I l 30 dicembre le ragazze si trovano tutte in una villa a Kilifi. Bottiglie sul tavolo, musica sparata da una cassa portatile, la spiaggia e l’oceano Indiano a meno di duecento metri. Hanno già fatto festa insieme a New York, Miami e Ibiza, e ora sono sulla costa keniana.
Come migliaia di giovani africani appartenenti a una classe sociale ben precisa hanno frequentato le migliori università del Regno Unito e degli Stati Uniti. Dopo la laurea alcune sono tornate nei loro paesi d’origine per ricoprire incarichi allettanti nel campo della finanza o in società di consulenza. Altre sono rimaste all’estero e vivono a Londra, New York, Parigi o comunque in una città dove circolano molti soldi. Ma ogni anno, a dicembre, tornano a casa.
Poche settimane fa ho chiamato mia cugina Maria per dirle che devo scrivere un articolo su questa élite internazionale. Maria è cresciuta a Nairobi, ma ha studiato ingegneria in Pennsylvania. Oggi lavora a New York per una grande società d’investimenti.
“Conosci qualcuno che corrisponde alla descrizione?”, le ho chiesto. Si è fatta una risata. Poi mi ha detto che per capodanno avrebbe partecipato al festival Beneath the baobabs (Sotto i baobab), nel paradiso costiero di Kilifi. È lì che si riunisce la classe sociale che m’interessa. Ed è così che sono finito nella villa insieme alle ragazze.
Alle sei del pomeriggio ci stiamo rilassando sul patio. Le ragazze entrano ed escono dalla casa.
“Te lo giuro, sono completamente fuori”, esclama una di loro dall’interno. “Sono fattissima”.
Maria va in casa e torna portando con sé un’amica avvolta in un telo da bagno e con i capelli ancora fradici. “Ecco un’altra ragazza brillante che fa al caso tuo”, mi dice. Poi rientrano.
Dalle stanze arriva musica a palla e tutte sembrano eccitatissime in vista della serata.
“Sei felice! Sei giovane! Sei bellissima! Sei single! Sei ricca!”, grida un’altra voce.
Studiare all’estero è diventato più frequente. Oggi, cosa che non sorprende, le lauree più ambite sono quelle degli atenei statunitensi
Una ragazza molto alta esce sul patio. Ha un fiore tra i capelli e gli occhiali da sole sulla testa. Mi chiede di usare uno pseudonimo nel mio articolo. “Dammi un nome sexy: chiamami Lisa”. Poi ci ripensa. “No, Nyangie. Sarò Nyangie”.
“Scriverai che sono intelligente?”, mi chiede Nyangie.
“Sei intelligente?”, le chiedo io.
“Be’, sì. Ho ottenuto una borsa di studio in un posto in mezzo al nulla”.
La ragazza che prima indossava un telo da bagno torna con indosso un vestito bianco corto. Mi racconta che di solito, quando va in Kenya a dicembre, trascorre il capodanno con la famiglia nella capitale Nairobi prima di rientrare a Washington, dove lavora per un’azienda tecnologica. Ma quest’anno ha più tempo libero e quindi è con noi a Kilifi, per festeggiare in spiaggia, lontano da genitori severi.
Nyangie le dice che può scegliere un nome per il mio articolo. “Oh, allora voglio un nome africano. Com’era chiamato il lago Victoria prima di diventare il lago Victoria? Voglio quel nome. Victoria, ma non coloniale”.
Una vita invidiabile
Ci sono decine di migliaia di persone come Maria, Nyangie e Victoria-non-coloniale. Anche se questa generazione di africani istruiti in occidente è diversa dalle precedenti – più numerosa, più globalizzata e meno politicizzata – il fenomeno non è nuovo.
Nell’ottocento le potenze coloniali offrivano a un numero selezionato di studenti africani un’istruzione in stile occidentale, nella speranza che, una volta tornati in patria, quei giovani brillanti avrebbero amministrato le colonie per conto dei padroni del mondo. Tuttavia, in più di un’occasione gli studenti tornarono radicalizzati, e a volte diventarono i capi di movimenti indipendentisti.
