogni sera, si è riempito il piatto al buffet. Faqiri è seduto accanto a lui. Sopra le loro teste un filo di lucine.

Sotto quei lampioncini colorati i segni di decadenza e le crepe – così evidenti alla cruda luce del giorno – svaniscono. Il vento soffia tra i pini. Faqiri ha posato una mano sulla sedia di Niazai: sono amici, dice, e per un momento lo sembrano davvero, questi due giovani sorridenti. Faqiri fuma sigarette sottili. Niazai no.

La maggior parte degli amici di Faqiri ha lasciato l’Afghanistan. Chi è rimasto è sempre stato taliban, solo che lui non lo sapeva. Una volta in India con gli altri studenti afgani aveva girato un video divertente: ballavano davanti all’università. Dopo la caduta di Kabul, uno dei compagni gli ha telefonato per chiedergli di cancellarlo, rivelandogli di essere un taliban.

Per Niazai fare la talpa, spiare gli altri, combattere una guerra segreta era come un gioco. “Ora il gioco è finito”, dice. In un angolo buio vicino alla piscina sono seduti i russi, invitati dal ministero della difesa per riparare alcuni vecchi elicotteri russi in dotazione all’esercito.

Poco dopo chiedo a Faqiri cosa gli piaccia di Niazai. “È un bravo ragazzo e quando c’è da lavorare non si tira mai indietro”, risponde. I taliban hanno bisogno di lui e degli altri dipendenti dell’hotel, che stanno lentamente imparando a gestire l’albergo. Faqiri fa da ponte tra i taliban e i dipendenti e anche tra i taliban e i clienti. Avere a che fare con i nuovi capi non è facile: “Devo riuscire a capirli anche se non danno mai spiegazioni”.

Faccio la stessa domanda a Niazai: cosa ti piace di Faqiri? “Ha un cuore puro e non è mai invidioso”. Chi gli sta antipatico all’Intercontinental comunque ha i giorni contati. Formalmente lui e Faqiri sono pari grado, ma essendo un taliban Niazai è più influente.

Niazai adora andare in motocicletta. Per anni i taliban hanno combattuto in sella a vecchie Honda, seduti su una coperta che di notte gli faceva da giaciglio, sempre pronti a spostarsi velocemente.

Faqiri invece la moto non l’ha mai guidata. Quello all’Intercontinental è il lavoro dei suoi sogni: “Ho intenzione di lavorare duramente per qualche anno e poi basta, smetto”. Il suo obiettivo di quest’anno è un profitto di tre milioni di euro: “Posso farcela”.

Poi, a un certo punto della serata in piscina, Faqiri si alza per andare a casa dove lo aspettano la moglie e il figlio.

Palestra

Passate le 23 i lampadari dell’hotel sono spenti: l’Intercontinental è al buio. La lavanderia giù in cantina ha chiuso, mentre sauna e salone di bellezza sono sempre sbarrati. Solo dalla palestra filtra la luce al neon che illumina le piastrelle bianche. Sulla cyclette, Niazai pedala. Viene qui ogni notte per allenarsi con i suoi amici, racconta. I suoi amici sarebbero le guardie che circondano l’albergo. Stasera però è solo. Ha sostituito l’abito tradizionale con una tuta della Under Armour, una marca sportiva molto popolare tra i soldati statunitensi che erano in Afghanistan. Nei cestini della spazzatura ci sono lattine di Red-Bull vuote.

“La pace è una cosa positiva per l’Afghanistan”, mi ha detto una volta Niazai. “Per noi, però, è noiosa”. Teme di abituarsi a questa vita. Lui che non ha mai avuto paura di combattere ora è spaventato all’idea che prima o poi potrebbe mancargli il coraggio di tornare in guerra.

In palestra molte macchine sono rotte. Al vogatore manca il manubrio: lo ha staccato un amico troppo esuberante. Anche il sacco da boxe è stato distrutto nello stesso modo. Stanotte non si sente volare una mosca: a rompere il silenzio c’è solo il ronzio dei pedali. Niazai dice di non dormire granché, come tutti i suoi amici, del resto. Ci racconta cosa guarda quando è solo nella hall con gli auricolari: video delle operazioni che i taliban portano a termine in tutto il paese, condivisi su gruppi WhatsApp. Non ha bisogno di seguire le notizie: sa molto meglio dei giornalisti cosa succede in Afghanistan.

Quando si piega sul manubrio, i capelli pieni di gel gli ricadono sul viso. Con la tuta addosso potrebbe sembrare un ragazzo qualsiasi. Restituito dalla guerra.

L’Intercontinental è al buio. Niazai ancora non sa quando andrà a dormire. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 130. Compra questo numero | Abbonati