Alla fine degli anni cinquanta, mentre il colonialismo cominciava a crollare e s’intensificavano le battaglie ideologiche della guerra fredda, le potenze occidentali e orientali elargivano borse di studio agli studenti africani. La scrittrice Aminatta Forna ha parlato della “generazione del rinascimento” per descrivere questi giovani che andarono in occidente. Tra loro, c’erano il padre della scrittrice, il politico sierraleonese Mohamed Forna; il ghaneano Joe Appiah, padre del noto filosofo Kwame Anthony Appiah; e un tale Barack Obama Sr., padre del primo studente nero a diventare presidente della Harvard Law Review (e poi presidente degli Stati Uniti).
In alcuni stati africani gli abitanti dei villaggi raccoglievano fondi per finanziare gli studi all’estero dei loro ragazzi, nella speranza che dopo aver ottenuto una laurea prestigiosa tornassero in patria per contribuire all’amministrazione del paese. Il romanzo Non più tranquilli (La nave di Teseo 2017) dello scrittore nigeriano Chinua Achebe racconta la storia di uno di loro, Obi Okonkwo, che ha l’opportunità di frequentare un’università britannica grazie al denaro raccolto nel suo villaggio.
Nei decenni successivi, studiare all’estero è diventato più frequente. Oggi, cosa che non sorprende, le lauree più ambite sono quelle conseguite negli atenei statunitensi della cosiddetta Ivy league, oltre che a Oxford e Cambridge e in una manciata di altri posti. Negli ultimi dieci anni il numero di africani che si sono immatricolati alla Brown university, di Providence, in Rhode Island, è quasi raddoppiato. Lo stesso vale per la Cornell, nello stato di New York. Una delle nazionalità più rappresentate è quella keniana.
Quando questi giovani tornano a casa, in un paese dove quasi il 40 per cento degli abitanti è povero, si ritrovano quasi subito nella fascia più ricca. A Nairobi è facile riconoscerli: hanno tra i venti e i trent’anni, vivono in quartieri centrali come Lavington, Kilimani, Kileleshwa e Spring Valley; mangiano formaggio e bevono vino nel giardino di Chez Sonia; ascoltano musica dal vivo al Geco Café; vanno a ballare all’Alchemist e frequentano il ristorante Nairobi Street Kitchen per la birra e i panini con l’aragosta. Partecipano alle degustazioni di gin. Fanno il brunch. A volte organizzano feste tra ex compagni (l’Harvard club of Kenya, lo Yale club of Kenya, la Oxford and Cambridge society of Kenya). Possiedono piante in vaso e si danno appuntamento al Blankets & wine, un popolare festival musicale che si tiene ogni mese nella capitale. I loro gusti letterari non sono né troppo commerciali né troppo sofisticati: i libri di Delia Owens, l’autrice di La ragazza della palude (Solferino 2022), sono perfetti.
Lavorano per società di consulenza, per aziende tecnologiche, o per ong europee e statunitensi con la missione di salvare l’Africa, in un modo o nell’altro. Nei fine settimana si dirigono verso le località turistiche sull’oceano Indiano: Malindi, Lamu, Dar es Salaam, Kilifi. Per le vacanze più lunghe volano in Europa – non hanno problemi a ottenere i visti – e vanno ai concerti di Beyoncé. Hanno preso l’accento americano. Il sabato giocano a padel, fanno passeggiate nella foresta di Karura o al lago Naivasha, o in “tesori nascosti” segnalati da Vogue, Vanity Fair o dalla Lonely Planet.
La loro è una vita invidiabile, ma le difficoltà non mancano. Molti continuano a sentirsi inadeguati nel loro paese, come si sentivano all’estero. Dovunque abitino, si credono estranei. Bilha, una biologa di 29 anni tornata a Nairobi dopo aver completato gli studi a Yale e a Cambridge, mi racconta che sognava di diventare “una scienziata di successo”, ma a Nairobi ha capito che è impossibile.
Chi è andato a studiare all’estero perché nella vita vuole arricchirsi non ha problemi. Ma, per chi ha frequentato le università straniere mosso da uno spirito idealistico, il discorso cambia. In mancanza di alternative oggi molti finiscono a lavorare per le ong “salva Africa”, pur dubitando che il loro impegno servirà a qualcosa.
Due tipi di studenti
Poi ci sono i genitori. Alcuni si accontentano di vedere i figli laureati per vantarsi con parenti e amici. Non guasta se, al ritorno in Kenya, spuntano lavori appetibili e ben pagati a Nairobi. In questo caso i giovani si sentono ben accolti a casa. Ma per altri l’esperienza è meno gratificante, sono assillati dalle stesse domande: perché tornare? Non era meglio vivere negli Stati Uniti o nel Regno Unito?
Agli idealisti va ancora peggio. Partiti con l’obiettivo di tornare per aiutare i loro connazionali, una volta in patria non sanno più come muoversi. Questo è il destino di Obi Okonkwo, il personaggio di Achebe: gli abitanti del suo villaggio, Umuofia, si aspettano che lui li aiuti come loro l’hanno aiutato, ma non riesce a farlo e si attira il risentimento della comunità.
Maria, Victoria e Nyangie hanno deciso di lavorare negli Stati Uniti. Maria sta cercando di ottenere una green card, mentre Nyangie vuole frequentare un master in epidemiologia all’università Drexel di Philadelphia. Vivono a cinque minuti di distanza l’una dall’altra. Quasi tutti gli amici che hanno a Philadelphia sono keniani.
Chiedo a Nyangie se pensa di tornare in Kenya un giorno. “Solo se mi pagassero un sacco di soldi”, risponde. In ogni caso la madre non vorrebbe, perché è convinta che lei e i suoi fratelli maggiori sarebbero più realizzati altrove.
Per Nyangie la scelta è resa più facile dal risentimento che prova per i politici del Kenya e il modo in cui governano. Ma il suo disprezzo verso gli Stati Uniti è ancora maggiore, spiega.
Mi chiedo fino a che punto dica il vero. Del resto, ha scelto di rimanere in America e ho l’impressione che cerchi di trovare una quadratura del cerchio. Nyangie odia le armi e il capitalismo spietato.
“Almeno qui il capitalismo rispetta la sacralità di dicembre. Dopo il giorno del Jamhuri si ferma tutto”, ricorda, riferendosi alla festa della repubblica keniana, che si celebra il 12 dicembre. “Se non hai finito un lavoro prima del Jamhuri, significa che non era importante”.
Ad alcuni mesi di distanza, le chiederò di nuovo del suo tanto sbandierato odio per gli Stati Uniti. “Finché sono giovane sono disposta ad affrontare il capitalismo assassino, se mi garantisce il futuro che voglio”, mi risponderà. “Ma il mio obiettivo è sempre andare via”.
Non tutte, nella villa, hanno studiato all’estero. Nel patio incontro Juliet, che è nel campo della finanza a Nairobi. Alicia (la chiamerò così) lavora invece per una società tecnologica. Il suo umore è parecchio variabile: va dall’entusiasmo per il festival alla tristezza per una storia appena finita, all’eccitazione di cominciare un nuovo flirt per superare la delusione.
Le ragazze che studiano o lavorano negli Stati Uniti provengono da famiglie di professionisti: piloti, medici, professori. Mi spiegano che in questi ambienti si scherza sul fatto che nei college statunitensi si trovano due tipi di studenti africani. Da una parte ci sono le Maria, Nyangie e Victoria: ragazze della classe media che, grazie agli ottimi voti, si sono meritate delle borse di studio e si mantengono all’università con i prestiti per gli studenti e i lavoretti part-time.
Poi ci sono gli altri: quelli che per Natale (e forse anche per Pasqua) tornano a casa in jet, che non hanno mai problemi di soldi e vanno a Miami o a Cancún per il fine settimana. Secondo le ragazze, sono i figli degli uomini che hanno mandato in rovina il paese.
Verso le otto di sera, saliamo in auto per andare al festival. Brian, a cui tocca guidare, perde la pazienza con chi continua a bere nella villa.
“Abbiamo la macchina tutta la notte, possiamo sbronzarci anche lungo la strada”, esclama.
In macchina siamo in sei, stretti come sardine. Brian sfreccia attraverso il centro abitato, con la musica a tutto volume. “Sei come Big Daddy”, dice una delle ragazze (il riferimento è a un noto youtuber keniano). È contenta che ci sia Brian a occuparsi di loro a Kilifi, scarrozzandole in giro.
“No”, risponde Brian. “Sono una principessa. Sono nella mia fase da principessa”.
“Pensate che le persone di Kilifi ci detestino?”, chiede Victoria.
“Sì”, risponde Maria.
In macchina parlano delle loro madri, dei collegi dove sono state mandate e dei disturbi emotivi che gli hanno causato, dell’età che avevano quando hanno smesso di essere allattate, di Burna Boy (“lo so che è problematico, ma la sua musica è una bomba”) e del fatto che ai vecchi tempi avere un lettore dvd in auto era un segno di ricchezza.
Quando arriviamo nel parcheggio del festival, le stelle brillano sopra di noi. In lontananza si sente la musica. Camminiamo fino all’ingresso. “Stasera voglio trovarmi qualcuno da scopare: tenete gli occhi aperti”, dice Alicia.
Festaioli e professionisti
Parlo con Matt Swallow, il direttore creativo del festival. Mi spiega che il Beneath the baobabs nasce da “un gruppo di persone attente all’ambiente che vuole unire la gente”. Kilifi, con le sue spiagge bianche, le barriere coralline e il sole tutto l’anno, è forse l’unico posto in Kenya dove si possa immaginare di organizzare un evento di questo tipo. A Kilifi si può fare festa fino all’alba su un dhow (una barca a vela), giocare a golf sull’unico campo professionale certificato di tutta l’Africa o fare una nuotata nel fiume. Chiedo a Swallow che tipo di gente frequenti il festival. “Quasi tutti hanno tra i 25 e i 35 anni”, un miscuglio di giovani professionisti, “festaioli di Nairobi”, espatriati e molti stranieri che arrivano a dicembre, al culmine della stagione turistica.
Entrate nell’area del festival, le ragazze scompaiono tra la folla vicino al palco centrale. Il posto non somiglia affatto al resto del Kenya
Quando attraversiamo i tornelli d’ingresso, chiedo a Victoria come si sente. “Non sono una grande appassionata di afro-house”, mi confida. “Ma voglio bene a Maria e lei mi ha trascinato a un’infinità di feste house a New York. Ci siamo divertite. E poi siamo a Kilifi, che emozione!”.
“Siete qui per farvi dei nuovi amici? Non ditemi che volete farvi dei nuovi amici”, interviene Maria.
“Io cerco dei nuovi amici!”, conferma Alicia.
“Sì, questo lo sapevamo già”, scherza Maria.
Entrate nell’area del festival, le ragazze scompaiono tra la folla vicino al palco centrale. Il posto non somiglia affatto al resto del Kenya. Il pubblico è composto per metà da bianchi, che nel paese sono meno dell’1 per cento della popolazione. Fatto non meno importante, la quantità di top trasparenti è decisamente più alta di quelli non trasparenti. Sempre che ci sia qualcosa da indossare. Per quanto posso constatare, l’80 per cento degli uomini è a petto nudo, in un profluvio di pettorali, bicipiti e addominali.
La gente si affolla intorno ai bar, ai banconi con le cose da mangiare e a quelli dove si possono ottenere preservativi, lubrificanti, test dell’hiv, pillole del giorno dopo, spirali e altri contraccettivi. Tutti sono lì per divertirsi, ascoltare buona musica e fare sesso in modo sicuro e responsabile.
Su una delle balle di fieno disposte ai lati del palco principale mi siedo vicino a Audrey, 28 anni, laureata a Princeton e rientrata in Kenya finiti gli studi. Indossa pantaloncini neri e un top trasparente, e ha in bocca un lecca-lecca. È al festival con i genitori e alcuni amici. Le chiedo com’è ritrovarsi in Kenya. È contenta?
“Tutto quello che fai non è mai abbastanza”, risponde. “Ognuno ha la sua idea su cosa dovresti essere e sul successo”.
Audrey è tornata a Nairobi perché vuole vivere in un posto dove ha la sensazione di capire come funzionano le cose. A Princeton le capitava spesso di chiedersi se fosse abbastanza intelligente, ma ora quei dubbi sono spariti. I suoi amici rimasti negli Stati Uniti lavorano per società d’investimento. “Non credo che sarei stata felice nel mondo della finanza o in un posto come la McKinsey”, confessa.
Le chiedo se si vede con altri ragazzi tornati in Kenya come lei. La risposta è sì. “Condividiamo un’esperienza comune. Tra di noi non c’è bisogno di tante spiegazioni”. Poi aggiunge: “Un sacco di volte mi sento in colpa perché posso viaggiare nel resto del mondo, cosa che la maggioranza dei keniani non può fare”.
Intorno a noi la folla comincia a cantare. Audrey alza la voce per farsi sentire. Elenca alcuni dubbi che l’hanno assalita dopo il suo improvviso ingresso nella classe medio-alta: “Come devo relazionarmi con gli altri? Come devo pagare gli autisti di Uber? E quello che guida il mototaxi? Sto pagando troppo la donna di servizio?”.
Poi si ferma un attimo. “Mi intervisti proprio ora che sto fuori di brutto”.
Le chiedo come si sente.
“Sono connessa con la terra, ma allo stesso tempo sono al di sopra di tutto”.
Le parole di Claudia
Quella notte, quando vado via, penso ad amici che hanno seguito lo stesso percorso di Audrey, che sono tornati invece di restare negli Stati Uniti o nel Regno Unito. Molti sognavano di aiutare le loro comunità o di diventare artisti. Avevano scritto per giornali universitari, organizzato mostre, allestito spettacoli. Ma una volta rientrati in Kenya non avevano possibilità di realizzarsi. Spesso sentivano la pressione che deriva dall’aver ottenuto una laurea, cioè la pretesa che un titolo di studio di livello portasse a un impiego di livello, come mi raccontano Audrey e Bilha.
A volte nemmeno questo bastava. I miei amici pensano spesso ai loro ex compagni di studi a New York, e sentono di essere rimasti indietro, senza poter recuperare terreno.
Le ragazze rimangono al festival fino alle sette del mattino. Quando torno alla villa, le trovo ancora a letto a combattere con i postumi della sbornia. C’è una nuova ragazza, Claudia, arrivata la mattina presto. Claudia è cresciuta a Kilifi prima di frequentare la Wesleyan university, in Connecticut, poi Oxford (con una borsa di studio Rhodes) e infine la Columbia university. Quel giorno indossa un costume da bagno arancione e si riposa su un lettino imbottito sul patio, accanto alle due sorelle minori.
Quando Claudia parla, tutte si fermano ad ascoltarla. Discute di questioni di classe e razza a Kilifi, del fatto che eventi come il festival Beneath the baobabs hanno creato delle bolle che separano i vacanzieri dagli abitanti neri della città. A vent’anni era un’attivista locale. “Ma ora che mi sono trasferita non so se ho il diritto di parlare a nome delle persone che vivono qui”, osserva.
Claudia si sente un’estranea. Subito dopo essere atterrata all’aeroporto, ha incontrato alcuni familiari che vivono a Kilifi. Quando ha manifestato rabbia per un episodio di razzismo che aveva subìto, la zia ha minimizzato, dicendole che la sua mentalità da americana la rendeva troppo suscettibile.
“Pensano: sei andata negli Stati Uniti e ora vuoi insegnare a tutti come vivere”, commenta Maria.
“Sembra che ci siamo portate dietro le politiche razziali”, aggiunge Claudia.
“Ci sono tante piccole aggressioni che non percepisci finché non ti trasferisci all’estero”, dice Maria.
Poi parlano di com’è strano tornare in Kenya e ritrovarsi in un posto dove ci sono solo persone nere.
Alicia: “Per esempio, ieri eravamo in piscina e un tizio bianco è venuto a chiederci: ‘Con chi siete venute?’”.
Maria: “Non capivamo bene cosa intendesse e abbiamo risposto: ‘Siamo qui da sole’. Poi lui ha portato sua moglie, nera, per parlare con noi”.
Alicia: “L’ha fatto come se dovesse giustificarsi”.
Le sorelle di Claudia si alzano. Devono andare a casa a cambiarsi prima della seconda serata del festival.
“Se la mamma ha cucinato qualcosa di buono, tipo il chapati, avvertitemi, così vengo anch’io”, dice Claudia.
Da nessuna parte
Dopo che le due ragazze vanno via, ricominciano a parlare della questione razziale. Dei keniani bianchi, che ancora sono i “coloni”. In epoca coloniale le famiglie bianche arrivate dal Regno Unito ricevevano grandi appezzamenti di terra. Oggi quei terreni sono ancora una fonte di ricchezza, oltre che di risentimento.
A Kilifi, una delle poche aree del Kenya con una buona parte di bianchi tra la popolazione, la storia degli espropri coloniali è visibile ovunque. “C’è un’enorme differenza tra coloni e turisti”, spiega Claudia. “I coloni non si mescolano con i neri”.
Claudia cita il caso di un bar molto frequentato vicino alla villa, che si dice offra un servizio migliore ai clienti bianchi e ignori i neri. “Il motivo per cui ci vado è che voglio sostenere la gente che ci lavora. Lascio mance abbondanti direttamente a loro. Li aiuto a provvedere alle loro famiglie. E anche se boicottassimo il bar…”.
Maria sospira tristemente. Ormai non si sente a casa da nessuna parte, né a Nairobi né a New York, dove abita da quando ha finito l’università. “Non so come vivono le persone del posto da cui vengo. A New York non conosco gli inquilini del mio palazzo. Non è la mia comunità”.
“Io sono ancora coinvolta”, osserva Claudia. “Ogni volta che torno, cerco di parlare con la gente”.
Poco dopo le ragazze ricominciano a parlare di legami. “Forse vivendo all’estero”, ipotizza Claudia, “ti abitui a discutere delle cose, mentre per chi è rimasto è una cosa nuova”.
“Certo, per noi è uno sforzo minimo”, risponde Maria.
Alicia è ancora in silenzio, non interviene.
Saliamo su due tuk-tuk. Io mi metto davanti, di fianco al guidatore. Il sedile è così stretto che sono appoggiato solo per metà
Maria continua: “Come ieri, quando eravamo in fila. Volevo ricaricare il telefono e mi chiedevo se accettassero Apple Pay. E volevo chiedere ad Alicia se era da scemi domandare se avevano bisogno di una carta fisica”.
“Ti ho detto che potevi chiederlo: quella è la tua realtà”, le risponde Alicia.
“Mi sento così sconnessa”, ribatte Maria.
“Anch’io”, dice Claudia.
Nyangie esce sul patio, vestita per la serata.
“Oh wow! È ora di prepararci”, esclama Maria.
Quando Claudia, Alicia e Nyangie entrano, io rimango da solo con Maria.
“Anch’io sto cercando un legame simile a quello che Claudia ha con Kilifi”, confessa. “Non ho un posto così, perché quando ero piccola ci trasferivamo spesso. Poi sono andata in collegio. Non ho un luogo speciale nella mia vita, un posto dove non devo usare Google Maps per spostarmi”.
Nel libro di Chinua Achebe, quando Obi Okonkwo era in Inghilterra, “il suo desiderio di tornare a casa si acuì diventando un dolore fisico”. Ma negli anni cinquanta Obi poteva permettersi solo di prendere la nave. La difficoltà del viaggio gli impediva di rientrare prima della laurea. Quando finalmente ci riuscì, si sentì sperduto nella nuova Nigeria.
Per Maria, Nyangie e Victoria è diverso. Nel ventunesimo secolo ci sono voli diretti tra Nairobi e New York. Chi vuole può tornare a casa più volte all’anno. Eppure questo non allontana lo spaesamento che provano le ragazze stando lontane dal posto dove sono cresciute. La loro privazione, anche se diversa da quella di Obi, è comunque bruciante.
Luna gigante
Alle nove di sera Nyangie e io siamo ancora sul prato a guardare le stelle. Le mostro la costellazione del Toro e la cintura di Orione, facili da riconoscere. Ancora più evidente è Giove, luminoso e vibrante. Pochi minuti dopo, lei va sul patio ad aspettare le amiche. “È capodanno, cazzo! Un po’ d’energia, per favore!”, esclama Nyangie.
Victoria e Claudia escono.
“Abbiamo due ore per trovare qualcuno da baciare allo scoccare della mezzanotte”, dice Nyangie.
Camminiamo fino a un bar poco lontano dove ci sono molti ragazzi, più bianchi che neri. Tutti sono giovani e belli ed è chiaro che andranno al festival, anche quelli che non sfoggiano i braccialetti. Davanti all’ingresso Alicia, che non ha mai vissuto o studiato negli Stati Uniti, dice: “Sai cos’è che non mi piace? Il fatto che dopo un po’ prendo il vostro accento”.
Saliamo su due tuk-tuk. Io mi metto davanti, di fianco al guidatore. Il sedile è così stretto che sono appoggiato solo per metà e con una gamba tocco lo sterzo, infastidendo l’autista. Non c’è la portiera, e tutte le volte che il veicolo curva ho paura di essere sbalzato fuori. A un certo punto l’altro tuk-tuk ci raggiunge e ci affianca. Sembra di stare in Tokyo drift, ma con i tuk-tuk. Anche Alicia è seduta davanti. Ci saluta, poi il suo autista schiaccia l’acceleratore e ci semina.
Quando attraversiamo il ponte sul Kilifi creek, la luna è gigante e splendente. Ha fatto caldo tutto il giorno, ma in quel momento arriva una brezza dal mare leggera e fresca, rinfrancante. Penso a quanto potrei divertirmi se non fossi terrorizzato di cadere. L’autista fa una curva, poi un’altra. A ogni cambiamento di traiettoria il mio corpo finisce sempre più fuori dal sedile.
Quando arriviamo al festival mancano 45 minuti a mezzanotte. Ci sono ragazzi che camminano sui trampoli e un tizio con indosso un paio di corna finte che saluta Nyangie. Vive a Wembley e Nyangie ha vissuto a Londra.
Tutto odora di canne e sudore. Ci avviciniamo al palco. Le ragazze comprano da bere. C’è sabbia ovunque. Alicia scompare subito, alla “ricerca”.
Vicino al palco principale, Victoria e Nyangie si spruzzano un po’ di profumo sui polsi. Mancano 22 minuti a mezzanotte. “Ci rinuncio a trovare qualcuno da baciare”, dichiara Nyangie.
Sul palco il dj si agita alla consolle circondato da un gruppo di ballerini. Nyangie e Victoria ondeggiano sul posto con i bicchieri in mano. Maria ha una bottiglietta d’acqua. Nessuna sembra particolarmente emozionata. A bordo del tuk-tuk hanno discusso animatamente, e sembrano aver perso l’energia.
Per loro era importante tornare in Kenya insieme per festeggiare l’anno nuovo. Studenti nella stessa università in un paese lontano da casa, hanno stretto un’amicizia profonda basata anche sulla nostalgia. Dopo il college sono rimaste negli Stati Uniti, dove il loro legame è stato cementato dall’ambizione che le aveva spinte a partire e dal senso di spaesamento che hanno provato dopo aver raggiunto i loro obiettivi.
La vera tragedia
Intorno a noi tutti esultano. Il brano diventa un botta e risposta tra il pubblico e il dj, che cerca di scaldare la folla in preparazione al nuovo anno.
Dieci minuti prima della mezzanotte tutti si stringono intorno al palco centrale. Tra le luci delle torce e i bassi al massimo volume, comincio ad avere mal di testa. A cinque minuti dalla mezzanotte Nyangie si muove con più energia.
“Venite avanti”, grida il dj. Maria ondeggia sul posto, come Victoria, che balla con gli occhi chiusi e la testa rivolta verso l’alto.
Due minuti a mezzanotte, la folla s’infiamma. Le luci vorticano. Tutti prendono i telefoni in mano.
Manca un minuto e cominciamo a contare i secondi. Maria, Nyangie e Victoria si scambiano occhiate mentre ballano. Parlano tra loro ma non riesco a sentirle. Forse la tragedia di Obi Okonkwo è che non aveva nessuno con cui condividere le sue esperienze, nessuno che capisse il suo senso di colpa, l’ambizione, la solitudine e la responsabilità che la sua istruzione gli aveva messo addosso.
Maria, Nyangie e Victoria possono contare l’una sull’altra. E pazienza se hanno appena litigato. Sono lì, vicino al Kilifi creek, ad ascoltare musica dance e a contare i secondi che mancano a mezzanotte. Insieme. ◆ as
Carey Baraka è uno scrittore e giornalista culturale nato a Kisumu, in Kenya. Vive nella capitale keniana Nairobi e collabora con siti e riviste internazionali, tra cui The Guardian, The Atlantic e The Johannesburg Review of Books.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 122. Compra questo numero | Abbonati